Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Una parola negli occhi
Una parola negli occhi
Una parola negli occhi
E-book247 pagine3 ore

Una parola negli occhi

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

In un ambiente alpino, coronato dalle guglie dolomitiche, si muovono personaggi molto particolari: un raccoglitore di rifiuti, un becchino, un ragazzo che scrive con gli stuzzicadenti, gli adepti di una setta misteriosa che rapiscono i bimbi appena nati… Ma la vera protagonista è la lingua, in tutte le sue variabili. Lingua scritta, parlata, dialetti, lingue antiche, infantili, libri, manoscritti, disturbi linguistici.
Alla fine il ricco puzzle, narrato con stile originalissimo, ricompone le sue tessere e svela la soluzione del mistero.
LinguaItaliano
Data di uscita8 apr 2020
ISBN9788864599878
Una parola negli occhi

Correlato a Una parola negli occhi

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Una parola negli occhi

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Una parola negli occhi - Marco Forni

    Marco Forni

    Una parola negli occhi

    Copyright© 2020 Edizioni Forme Libere

    Gruppo Editoriale Tangram Srl

    Via dei Casai, 6 – 38123 Trento

    www.forme-libere.it – info@forme-libere.it

    Prima edizione digitale: aprile 2020

    ISBN 978-88-6459-036-3 (Print)

    ISBN 978-88-6459-987-8 (ePub)

    ISBN 978-88-6459-988-5 (mobi)

    Immagini: Toothpicks © dvarg – Fotolia.com

    In copertina: no words © olly – Fotolia.com

    Consulenza editoriale: Lia Nesler

    Seguici su Facebook, Twitter, Linkedin

    Il libro

    In un ambiente alpino, coronato dalle guglie dolomitiche, si muovono personaggi molto particolari: un raccoglitore di rifiuti, un becchino, un ragazzo che scrive con gli stuzzicadenti, gli adepti di una setta misteriosa che rapiscono i bimbi appena nati… Ma la vera protagonista è la lingua, in tutte le sue variabili. Lingua scritta, parlata, dialetti, lingue antiche, infantili, libri, manoscritti, disturbi linguistici.

    Alla fine il ricco puzzle, narrato con stile originalissimo, ricompone le sue tessere e svela la soluzione del mistero.

    L’autore

    Marco Forni vive e lavora a Selva Gardena tra le Dolomiti. Di mestiere si occupa di parole: dette, raccontate, scritte e ascoltate; parole dimenticate o entrate nell’uso. Ha scritto diversi saggi di carattere sociolinguistico, storico-etnografico e lessicografico. È autore del Wörterbuch Deutsch – Grödner-Ladinisch. Vocabuler Tudësch – Ladin de Gherdëina (Istitut Ladin Micurà de Rü, 2002) e del Dizionario italiano – ladino gardenese. Dizioner talian – ladin de Gherdëina (Istitut Ladin Micurà de Rü, 2013). Per lo stesso Istituto, dove lavora, ha pubblicato tra l’altro Ladinische Einblicke. Erzählte Vergangenheit, erlebte Gegenwart in den ladinischen Dolomitentälern (2005), Momenti di vita. Passato narrato presente vissuto nelle valli ladino-dolomitiche (2007). Nel 2013 è uscito il suo primo romanzo Una parola negli occhi per i tipi Edizioni Forme Libere. Ha scritto un libro a quattro mani sotto forma di corrispondenza con Nicola Dal Falco: Cuntedes de paroles. Storie di parole (2016). È uscita alla fine del 2019 l’opera grammaticale Gramatica ladin gherdëina e la Grammatica Interattiva Ladina Gardenese (G.I.L.G.). Tiene lezioni su invito presso Sapienza - Università di Roma e collabora con il portale Treccani Cultura.

    A Sofia e Matteo

    Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? Parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni? E con qual facilità? Con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta.

    Galileo Galilei

    Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo: Giornata prima

    Gewöhnlich glaubt der Mensch, wenn er nur Worte hört,

    Es müsse sich dabei doch auch was denken lassen.

    Johann Wolfgang Goethe

    Faust: prima parte, Cucina della strega

    La pagina ha il suo bene solo quando la volti e c’è la vita dietro che spinge e scompiglia tutti i fogli del libro.

