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E-book394 pagine10 ore

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Info su questo ebook

Il nuovo bestseller dell’autrice ai primi posti delle classifiche L.F. Koraline

Damon ha capito che la missione della sua vita è proteggere la famiglia, dedicarsi con tutto se stesso alla donna che ama ed essere un buon padre. Vive insieme alla sua Eden in una prigione dorata perché, nonostante il loro sogno d’amore sia diventato ormai una splendida realtà, il mondo lì fuori è in agguato. E una minaccia oscura si addensa all’orizzonte. Amanda, la giovane figlia adottiva di Eden e Damon, è sempre stata una ribelle. Le rigide regole di casa Blake le stanno strette. Affascinata dalla verità che ha scoperto su Sean Davis, decide di partire per il Giappone per cercarlo. Sull’isola di Hokkaido, Amanda si troverà finalmente faccia a faccia con il maestro maledetto e con la sua follia, mentre a New York Damon e Eden dovranno fare i conti con un passato pronto a tornare per distruggere ogni cosa…

Dall’autrice del bestseller 703 ragioni per dire sì

Leggerlo sarà un piacere

«Un protagonista maschile che vi farà tremare dalla testa ai piedi. Entrerà a far parte dei vostri sogni più proibiti, fi no a impossessarsene.»

«Una scrittura fl uida e ammaliatrice, Koraline per me è come le sirene per Ulisse!»

«Il mondo si fermerà finché non girerete l’ultima pagina…»
L.F. Koraline
ha due grandi passioni: gli animali e i libri. Scrive per dare forma ai suoi sogni. Con la Newton Compton ha pubblicato 703 ragioni per dire sì, Suite 703 e 703 volte tua, raccolti nel volume 703. La serie. 703 minuti è il quarto libro che ha come protagonisti Damon e Eden.
LinguaItaliano
Data di uscita25 set 2018
ISBN9788822726650
703 minuti

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    Anteprima del libro

    703 minuti - L.F. Koraline

    Prologo

    Sette lunghi anni per essere salvata dall’inferno della mia famiglia.

    Otto lunghi anni per uscire dal purgatorio del Saint Peter.

    Quindici lunghi anni per accettare che il paradiso non esiste.

    Tutta la mia breve vita pregando che qualcuno mi salvasse da me stessa.

    Solo un istante per scoprire di avere una possibilità.

    Io sono Amanda e in queste pagine vi racconterò della mia salvezza e della mia condanna...

    Capitolo 1

    Amanda

    Il vecchio camioncino cigolante è più puntuale di un orologio svizzero. Studio i suoi movimenti da settimane, forse mesi.

    Il rauco borbottio del motore raggiunge le mie orecchie ogni mercoledì e ogni sabato, tra le 11.00 e le 11.10 del mattino.

    Il ragazzo tiene premuto il piede sull’acceleratore fino in fondo, forse convinto di guidare un bolide di ultima generazione.

    Il suono strozzato del motore anticipa il clacson, che suona per tre volte.

    È il suo modo di annunciarsi.

    Frena bruscamente, proprio davanti al portone di legno del retrocucina.

    Scende dal camioncino furgonato, apre il portellone e scarica le prime cassette di frutta e verdura, che poggia regolarmente per terra.

    Sorella Francis è sempre la prima a uscire.

    Al suo seguito Concita e Marie, le due cuoche più anziane.

    Con le mani dietro la schiena, le due donne controllano le cassette, una per una, iniziando dagli ortaggi a foglia verde, fino alle mele rosse.

    Sorella Francis osserva tutto a distanza, con la schiena poggiata allo stipite della porta: forse recita un rosario per ringraziare la divina provvidenza di averci mandato verdura marcia e mele bacate anche questa settimana.

    Le nostre mele non hanno la buccia lucida e liscia e le nostre verdure sono mosce come straccetti bagnati.

    Ma in fondo, la mia recente punizione in cucina è la cosa migliore che mi sia capitata in quasi dieci anni di purgatorio in questo postaccio.

