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Incandescente
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E-book170 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Eracle osserva il mondo attraverso la lente della sua condizione mentale alterata e vive un'esistenza da prigioniero delle proprie ossessioni. Finché non incontra Lena, ragazza suo malgrado enigmatica che, dopo avergli regalato la luce di un sentimento inatteso, viene misteriosamente rapita. Per lui non c'è altra scelta che mettersi sulle sue tracce nel tentativo di ritrovarla prima che sia troppo tardi. Una ricerca disperata che lo costringerà a guardare dritto negli occhi il Male ma anche a guardare senza indugi dentro se stesso per capire se il senso di quella ricerca sia autentico: Lena è una persona reale o è solo il frutto delle sue allucinazioni? O c'è una terza possibilità?
Una storia affascinante, sconvolgente e poetica allo stesso tempo; una narrazione magistrale che, tra le sue mille sfumature, trascinerà il lettore in una corsa contro il tempo, pagina dopo pagina, incastro dopo incastro, fino al sorprendente finale.
LinguaItaliano
Data di uscita1 giu 2020
ISBN9788833465883
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    Anteprima del libro

    Incandescente - Francesco Coppola

    dottore.

    Verde petrolio

    Mi chiamo Eracle e vivo a Kassino.

    Kassino è una città di trentatremila abitanti. Ne aveva trentatremila alla sua fondazione, ne aveva trentatremila subito dopo essere stata completamente distrutta al termine della Seconda Guerra Mondiale, ne avrà trentatremila all’infinito.

    I trentatremila abitanti di Kassino sono, presumibilmente, sempre gli stessi. Si perpetuano come anime morte che non conoscono il significato di tempo. Ma di spazio sì: una piccola pianura umida e fredda d’inverno più della valle padana, torrida d’estate più del deserto del Kalahari.

    Il posto ideale in cui sopravvivere, in particolare per elaborare il lutto di essere venuti al mondo.

    La domanda che dobbiamo porci è: Kassino è una condanna o una scelta masochistica? Probabilmente entrambe le cose. Mai sentito parlare della sindrome di Stoccolma?

    Ma soprattutto Kassino è un esperimento.

    Io lo so.

    Non ne ho le prove, ovviamente, perché tutto è stato fatto nella massima riservatezza. Kassino è una specie di Area 51 in cui dalla fine del secondo conflitto mondiale si conduce un esperimento di portata storica.

    Tutto merito (o piuttosto colpa) della kassinina. Il nome l’ho inventato io, ma potrebbe corrispondere a quello reale, più o meno.

    La kassinina è una sostanza estremamente efficace nel manipolare la mente delle persone. Una droga sintetizzata in chissà quale laboratorio supersegreto degli U.S., un micidiale intruglio capace di controllare e coartare la volontà di un’intera popolazione, per generazioni e generazioni.

    Agli americani serviva un posto nel vecchio continente in cui sperimentare la loro nuova arma letale. Una nazione uscita sconfitta dalla guerra e alla loro totale mercé era quel posto.

    Perché sia stata scelta proprio Kassino, all’interno di quella nazione, vallo a capire. Forse per la sua posizione geografica, che fa sì che l’aria e le nebbie vi ristagnino mefiticamente. Forse perché la collina di Montekassino offriva un ottimo sito per collocare il marchingegno che irrora di kassinina il paese sottostante.

    Boh, non lo so. La mia è deduzione speculativa e oltre un certo limite non va.

    Comunque ci sono riusciti. Hanno creato un mondo immobile, dove non accade nulla, un acquario senza pesci, una finestra affacciata sul nulla.

    Sarà lungo le pendici di Montekassino, l’ordigno che diffonde la kassinina, o magari occultato tra le mura dell’abbazia ricostruita da Andreotti dopo che i liberatori l’avevano rasa al suolo, convinti com’erano che dentro vi fosse rintanato un manipolo di crucchi nazisti (invece c’erano solo poveracci che cercavano riparo dai bombardamenti e s’illudevano che almeno lì dentro sarebbero stati al sicuro. Macché).

    Gli americani avevano bisogno di cancellare tutto e ricostruire. A modo loro. Installando nottetempo, per notti e notti senza luna, il loro armamentario, in qualche grotta incastonata nella collina o nella feritoia delle mura perimetrali del monastero.

    Ogni tanto, d’estate, quando gli incendi devastano la collina di Montekassino, si sente deflagrare qualche vecchio residuato bellico. Questa almeno è la versione ufficiale. Ma io non ne sono tanto sicuro. Cosa c’è davvero dentro quelle bombe? Solo innocua polvere da sparo? Io presumo che ci sia anche la micidiale kassinina, messa lì dentro apposta per diffondersi nell’atmosfera anche attraverso questo astuto escamotage.