    Italo Calvino

    Il cavaliere inesistente: XII

    Una parola negli occhi

    I

    Smunto. La pelle lattiginosa pareva punteggiata dagli aghi di un larice autunnale. Una scorza. Stava dentro un corpo a spigoli vivi, come le pareti rocciose impresse nei suoi occhi puntuti. La balbuzie lo incollava alle parole. Una sordità artefatta gli evitava avventate acrobazie lessicali. Sbuffi si annodavano a interiezioni stridenti. Quel suo occhieggiare saettante era imbrigliato tra due fessure taglienti d’un brillio intristito.

    Continuava a riempire il posto dove stava con cianfrusaglie a non finire. Raccoglieva quanto gli altri consumavano e buttavano via: involucri, carta straccia, barattoli, bottiglie, tetrapak, giornali di ieri. Con gli avanzi delle cibarie umane rimpinzava le bestie che gli giravano intorno. Sembravano ammaliate da quell’essere dinoccolato, ritto su due zampe. Provava un intenso piacere a strofinare le mani su rottami arrugginiti; poi, sospinto da una forza misteriosa, si precipitava a farsi una doccia. S’insaponava tutto il corpo. Sfregava con una spazzola ruvida la pelle, fino ad arrossarla. Quella sensazione di sudiciume non gli dava tregua. Fiotti d’acqua si confondevano alle lacrime che gli rigavano il volto spaurito.

    S’ingegnava con mille espedienti per fare le ore piccole. A volte, puntando l’indice, iniziava a contare le parole dei fogli di giornale che tappezzavano i muri. Fino a quando i suoi occhi stanchi vedevano roteare nere macchie d’inchiostro. I brevi sonni erano abitati da incubi. Riusciva a metterli a fuoco solo vagamente. Distingueva, presi in una danza vorticosa, personificazioni delle lettere dell’alfabeto. Dalla loro bocca uscivano dei balbettii indistinti. A tratti parevano volersi combinare insieme per formare una parola compiuta e invece si sperdevano in un vortice di risate isteriche: mute. Si svegliava di soprassalto, con il fiato che gli moriva in gola. Stava lì, in balia di un tremore che non riusciva a placare. Doveva alzarsi. Camminando a tentoni cercava un bicchiere d’acqua. A fatica riusciva a portarselo alla bocca. Si accasciava sul pavimento nella penombra della stanza. Gli occhi non potevano chiudersi a richiamare quelle presenze notturne.

    Alle quattro del mattino s’infilava nella tuta da lavoro: arancione fosforescente a righe argentate orizzontali.

    Sulla lettera d’assunzione, unta e stropicciata, si leggeva a malapena: operatore ecologico. Gli addetti alla raccolta dei rifiuti prima di lui erano semplici netturbini, spazzini, scopini, fino a toccare il fondo con i monnezzari. Lui invece era un operatore ecologico. Certe parole riempiono la bocca: il gusto lungo d’un cioccolatino. Era stato assunto dopo regolare concorso. Si erano presentati in tanti. La commissione esaminatrice però non aveva avuto dubbi: il tipo giusto al posto giusto. Nessuno vantava un pedigree come il suo.

    Abitava in una stamberga che emanava un odore nauseabondo. Un immondezzaio che s’invischiava allo squittio di qualche topolino. Dal soffitto pendevano centinaia di lattine. Appese a spaghi sfilacciati erano ammaccate e facevano ruggine. Si divertiva a scuoterle con la testa. Emettevano gracchi di latta. Là dentro c’infilava ritagli di giornale. Cerchiava e ritagliava quelle parole che non riusciva più a usare. Uno sbrodolio di lettere insipide. Le accartocciava e le infilava in quei barattoli: «Scadute. Dentro vi ci ficco. Zitte e mute», rimuginava tra sé e sé.

    Ai suoi occhi le parole taciute correvano via spedite. Le lasciava andare nella sua testa. In quella massa gelatinosa non inciampavano mai. Non faceva mica nulla di male a infilarle là dentro. Tanto erano solo dei duplicati. Le matrici lessicali erano custodite al sicuro nei dizionari.