    Il mio ultimo tentativo di fuga risale a due mesi fa.

    Ci ero quasi riuscita.

    Se quel demone rosso di Genny la pazza non avesse fatto la spia, a quest’ora sarei di certo a migliaia di chilometri da questo stramaledetto istituto.

    Chissà che sapore ha la libertà.

    Ho quindici anni e posso dire di essere stata veramente libera per circa quarantacinque minuti in tutta la mia vita.

    Trenta minuti quando avevo sette anni, nell’auto della polizia.

    Mia madre e mio padre erano ancora riversi sul pavimento quando mi prelevarono da casa.

    Vivi, morti, né vivi, né morti?

    Non lo sapevo, non mi importava.

    Mi stavano portando via dall’inferno.

    «Non ti agitare, trenta minuti e saremo arrivati», mi sussurrò il poliziotto che mi teneva in braccio.

    Un bambino non è in grado di quantificare il tempo. Trenta minuti potrebbero essere come cento ore e cento ore potrebbero essere come un battito di ciglia, ma quel tempo scandito con tanta accurata precisione mi è rimasto impresso nella memoria. Trenta minuti.

    Trenta minuti di libertà, prima di finire in un istituto. Lo ricordo come una sorta di ospedale, ma non posso esserne certa.

    I miei ricordi di quel periodo sono piuttosto confusi.

    Qualche settimana dopo, o forse mesi dopo, assaporai di nuovo l’acre sapore della delusione.

    La porta dell’istituto si aprì e io misi i piedi sull’asfalto della libertà.

    Un solo minuto prima di salire in un’altra auto e finire in questo posto, che detesto.

    Solo molti anni dopo ebbi, di nuovo, la mia occasione.

    I piedi mi friggevano per l’emozione, quando, al calare del sole, sull’asfalto ancora bollente, assaporai l’ebbrezza della vittoria.

    Ero libera, fuori dal Saint Peter.

    Vivo ancora del ricordo di quell’eccitante sensazione.

    Corsi, corsi veloce, con tutte le mie forze, ma un enorme cancello mi bloccò la strada. Alte sbarre di ferro arrugginito che non avevo previsto distrussero ogni mia illusione.

    Emisi il grido più disperato e silenzioso della mia vita.

    Un grido soffocato nel petto che mi strappò la carne.

    Mi riacciuffarono e mi riportarono dentro in cinque minuti esatti.

    Le mie fughe successive ebbero di sicuro meno successo della prima.

    I miei piani erano troppo istintivi per poter avere successo.

    Un piano vittorioso deve essere studiato a fondo, con astuzia e freddezza.

    Una fuga va progettata con doviziosa pazienza, straripante cinismo e assoluto egoismo.

    Devo scappare da sola, senza pensare a Lucy, senza soffermarmi sul ricordo dei suoi occhioni neri sempre lucidi di pianto, senza rimuginare sulle sue suppliche, senza ripensare alle mie promesse.

    Devo scappare perché qui dentro rischio di impazzire.

    Le mie mani sono screpolate e, a ogni immersione nell’acqua fredda, ho la sensazione che vengano trafitte da mille lame.

    Lavo piatti tutto il giorno.

    Lavo piatti per punizione e non appena ho finito devo ricominciare.

    L’istituto ospita oltre trecento persone.

    Circa trecento tazze e scodelle. Oltre seicento piatti al giorno, seicento bicchieri, più di mille posate e un numero infinito di pentole e padelle.

    Un incubo, un limbo infernale in cui espiare la mia disobbedienza.

    Due pasti al giorno, offerti con grande generosità cristiana.

    Posso scegliere se mangiare a colazione e a pranzo, o a pranzo e a cena, o a colazione e a cena e posso anche scegliere cosa mangiare.

    Zuppa di patate, patate bollite o patate crude.

    Un’escalation di leccornie che mi mette in seria difficoltà.

    Sorella Margaret è convinta che tutto questo sia utile alla mia crescita interiore. Crede sul serio che così facendo io possa ritrovare me stessa.