    Ma quali sono, nello specifico, gli effetti della kassinina sulla psiche degli inconsapevoli kassinati? In base alla mia esperienza, posso riassumerli così:

    acquiescenza e fatalismo;

    conformismo civile e politico;

    apatia e/o pressapochismo di sentimenti;

    donne (tutte) che inspiegabilmente quanto ostinatamente si rifiutano di congiungersi carnalmente con il sottoscritto.

    Ecco. È un mondo senza prospettive. Gelido. Impenetrabile.

    Tuttavia io lo penetro. Perché devo essere uno dei pochissimi ad aver sviluppato una resistenza alla kassinina che lo mette al riparo dai suoi effetti più devastanti.

    So di rischiare la vita ogni giorno. Già li vedo, nerboruti G-Men vestiti di nero che mi prelevano e mi trasportano oltreoceano per sottopormi a test ed altri innumerevoli esami volti a scoprire cosa mi rende diverso dai miei concittadini, cosa mi rende pressoché immune al veleno che pervade l’aria di questa landa irrecuperabile.

    Per questo devo stare attento a passare inosservato. Devo uniformarmi alla massa, omologare i miei comportamenti a quelli di tutti. Pensare come pensano gli altri, agire come loro. Anzi, restare immobile come loro.

    È l’unico modo per fregarli. Mi adeguo. Sto al gioco senza sbavature, senza tentazioni, senza deviazioni. Se questo è il mondo immobile, io sono il re del mondo immobile.

    «Hai da accendere?»

    Maglione verde bottiglia, capelli corvini e lisci, sguardo furbo, Marlboro tra le labbra sanguinanti di rossetto.

    E adesso questa chi è?

    Celeste

    La villa comunale di Kassino sorge all’ingresso della città ed è attraversata da ridenti corsi d’acqua che poi sfociano nel fiume Gari, che qui ha le sue sorgenti e che, confluendo poi nel Garigliano, si incarica di portare verso il mare le scorie residue di kassinina.

    Nessuno ha mai fatto né mai farà uno studio sugli effetti che le scorie di kassinina possono provocare a lungo andare sull’ecosistema marino. Forse non ve n’è alcuno, perché la sostanza ha conseguenze nocive esclusivamente sulla psiche umana, o invece chissà. Bisognerebbe sottoporre i pesci del Tirreno ad uno screening con l’ausilio di esperti ittiologi per verificare se hanno cambiato le loro abitudini in seguito all’inquinamento da kassinina. Per esempio se dal dopoguerra in poi hanno votato in massa DC, come accaduto qui, nei loro seggi elettorali tra i fondali e le meduse.

    In ogni caso oggi è uno di quei giorni di quasi primavera in cui il cielo è celeste e l’aria sta già perdendo l’odore dell’inverno, ed è qui che mi piace portare il mio cagnolino a passeggio.

    «No, non fumo.»

    «Perché?»

    Ecco, questo è un tipico effetto della kassinina. Solo a Kassino ti può capitare che una tipa – pure caruccia, glielo concedo – ti importuni per sapere se hai da accendere e alla tua risposta negativa, dovuta al semplice fatto che non sei un tabagista, ti chieda, come se fosse la cosa più normale del mondo, perché non sei un tabagista.

    «Ma che cazzo di domanda è?»

    «Va be’, dai, era tanto per parlare.»

    La tipa fa un mezzo giro su se stessa, sorride e non smette di fissarmi. «Io comunque mi chiamo Lena.»

    «In che senso comunque

    «Eh?»

    «Ho detto, perché comunque

    «Cazzo, tu sei proprio contorto, però.»

    «Io sono contorto?»

    «Sì.»

    E intanto si accovaccia a dare una carezza al mio cagnolino, che reagisce muovendo la coda, come fanno tutti i cani del mondo.

    «Che carino, guarda come muove la coda!»

    «E che ti aspettavi, che ti baciasse con la lingua in bocca?»

    «Cafone! Come si chiama?»

    «Micio.»

    «Ma è un cane!»

    «Lo so che è un cane. Però si chiama Micio.»

    «Mi prendi per il culo?»

    «Ma per quale motivo dovrei stare qui a prendere per il culo te, che neanche ti conosco!»

    «Madonna, tu sei veramente intrattabile, comunque. Mi sa che c’hai qualche rotella fuori posto, scusa se te lo dico.»

    Io faccio per andarmene, ma lei si accorge della medaglietta al collare di Micio, su cui è scritto Micio. La prende e la tira leggermente a sé per leggere meglio, mentre lui prova a leccarle la punta del naso.