    In quella babilonia c’era un angolo pulito, sempre in ordine: un armadio a vetri. Lì erano raccolti alcuni libri. Le lettere dell’alfabeto combinate tra loro all’infinito, stavano dentro quelle pagine in una sorta di catalessi. Senza velleità di primeggiare. Erano alla mercé di chiunque. Quando si toglievano da lì, s’infilavano tra le pieghe della vita di tutti i giorni. Erano la materia grigia che si trastullava con i suoi pensieri; anche quelli più strampalati, presi nella morsa dei tanti perché senza risposta. Dalle pagine sbucavano ventagli di segnalibri multicolori. Mal sopportava le orecchie alle pagine dei libri. Quando riprendeva in mano un libro, richiamava alla memoria passi che avevano destato il suo interesse. Possedeva anche alcuni dizionari. Alla sera, dopo essersi dato una ripulita, ne prendeva in mano uno e iniziava a scorrere le parole ordinate alfabeticamente: paroico, parola…, parolaio…, parolone…, parolozza…, paronimo. Quando ne trovava una che lo incuriosiva leggeva la definizione: paronomasia, figura retorica che consiste nell’avvicinare parole di suono uguale o simile, ma semanticamente differenti, per suggerire un’affinità di senso: ricci, capricci; traduttore, traditore; fratelli, coltelli. A lui venne in mente: amore, amaro. Faceva incetta di parole che non riusciva a pronunciare. Le trascriveva minuziosamente su dei fogliettini che appendeva dappertutto; in mancanza di meglio usava anche strappi di carta igienica. Si lasciava prendere come se stesse leggendo un romanzo sconclusionato, ma avvincente. Altri giorni decideva di andare a tema. Correva con gli occhi a cercare quelle sconce e volgari; le parole urlate, per catalizzare l’attenzione forzata degli altri. A volte bastava sparare a raffica una parola in faccia a qualcuno: capra capra capra, per infondere alla parola stessa un sapore osceno. Una persona ammodo non se le lasciava scappare di bocca. Per lui invece non erano un problema. Tuttalpiù se le ripassava nel frastuono sordo della sua mente.

    Quando andava a raccogliere l’immondizia lo si poteva sentire cantare a squarciagola. Riusciva così ad allontanare per un po’ il singhiozzo di parole sempre in bilico. La sua tuta da lavoro era dotata di capienti tasche, ricolme delle cose più disparate. In una raccoglieva mozziconi di sigaretta. Ogni tanto c’infilava una mano per contarli uno a uno. Un nauseabondo odore di tabacco s’impregnava nella sua mano sudaticcia. In un’altra aveva un fazzoletto nero per soffiarsi il naso, dopo averlo trapanato e ripulito a dovere con il dito mignolo.

    Era come ipnotizzato da quel ciarpame. Le mani sembravano non bastare a raccattare tutto quello che i suoi occhi avrebbero preteso. Non indossava guanti; provava un intenso piacere a toccare quello che riusciva a far suo.

    Pedrini Piersilvio guidava il camion della nettezza urbana. Era un buonuomo di provata fede. La domenica non mancava di adempiere ai doveri di ogni cattolico praticante. Si svegliava presto. Riusciva sempre ad anticipare il trillo della sveglia. Non gli sarebbe dispiaciuto però poltrire più a lungo i giorni di festa. Si alzava dal letto assonnato, infilandosi a naso le ciabatte. Strascicando i piedi raggiungeva il bagno per fare le sue cose. Seduto sulla tazza leggiucchiava un paio di righe da un libro sdrucito.

    La colazione era un rito aromatico in famiglia. La macchina del caffè, bruciacchiata a dovere dall’uso, non si poteva lavare con prodotti detergenti; solo un risciacquo con acqua corrente. In casa non mancavano mai: pane, burro, miele, yoghurt ai cereali. Tutti i giorni sua moglie lo obbligava a bere una dose di latte fermentato:

    – Bevi, ti fa bene. Contiene la vitamina B6. Aiuta il buon funzionamento del sistema immunitario.

    Pedrini prende in mano la bottiglietta e legge le indicazioni: Contiene, oltre ai normali fermenti dello yoghurt, più di 10 miliardi di fermenti L. Casei imunitass.

    – Ma cosa vorrà mai dire: L.? Queste lettere sole troncate da un punto m’irritano.

    Elle punto fermo sta per il batterio Lactobacillus, risponde d’un fiato la moglie.

    – Non m’interessa! Te l’ho chiesto? No! E allora… La mia è una domanda che non si svena a cercare una risposta. Miliardi? Ma come fanno a starci quelle cose lì qua dentro, se in una casa di 50 metri quadrati già in due si sta stretti? continua a ripetersi Pedrini ad alta voce.

    Di buon mattino gli piaceva ascoltare la sua voce impastata, che iniziava a rodarsi all’uso quotidiano. Scuoteva energicamente la bottiglietta, strappava la linguetta e ingollava il latticino con una sola sorsata.