    Non ha ancora capito che tutto ciò non servirà a rieducarmi, ma solo a farmi incazzare di più.

    Il mio dito medio è più veloce della mia lingua.

    La mia ribellione è una costante da più di otto anni.

    Penso alla fuga ogni singolo giorno.

    Vorrei portare Lucy con me, ma questa volta non posso sbagliare.

    Devo scappare da qui da sola, poi troverò qualcuno là fuori che possa aiutarmi a far uscire anche lei.

    Lucy è debole, claudicante, impacciata.

    Non uscirà mai da questo posto. Nessuna famiglia sceglierà mai lei.

    Ma non posso portarla con me. Non posso mantenere fede alla mia promessa o entrambe marciremo qui dentro.

    Il ragazzo della frutta lascia sempre il furgone incustodito e attraversa la strada per raggiungere una caffetteria all’angolo del palazzo.

    Concita e Marie si occupano di portare dentro tutte le cassette di frutta e verdura per riporle nella cella frigorifera.

    Restano lì dentro circa un minuto per impilarle. Il mio piano è assolutamente perfetto.

    Devo solo accertarmi che entrambe siano dentro la cella e poi correre a chiudere la porta, bloccandole all’interno.

    Sorella Francis non si accorgerà di nulla finché non la colpirò sulla nuca con il matterello.

    Vincent mi ha assicurato che le farò solo perdere i sensi senza ammazzarla e io mi fido di lui.

    Una volta l’ho visto colpire con una sedia un inserviente della mensa che gli aveva sputato nel piatto.

    L’uomo è caduto per terra come una pera cotta, ma non è morto.

    Sorella Francis perderà solo i sensi.

    Vincent ne è assolutamente certo e anche io.

    Dopo averla colpita con forza, mi basterà trascinare dentro il suo corpo e correre nel furgone per nascondermi.

    Quando si accorgeranno di quello che ho fatto io sarò già lontana… e libera.

    Vincent si è preso gioco di me.

    Maledetto!

    Mi ha mentito.

    Sorella Francis non è affatto caduta per terra come una pera cotta.

    Non è caduta affatto. Si è voltata tenendosi una mano sulla testa e mi ha fulminata con lo sguardo.

    Penso che abbia imprecato, a denti stretti, in sette lingue differenti prima di urlare e chiedere aiuto.

    Ma ora è del tutto inutile pensare a quello che sarebbe potuto essere e non è stato.

    Sono ancora qui dentro. Maledizione!

    Punita nel peggiore dei modi.

    Patate bollite a colazione e acqua a pranzo e cena.

    Mangio la polvere del solaio per tutto il giorno, mentre eseguo gli ordini della direttrice.

    Riempire gli scatoloni e pulire, pulire e pulire. Una scopa, una paletta e decine di sacchi di plastica per raccogliere cinquant’anni di polvere e debellare chilometri di ragnatele millenarie.

    Ce la farò, Amanda non si arrende, e quando sarò fuori da questa topaia organizzerò una nuova fuga.

    Sento aprire la porta.

    È Dominique, la guardia notturna.

    «Amanda, vieni qui», comanda.

    Mi avvicino, guardinga.

    Il suo aspetto incute un certo timore, forse perché è stato quasi sempre lui a riacciuffarmi per riportarmi indietro.

    Conosco alla perfezione la stretta delle sue braccia e la semplicità con cui mi cinge la vita e mi solleva da terra.

    Elimino una ragnatela ben ancorata ai miei folti capelli neri, oramai bianchi a causa della polvere di questo tugurio e mi paro davanti a lui, a petto gonfio, senza timore.

    «Dopodomani verrà qui una coppia da New York per scegliere un bambino. Avrai di certo sentito parlare di loro».

    «Stai parlando della coppia che prende un bambino per ogni anniversario di nozze?»

    «Esatto. Dopo i gemelli scelti l’anno scorso in Virginia, quest’anno pare toccherà a uno di voi».