    «Cazzo, ma è vero! L’hai chiamato Micio, non ci posso credere! Tu sei tutto matto, comunque.»

    «Contorto, con le rotelle fuori posto, tutto matto… che altro?»

    Lei si alza e senza nessuna ragione mi dà un bacio su una guancia. «Carino» dice.

    «Perché ‘sta cosa? Sei tu che mi prendi per il culo, adesso?»

    «Te l’ho detto, sei carino. Neanche questo ti va bene?» ribatte Lena. Sorride ed è carina lei, piuttosto. Mi scappa quasi di dirglielo, ma per fortuna si volta verso due ragazzotti in tuta che le passano accanto, per chiedergli sa hanno da accendere. Uno dei due, con un cappellino da baseball e le basette lunghe, tira fuori un accendino di plastica e l’accontenta, mentre l’altro la sta già squadrando da cima a fondo con occhi spermatici.

    Io ne approfitto per allontanarmi e la sento che ha attaccato bottone con il basettone, ride divertita di qualche sua battuta.

    Micio tira il guinzaglio. Glielo allungo un po’ e lo seguo a piccoli passi. Questa storia del bacio mi ha turbato, lo devo ammettere, mi chiedo se episodi così possano essere ascritti al piano della CIA per cercare di cogliermi in flagrante, se Lena o come cavolo si chiama in realtà, non sia altro che una figurante mandata quaggiù per provocarmi deliberatamente, per svelare una volta per tutte la mia kassininoresistenza.

    In effetti mi è sembrato che avesse un accento di fuori, appena una velatura, un retrogusto, per così dire, ma io ci faccio caso a queste cose, a forza di stare sempre attento a ogni minimo particolare ho sviluppato una sensibilità da investigatore.

    Assecondando Micio sono arrivato sul ponticello sopra il laghetto che taglia in due il parco, mi volto a guardare in basso, verso il punto in cui Lena mi aveva fermato chiedendomi se avevo da accendere e la vedo che ancora parla e gesticola con i due ragazzotti, a loro volta molto presi dalla conversazione, soprattutto il basettone, mentre l’altro adesso si è spostato leggermente di lato e si guarda intorno con atteggiamento da palo a cui tocca controllare che non sopraggiungano imprevisti.

    Mi chiedo se per caso pure quei due facciano parte della messinscena, anche se mi sembrano troppo giovani e sciamannati, troppo kassinati senza niente di meglio da fare, per essere due agenti dei servizi segreti in incognito. Ma vai a sapere.

    Il vento si è alzato e preme contro le foglie, alza qualche cartaccia, crea mulinelli di polvere e io mi ritrovo con gli occhi lucidi, ma non so se è per via del vento o perché verso sera mi succede quasi sempre di farmi prendere da questa malinconia leggera e senza scopo, questa languidezza dell’anima che mi fa commuovere della mia stessa pochezza; ho l’impulso di prendere in braccio Micio, coccolarlo per coccolare me, ma lo lascio a seguire le sue piste invisibili mentre mi trasporta verso l’uscita secondaria su via Arigni; mi volto un’ultima volta verso Lena, anche se non vorrei farlo, e non la vedo più, forse è andata via, forse non c’è mai stata, forse ho sognato tutto, così come tutti i giorni della mia vita mi sembrano solo un sogno ricorrente e premonitore di nulla, una tiritera indecifrabile a cui non posso fare altro che stare dietro, a cui non posso fare altro che allungare un po’ il guinzaglio, di tanto in tanto, e fare finta che sia io a tenerla e non lei a trascinare me.

    Rosa confetto

    Il giorno dopo sono di nuovo alla villa comunale con Micio e tutt’altri pensieri per la testa.

    C’è poca gente. Noto una coppietta intenta a strapazzarsi su una panchina mezzo arrugginita (la panchina, non la coppietta), una giovane mamma con una camicetta rosa confetto che spinge una carrozzina lungo il viale principale, qualche solitario lettore di libri o giornali seduto sull’erba o appoggiato di schiena al tronco di un albero.

    Penso alle formiche. Quelle che di sicuro popolano a centinaia di migliaia questi prati, che s’inerpicano lungo le piante, che senza posa tengono dietro al lavoro duro di essere formiche, lavoratrici instancabili e senz’anima, programmate per un’esistenza di pura formicazione, senza distrazioni, senza colpi di scena, senza alternative.

    Penso che quelli che hanno inventato la kassinina avevano in mente i formicai, li contemplavano a lungo, quindi si guardavano tra loro, con espressioni compiaciute e un po’ teatrali che somigliavano a quelle dei protagonisti di un vecchio film muto quando erano in procinto di baciarsi, e si dicevano:

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