    Si vestiva condecentemente (così m’ero messo a scrivere, ma Pedrini quando l’ha letta non l’ha proprio digerita):

    Con… che? dence… chi? Una, due… quindici lettere per una parola. Aborriva parole astruse e indigeste. Quelle troppo lunghe stavano stinte tra le pieghe di un dizionario, a uso e consumo di qualche lessicomane di professione. Detto in parole povere: si metteva il vestito buono, stirato. Usciva di casa con sua moglie Immacolata. Donna timorata. Sempre acconciata con quel sorriso messo su apposta. Pedrini in certi giorni era più iracondo del solito. Lei cercava di rabbonirlo:

    – Pier ti prego, non dire queste cose. Non sta bene.

    – Non sta bene chi? Io non sto bene, a vedere tutte queste brutte cose che ci girano intorno. Avanti di questo passo dove andremo a finire? Nel mondo a venire, solo i timorati di Dio verranno premiati con felicità e gioia eterne. Verrà il giorno… ah, se verrà! ribatteva levando le braccia al cielo.

    Pedrini le porgeva il braccio. Dopo pochi passi veniva assalito dal solito dubbio:

    – La porta. Ho chiuso a chiave? Certo! Credo… Immacolata, hai chiuso tu?

    – No, io non ho le chiavi, rispondeva paziente la moglie con le dita tra le mani. Lei sapeva come prenderlo quando finiva in balia dei suoi assilli.

    Pedrini s’infilava una mano in tasca: le chiavi c’erano. Era meglio tornare indietro. «I malintenzionati possono aspettare al varco. Una semplice disattenzione e tac: ti entrano in casa», pensava preoccupato. Il solo pensiero di un estraneo, che invadesse la loro sfera privata, lo faceva star male. Strattonava la maniglia della porta: chiusa. Era certo che lo fosse. Lo faceva per puro scrupolo.

    – Tutto a posto. È chiusa. Andiamo o facciamo tardi, diceva alla moglie con tono sollevato e sicuro di sé.

    Immacolata s’abbandonava alla sua flemma; le era di conforto anche in quei momenti. Pedrini assumeva davanti alla chiesa un atteggiamento appropriato. Spingeva il portale davanti a sé e cedeva il passo alla sua consorte. Entrava, s’inchinava facendosi il segno della croce un paio di volte. S’inginocchiava e seguiva con la dovuta devozione la messa. Quando il sacerdote terminava le sue salmodie Pedrini infilava la sua voce, che copriva quelle degli altri fedeli, e chiosava con fare intonato: «…e amen». Seguendo senza proferire parola l’Ave Maria, si univa alla recita quando giungevano all’unisono: «…e il frutto del tuo seno Gesù» (le prime sei parole le buttava fuori d’un fiato, distendendo sonoramente la ‘u’). A guardarlo sembrava immobile, con il viso compunto rivolto all’altare. Eppure riusciva a contare, con la coda dell’occhio, quanti e chi stava inginocchiato a mani giunte insieme a lui. Ogni tanto qualcuno disertava. Lui non sarebbe mai mancato all’appuntamento con il sacramento dell’eucaristia (in verità poteva capitare, ma unicamente per imprescindibili cause di forza maggiore). Si accodava sempre alla fila servita dal sacerdote. Non poteva accettare che un diacono andasse a intaccare il valore simbolico del sacrificio di Cristo. Si rammaricava della crisi delle vocazioni. Un laico però non poteva sostituirsi a un uomo di chiesa. Porgeva le palme delle mani aperte. Non gli andava giù che un estraneo rischiasse d’infilargli due dita in bocca. Era anche una questione d’igiene. Lui di sporcizia ne sapeva qualcosa. Le ditate allo specchio si facevano vedere, ma quelle che non apparivano a occhio nudo erano disseminate ovunque. Tornato al suo posto si chinava con la testa tra le mani e recitava a fior di labbra la sua penitenza. A volte qualche frammento dell’ostia s’impigliava tra i denti. Cercava, sciorinando la punta della lingua, di rimuovere l’incomodo. Se non ci riusciva, si copriva dovutamente la bocca con la mano sinistra e ricorreva all’unghia lunga e appuntita dell’indice destro. Non sbagliava un colpo: una grattata e via.