    «Non di certo a me», commento, soffiando via una ciocca di capelli dagli occhi. Mi strofino le mani impolverate sulle cosce coperte dai jeans scuri.

    «Sarà meglio che io me ne resti quassù. Non sarà di certo la mia volta buona. Marcirò qui dentro. Questo è certo».

    «Non puoi scegliere. La direttrice è stata molto chiara. L’uomo di New York vuole vedere ogni singolo abitante di questo posto. Forse lui e la moglie resteranno qui alcuni giorni».

    «Te l’ho detto, Dominique. Sarà meglio che io me ne resti quassù. Sceglieranno il solito bambino sotto i due anni con gli occhioni sgranati e le guance rosee».

    «Sbrigati con quegli scatoloni. Abbiamo bisogno di braccia forti per ripulire il salone principale e i dormitori. Va’ a lavarti e preparati, sarà una lunga giornata. E non discutere per ogni cosa. Domani dovrà essere tutto splendente».

    «Agli ordini, capo», replico ironica mimando un pomposo saluto militare.

    Dominique volge gli occhi al cielo e si allontana chiudendomi dentro a chiave, come al solito.

    Capitolo 2

    Tutto deve risplendere, tutto deve profumare, tutto deve brillare. Peccato che non siamo ancora attrezzati per i miracoli.

    Questo maledetto pavimento è sudicio e le finestre sono così vecchie che gli spifferi sembrano coltelli affilati.

    Le pareti sono ingiallite dal tempo e decorate da migliaia di inconfondibili orme impresse da piccole manine sporche.

    C’è stato un tempo in cui passavo le giornate a contare le nuove tracce sulla parete del salone principale, quello che osano definire salone ricreativo.

    Come può essere ricreativo un posto che mette solo tristezza?

    Trenta bambole per oltre cento bambine. Senza contare che almeno dieci sono senza testa e venti senza capelli.

    Una manciata di trenini per altrettanti bambini.

    Un televisore attaccato alla parete per noi adulti, una radio gracchiante, un pc a cui possiamo accedere per quindici minuti a testa a rotazione e con cadenza settimanale.

    Per vedere Titanic, in streaming, ho impiegato oltre tre mesi.

    Ora sono alle prese con un film tratto da un romanzo di Sparks: La risposta è nelle stelle. Una storia appassionante, peccato che per scoprire se Luke Collins verrà di nuovo sbalzato via dalla groppa di Rango, il famigerato toro che lo ha quasi ammazzato durante una gara, mi servirà almeno un altro mese.

    E forse ci vorrà un mese in più per sapere cosa ne sarà della sua storia con la bella Sophia Danko o del povero Ira Levinson e del suo immenso amore per Ruth.

    Questa non è vita.

    Io devo scappare da questo posto il prima possibile.

    Ogni tanto dal comitato di beneficienza arrivano degli scatoloni pieni di vecchi libri usati. È come una ventata di aria fresca.

    Qui dentro siamo indietro di almeno tre anni rispetto al mondo lì fuori.

    Vorrei poter leggere l’ultimo bestseller che spopola nelle classifiche, invece mi capiterà fra le mani, forse, e dico solo forse, quando nessuno ne parlerà più.

    Lo leggerò solo se qualche anima pia deciderà di sbarazzarsene e donarlo in beneficienza, ovviamente a patto che il pacco di libri in questione venga dirottato verso il nostro istituto.

    Sono una delle ragazze più adulte qui dentro e anche uno dei peggiori soggetti dell’istituto.

    Essere temuta dagli altri abitanti dell’orfanotrofio garantisce dei vantaggi. Uno di questi è sicuramente quello di poter scegliere, con conclamato diritto di prelazione, un libro da uno scatolone nuovo.

    Le consegne dei pacchi avvengono una sola volta al mese.

    Abiti, lenzuola e coperte. Giocattoli, CD, vecchi libri e, se siamo fortunati, qualche film in vecchie videocassette con i nastri arricciati. Qualche volta arrivano anche dei DVD malconci.

    Guardare un film nel salone ricreativo – il più delle volte si tratta di un cartone animato Disney o di ET l’extraterrestre – è una sorta di esperienza di guerra.

    Lo schermo è il nemico, schierato frontalmente con la potente arma dell’attrazione.

    Di fronte a esso si forma la trincea dei bambini più piccoli, tenuti a bada dagli educatori con manici di scopa e cinture di cuoio: strumenti utili alle minacce corporali.

    Dietro la trincea si può individuare il fitto schieramento di soldati più adulti, armati di lingue biforcute da mettere a tacere con l’autorevole arma della minaccia punitiva.

    In questo posto il dialogo è un elemento unilaterale e comprende un numero limitato di frasi, utilizzate al solo fine di terrorizzare e immobilizzare i più piccoli.

    Per i più grandi, invece, è tutto molto più semplice:

    Cucina, due settimane.

    Soffitta, una settimana.

    Lavanderia, tre settimane.

    Bagni, due settimane.

    Il tutto con possibili variazioni temporali relazionate alla gravità del misfatto commesso.

    Io, per ora, ho totalizzato una ventina di mesi in cucina. Circa dieci nel solaio. Un annetto in lavanderia e svariate settimane nei bagni.

    Sono fortemente convinta che le nostre punizioni siano proporzionali non alla gravità dei fatti commessi, ma al budget disponibile nelle casse dell’orfanotrofio.

    Lavoriamo come piccoli schiavetti per espiare le nostre colpe e per sostenere il famoso programma di rieducazione.

    Appena metterò piede fuori da questo posto infrangerò tutte le leggi scritte e anche quelle non scritte.

    Non vedo l’ora.

    Sfilo una sigaretta dalla giacca dell’inserviente della mensa non appena lei si volta per infilare il pane nel forno e scappo via.

    Una sigaretta mi costerà solo tre giorni in cucina. Vale la pena rischiare.

    Indispettita come non mai, attendo l’arrivo della famosa coppia di visitatori nell’atrio principale, una sorta di chiostro che divide il nostro orfanotrofio dal resto del mondo.

    Le voci su questa coppia in cerca di un figlio adottivo mi hanno messa decisamente di cattivo umore.

    Un figlio nuovo per ogni anniversario di matrimonio.

    Lo trovo un capriccio assurdo.

    Lucy è di opinione opposta.

    Lei pensa che sia una cosa romantica e adorabile.

    «Uomini del genere esistono solo nei nostri libri, Amanda», ha affermato convinta, passandosi, sognante, la spazzola fra i corti e crespi capelli castani.

    Lei continua a nutrire qualche speranza di essere scelta.

    Ha qualche anno meno di me e i suoi pensieri profumano ancora di sogni, i miei non più.

    Lucy è l’essere più tenero che io abbia mai conosciuto, ma è anche il più ingenuo.

    Ha il viso più dolce del mondo, ma anche il più triste.

    Ha la grinta di cento uomini e la forza di un criceto.

    Una delle sue gambe è affetta da una grave forma di paraplegia, è magra e informe, mentre l’altra si è adattata a fare il lavoro di tutte e due, diventando forte e muscolosa.

    Si trascina dietro quella gambetta con incredibile disinvoltura, ma tutte le volte che la guarda i suoi occhi si riempiono di lacrime.

    Sta diventando una signorina e quella che un tempo era solo una piccola diversità, ora sta diventando una grande deformità.

    Ha tanti sogni, ma soprattutto ha una gran voglia di avere una famiglia.

    Non ce l’avrà mai, come non ce l’avrò io, ma ha me e io la porterò fuori da questo posto molto presto.

    L’istituto è decisamente in subbuglio.

    L’uomo di New York e sua moglie sono arrivati.

    Sento la fastidiosa agitazione dell’attesa provenire dal giardino.