    Nel segreto del confessionale ammetteva i peccati confessabili; gli altri tentava di dimenticarli anche a se stesso. Dimenticarli… si fa per dire. Se s’ingiungeva di farseli passare di mente, non si schiodavano più da lì. Una volta ripassate le sue mancanze, un pensiero stizzito non poteva non andare a quegli impudenti fuori dalla grazia di Dio.

    – Pazienza. Pedrini: pazienza, continuava a ripetersi.

    Cercava di rincuorarsi rigirandosi e strattonandosi le dita delle mani. La ragione non poteva sentirsi a proprio agio dalla parte del torto. E sì che sarebbe bastato seguire le regole del buon senso a far girare il mondo per il verso giusto. Un terremoto… uno sciame sismico (senza necessità d’evacuazione), avrebbe rimesso in riga anche gli animi più ballerini.

    II

    A suo dire non aveva vita facile con il lavoro:

    – Dalla mattina alla sera devo sorbirmi una montagna di rogne. Ho a che fare con gente piena di pretese. Sempre pronta a criticare, a comandare: «Fai questo, fai quello». Sembra che tutto sia dovuto.

    Anche quel giorno s’era fatta avanti una signora a snocciolare le sue rimostranze:

    – Pedrini, avantieri si è scordato di portar via quella montagna di cartoni e immondizie. Tutte quelle bottiglie in frantumi. Dei giovinastri le hanno rotte a bella posta giocandoci al tiro a segno. Guardi che disastro. Sembra di essere tornati ai tempi in cui si buttavano i rifiuti per strada e i vasi da notte si svuotavano dalle finestre al grido di: Attenti sotto. Allora i maiali circolavano liberamente anche per smaltire i rifiuti. Oggi si mettono su due zampe, grugniscono, sporcano e basta. Ripulisca, e faccia in modo che non succeda più.

    – Ah ecco… avantieri, mi sembrava che non potesse essere altrimenti: sono io, che dovrei fare in modo che… Signora, sa chi è stato?

    – Che domande fa? Se lo sapessi glielo direi, cosa crede? No, non ne ho la più pallida idea. Sicuramente marmaglia venuta da fuori, rispose la signora leggermente impallidita.

    – Vuoi vedere che le bottiglie si sono impigliate maldestramente tra le gambe dei suoi figlioli e sono riuscite a divincolarsi solo andando in frantumi. Lo so io sulla testa di chi svuoterei uno di quei vasi da notte senza gridare: Attenti sotto, bofonchiò Pedrini tra sé e sé.

    – Cosa va farfugliando? Parli più forte, non la capisco! disse la donna.

    – Nulla, cose mie signora. Ci vediamo alla prossima, buongiorno.

    Pedrini stava alzando i tacchi, ma venne accalappiato da quella rompiscatole dal far gentile di Tilde Kunz:

    – Pedrini senti! Anzi no: senta! Posso mettere nelle sue mani anche questo sacco di rifiuti speciali e questi rottami arrugginiti, sì? I fiori secchi e appassiti posso darli a lei? Non mi dica di no, non saprei proprio dove buttarli. Libri attirapolvere. Se solo potessi butterei anche quelli. Non parliamo dello spazio che portano via, per stare lì ordinati in bella mostra. Mi prende un nervoso che non le dico… e l’uomo di casa cosa fa? Continua a comprarne e a spendere.

    La Kunz restò con le dita in mano. Le annusò scrollandole e sentì il bisogno impellente di andare a togliersi di dosso lo sbuffo di puzzo che si era insinuato nelle narici. Pensò di chiedere a Pedrini di sfilarle un fazzoletto pulito dalla tasca, ma poi le parole si scaricarono in tempo sulla bocca: «Tilde, ma cosa vai pensando? Quando mai ha le mani pulite uno che le rimesta tra i rifiuti dalla mattina alla sera. Come farà una donna a lasciarsi toccare, costretta a fare quelle cose con uno così. Non voglio neanche immaginare l’odore che si porta addosso. Povera donna. Sarà stata costretta a fissare delle ferree regole di condotta. I vestiti da lavoro sporchi e le scarpe fuori di casa. La doccia tutti i giorni. Ma quel fetore sudaticcio di pesce andato a male s’impregna anche nella pelle. Non lo togli più. Ha sempre una sigaretta accesa che sobbalza tra le labbra quando borbotta qualcosa. Bisognerebbe immergerlo da capo a piedi nella varechina. Anche se

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1