    Ma resto nell’atrio, appoggiata a una colonna di cemento, con le mani dietro la schiena. Con le dita percorro la lunga crepa che sembra voler dividere il pilastro a metà.

    Su e giù, su e giù.

    Sollevo una gamba e la poggio alla colonna, piegando il ginocchio con atteggiamento strafottente.

    Sono proprio curiosa di vedere la faccia di questo tizio tanto atteso.

    Faccio una scommessa con la parte buona di me.

    Io dico che ha passato i cinquant’anni, che ha un grosso pancione strabordante dai pantaloni a vita alta e che è stempiato almeno per due terzi del cranio.

    La parte buona di me dice, invece, che è un uomo sotto i quaranta, affascinate e di bell’aspetto, con lunghe mani affusolate e un completo grigio da almeno duemila dollari.

    Sapete, la parte buona di me ha anche un nome: si chiama Nina.

    Sentirete spesso parlare di lei, almeno fino a quando non la ritroverò.

    Nina è la mia gemella.

    Quella terribile notte, prima che arrivassero i poliziotti, Nina mi prese la mano. Mi strinse forte. Era a terra, il sangue le scorreva dalla bocca, gli occhi faticavano a restare aperti.

    Avevamo solo sette anni, ma il nostro legame era potente, ed è riuscito a sopravvivere anche alla separazione, forse persino alla morte.

    Mio padre la colpì alla testa con una mazza da baseball.

    Nina cadde a terra, ai miei piedi, ma era ancora viva.

    Mia madre uscì dalla cucina urlando.

    «È Nina, hai colpito Nina».

    Mio padre, ubriaco come ogni sera, strafatto come ogni giorno, madido di sudore, con il piscio che gli imbrattava le scarpe sudice e con la cerniera dei pantaloni ancora abbassata, mi guardò negli occhi.

    Cercò di capire, ma non ci riuscì.

    Mia madre lo aggredì con violenza, con un grosso coltello da cucina stretto fra le mani.

    Lo ferì appena, ma lui si imbestialì come non mai.

    Trascinai Nina il più lontano possibile, mentre dal corridoio le loro grida mi penetravano nel cervello.

    La trascinai tirandola per i piedi.

    Il suo corpicino era pesante, strisciava a fatica, lasciandosi dietro una lunga scia di sangue rosso vermiglio.

    Quando mi fermai, cosciente e consapevole del fatto che ci sarei dovuta essere io al suo posto, mi accucciai al suo fianco e le chiesi perdono.

    Le chiesi scusa mille volte, ma lei non mi rispose.

    Mi guardò con gli occhi sgranati di chi non sa di poter perdonare.

    Mi guardò marchiando la mia anima con il sigillo del senso di colpa… per sempre.

    Era stata colpita al posto mio, io lo sapevo, lei lo sapeva.

    La sua mano cercò la mia, poi si posò sul mio petto e strinse forte.

    Mi pizzicò con rabbia, non ne capii il motivo, non lo capisco ancora oggi.

    Concentrò tutte le sue forze in quel gesto, poi perse i sensi, come se avesse consumato fino all’ultimo briciolo di energia.

    Tutto quello che accadde dopo segnò la fine della mia famiglia, la fine della mia casa, la fine della mia infanzia.

    Sul mio seno sinistro, all’altezza del cuore, ancora oggi, ho il segno di quel gesto. Nina mi ruppe i capillari e una grossa macchia rossa è rimasta impressa sulla mia pelle per giorni.

    Nei giorni seguenti quella sorta di ematoma si assorbì, ma non del tutto. Due piccole dita che si incontrano sono ancora impresse sulla mia carne.

    Formano una sorta di cuore spezzato, di un colore violaceo, come un livido. Sono passati otto anni e quel segno è l’unica cosa che mi rimane di mia sorella. Le sue dita sul mio cuore, per ricordarmi ogni giorno che io dovevo essere al suo posto e lei al mio.

    Nina è la parte buona di me.

    Capitolo 3

    Mi rigiro mille volte la sigaretta fra le dita. È la mia unica sigaretta, l’ho rubata e non ho nessuna intenzione di sprecarla.

    Voglio gustarmela dall’inizio alla fine, senza interruzioni.

    Do a questo maledetto ammasso di carta e tabacco più importanza di quella che merita.

    Ma è così che vanno le cose quando non possiedi nulla.

    Sono certa che l’inserviente a cui l’ho sfilata non ponderi con cotanta attenzione il momento perfetto per accendersi una stupida sigaretta, ne ha un intero pacchetto e, finito quello, ne avrà un altro e poi un altro ancora.

    Il bisogno di accenderla arriva immediatamente, come la sferzata di una cinghia sulla schiena, non appena nel mio campo visivo appare il tanto atteso visitatore.

    Il passo deciso, altero, fiero. Avanza.

    Cammina a testa alta nella mia direzione guardandosi intorno.

    La parte buona di me ha avuto la meglio e ha dannatamente vinto la scommessa. Bello, bello oltre ogni immaginazione.

    Il corpo slanciato ma possente, le spalle larghe e l’atteggiamento di chi ottiene sempre tutto ciò che desidera.

    I capelli scuri, scompigliati appena dalla brezza di questa fresca mattina che improvvisamente diventa rovente e gelida al tempo stesso.

    Esiste una donna su questa terra degna di un uomo come quello che sta camminando verso di me?

    Porto la sigaretta alla bocca e la accendo senza neppure pensarci.

    Il mio spirito ribelle è combattuto tra il bisogno di scappare e il desiderio di restare.

    Si avvicina ancora di qualche passo, si volta verso destra e scorge la mia figura imbambolata.

    I suoi occhi mi trafiggono il petto.

    Ghiaccio viola.

    Guizzano furbi e sicuri lungo il mio corpo.

    Un segnale che solo una donna può riconoscere, anche una giovane donna come me.

    Mi sta guardando, rallenta il passo.

    Mi sistemo i capelli ancora bagnati dopo la doccia, spostandoli tutti su un lato. Lascio che ricadano sul mio seno, oramai florido, sodo, alto.

    Prendo una lunga boccata di fumo dalla sigaretta e la trattengo nel petto.

    L’uomo dallo sguardo di ghiaccio si blocca proprio davanti a me.

    Mi guarda senza parlare.

    È seducente, come uno di quegli attori capaci di mandarmi gli ormoni in escandescenza.

    Un leggero ma ben marcato accenno di barba gli segna il volto perfetto, mascolino.

    Schiudo leggermente le labbra e soffio fuori una densa nube di fumo, direttamente nella sua direzione, sulla sua faccia, che però resta impassibile.

    Ci guardiamo per un lungo momento.

    Vorrei che mi scegliesse! Mai come questa volta desidero essere scelta, ma non come figlia!

    Vorrei che accadesse qualcosa di incredibilmente straordinario, proprio come nei film.

    La mia mente costruisce una trama perfetta in meno di qualche secondo.

    Una trama molto semplice dove lui perde il senno, abbandona sua moglie e ogni altra cosa e sceglie me, portandomi via da qui per sempre.

    Adoro questa trama.

    I suoi occhi restano fissi nei miei, solleva un angolo della bocca e mi sorride.

    Un sorriso a metà, degno di essere immortalato per l’eternità.

    La parte buona di me, Nina, dice che dovrei smetterla di costruire castelli di carta, ricordandomi che una sola folata di vento è sufficiente per distruggerli.

    La parte buona di me mi suggerisce di chiedere scusa e di fargli strada all’interno dell’istituto, mentre la parte cattiva solleva le mani e se le porta all’altezza dei seni.

    Amanda non dà affatto retta a Nina e preme con sensuale lentezza le dita sui capezzoli già turgidi.

    L’espressione dell’uomo si irrigidisce.

    Potrebbe essere in egual modo imbarazzo o apprezzamento, nel dubbio non mi lascio sfuggire l’occasione di continuare.

    Strizzo e avvicino i seni per qualche secondo, poi scendo, lentamente giù, sullo stomaco, sulla pancia, fino ad arrivare fra le gambe.

    Risucchio un’altra lunga boccata di fumo dalla sigaretta che ciondola dalle mie labbra, poi la stacco dalla bocca e schiudo le labbra per soffiargli un’altra corposa nube grigiastra direttamente in faccia.

    Ancora una volta nessuna reazione.

    Resta fermo, con una mano nella tasca, a fissarmi con lo sguardo più magnetico e indecifrabile che io abbia mai visto.

    Lo fisso indispettita e piena di aspettative.

    Sollevo la mano che regge la sigaretta e la porto alla bocca, ma prima che le mie labbra possano stringerla, lui allunga la mano verso di me.

    Mi sfila il mozzicone fumante dalle dita con totale naturalezza, poi mi sorride, sempre quel dannatissimo sorriso a metà, sollevando solo un angolo delle labbra.

    Getta la sigaretta ancora accesa ai miei piedi, poi la calpesta con la punta della lucidissima scarpa nera.

    Solleva il viso, leggo sfida nel suo sguardo.

    Vorrei protestare, insultarlo, ma qualcuno spezza la magia nera che ci stava avvolgendo.

    Una donna fasciata in un tubino bianco ci raggiunge, accompagnata da tre bambini.

    È bella, giovane, elegante… felice.

    L’uomo dallo sguardo di ghiaccio si chiama Damon.

    Lei lo chiama e lui si volta, ma prima di voltarsi sorride.

    Il volto si illumina al suono della sua voce.

    I suoi occhi diventano stelle e scintillano della luce pulsante della venerazione.

    La donna ci raggiunge in pochi passi e lui la accoglie con un lieve bacio, come se non la vedesse da tempo, come se non potesse farne a meno.

    I folti capelli neri della donna sono lunghi fin sotto le natiche e ricadono fluenti e morbidi in corpose onde ordinate.

    Lui le accarezza la folta chioma ondulata dalla nuca alle punte, come se fosse in adorazione.

    Respira la sua stessa aria, che però non è la mia.

    Inspira solo l’aria che lei rifiuta, come se gli bastasse per vivere.

    Tutto questo è assurdo, questo fuoco che sento sul viso è inconcepibile.

    È realtà o fantasia?

    Avverto le loro sensazioni ingoiandole con violenza, invidiandoli a ogni sospiro.

    Questa donna ha tutto ciò che una donna possa desiderare.

    Presa da una rabbia incontrollabile, scappo via, lontana da quegli occhi, lontana da quel profumo, lontana da quella perfezione, da quel quadro perfetto che non sarà mai il ritratto della mia vita.

    Ignoro i pugni sulla porta del solaio. L’ho bloccata con un vecchio comò pieno di tarli. Ignoro sorella Francis che mi prega di scendere nel salone principale, ignoro anche la minaccia di una nuova punizione.

    Ancora tre settimane in soffitta se non mi presento insieme agli altri all’incontro con l’uomo di New York.

    L’ho già visto, e mi basterà per il resto dei miei giorni.

    Per il resto dei miei giorni ricorderò quello sguardo di ghiaccio viola. Ricorderò il volto illuminato dalla presenza di sua moglie e ricorderò il modo in cui le sorrideva, la sfiorava, la annusava.

    Per il resto dei miei giorni mi torturerò al pensiero che io non potrò mai avere nulla di tutto ciò.

    Fuori da questo posto probabilmente avrò la mia occasione, il mio riscatto, ma non avrò mai la possibilità di avvicinare un uomo come quello.

    Sento le guance ancora in fiamme quando sorella Francis apre la porta a spintoni e mi trascina per un braccio verso le scale.

    «Basta fare i capricci, Amanda. Basta comportarti come una ragazzina. Sei una donna ormai».

    «Allora, se sono una donna, lasciatemi andare via di qui. Se sono una donna posso cavarmela da sola lì fuori».

    «Non faccio io le

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