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I tesori nascosti di Roma
I tesori nascosti di Roma
I tesori nascosti di Roma
E-book355 pagine4 ore

I tesori nascosti di Roma

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Una caccia al tesoro alla scoperta di opere d'arte segrete e gemme sconosciute

Come in una caccia al tesoro, questo libro traccia un percorso tra i palazzi e le chiese, nelle vie e sotto il selciato della capitale, alla scoperta di opere d’arte segrete e gemme sconosciute che il turista distratto, prima di oggi, non ha mai avuto modo di apprezzare. Dal centro storico alla periferia, dall’arte antica a quella contemporanea, la più bella città del mondo offre molti altri gioielli, esclusi dagli itinerari tradizionali e spesso sconosciuti anche per i romani. Dalla Casa di Augusto all’antica spezieria di Santa Maria della Scala, dall’acquedotto Vergine alla porta lignea di Santa Sabina, dalla galleria Sciarra Colonna, un raro angolo liberty, fino al rifugio antiaereo dell’EUR, Gabriella Serio ci svela i 101 luoghi unici da vedere almeno una volta nella vita.

«Vera miniera di itinerari inediti.»
la Repubblica

Le sibille di Raffaello
La regina delle cloache
Riti voodoo a piazza Euclide
Lo scalone del Palazzo del Gallo di Roccagiovine
Tracce dell’aldilà nel “piccolo Duomo di Milano”
Santa Bibiana, un tesoro tra i binari
Tiepolo all’Hilton
Virtuosismi prospettici a Sant’Ignazio
Il Forte Prenestino
La Madonna dell’archetto
La porta lignea di Santa Sabina
I chiostri nascosti di San Cosimato
La cripta dei papi, un piccolo Vaticano
La meridiana “degli angeli”

…e tante altre sorprese della città eterna!
Gabriella Serio
Laureata in Topografia antica e specializzata in Archeologia classica all’Università “Sapienza”, lavora presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Appassionata esploratrice della città di Roma, si occupa da anni di ricerche sul suo patrimonio storico-artistico. Ha pubblicato studi sull’argomento e collabora con periodici culturali. Per la Newton Compton ha scritto Curiosità e segreti di Roma e I tesori nascosti di Roma.
LinguaItaliano
Data di uscita18 giu 2014
ISBN9788854168589
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    Anteprima del libro

    I tesori nascosti di Roma - Gabriella Serio

       1.

    LE SPIGHE DI GRANO DI MASTRO GREGORIO

    Alcune, le più famose, sono facilmente riconoscibili perché svettano isolate, come ai tempi in cui furono costruite. Capita anche che si affaccino su piazze o strade che da esse prendono il nome. Le altre, la maggior parte, sono invece come mimetizzate. Inglobate in edifici posteriori, hanno perso la loro funzione originaria e sono abitate come un qualsiasi appartamento privato.

    Parliamo delle Torri medievali di Roma, preziose testimonianze della città dell’età di mezzo, quasi del tutto scomparsa negli anni di affermazione del Rinascimento.

    Vennero costruite tra il 900 e il 1400 circa, quali dimore e fortezze delle famiglie baronali e delle autorità ecclesiastiche, impegnate in quegli anni in un’aspra lotta per il potere, con le due principali casate romane, gli Orsini e i Colonna, schierate su due fronti opposti: i filo-imperiali e filo-papali. Sempre più spesso le contese per le cariche istituzionali sfociavano in vere e proprie battaglie a sassate, in sommovimenti popolari, in rappresaglie. Da qui la necessità, per i contendenti, di costruire residenze fortificate, come le torri, in grado di resistere agli assalti. Perfino il Colosseo, caduto in disuso ormai dal 523, nel corso dell’XI secolo divenne castello e fortezza della potente famiglia dei Frangipane. Dalla loro roccaforte turrita, sembra che gli esponenti della casata bersagliassero con sassi e frecce le maestranze addette alla costruzione della Torre degli Annibaldi che ancora si erge, mozza, presso la vicina via Fagutale.

    Mutilata in altezza è anche la Torre dei Conti, nella via omonima che costeggia i Fori di Nerva e di Augusto. Benché ridotta a un terzo della struttura originaria, conserva ancora un aspetto grandioso. D’altronde, la costruzione della più grande e munita torre privata romana fu commissionata non per volere di una famiglia, bensì di Innocenzo III, quale ulteriore difesa di un fortilizio di proprietà papale di cui fu castellano Riccardo Conti, fratello del papa.

    Vera e propria sede pontificia fu, invece, la Torre Caetani, sull’Isola Tiberina, che nell’XI secolo ospitò per qualche tempo Urbano II, il quale la scelse per difendersi dall’antipapa Clemente III. Tale decisione si rivelò provvidenziale poiché la roccaforte, costruita a regola d’arte, resistette a tutti gli attacchi. Ma i potenti Caetani, ultimi proprietari del complesso, non controllavano solamente il passaggio sul Tevere. Tenevano d’occhio, infatti, un po’ tutta la città dall’alto della Torre delle Milizie, strategicamente perfetta, in particolare, per fronteggiare i rivali Colonna, la cui residenza, con relativa torre, si trovava in via Quattro Novembre.

    Quella delle Milizie, entro la cornice dei fori imperiali, è senz’altro la torre più famosa di Roma. Con i suoi 51 metri di altezza è ancora oggi la più elevata, malgrado sia monca del terzo piano, crollato nel 1348 a seguito di un devastante terremoto. La sua singolare struttura architettonica attirò l’attenzione di Cimabue che la rappresentò ad Assisi in una delle prime vedute dal vero della città.

    Ma addentrandosi tra i vicoli dei rioni di Roma, da Monti a Campo Marzio, da Sant’Eustachio a Pigna, ci sono molte altre torri medievali, anche se meno note. C’è la Torre del Grillo che, forse, fu testimone dei comportamenti eccentrici del fantomatico marchese – riportato alla memoria dei romani dall’interpretazione di Alberto Sordi nel film del maestro Mario Monicelli. C’è quella dei Borgia, oggi trasformata in campanile della Chiesa di San Francesco di Paola. E ancora la Tor Sanguigna attorno alla quale si collegano storie di delitti e violenze. O la Torre della Scimmia in via dell’Orso… Sembra che nel panorama di Roma Medioevale, si contassero fino a trecento torri. Tante da sembrare, agli occhi di un viaggiatore erudito del XII secolo, il Mastro Gregorio, delle spighe di grano.

    Molte di esse col tempo sono scomparse, distrutte dai terremoti oppure abbattute volontariamente per far posto a nuove costruzioni. Di alcune, poi, rimane tutt’ora incerta l’identificazione, perché sono difficilmente distinguibili dagli edifici che le hanno in seguito inglobate. Forse era inevitabile che accadesse, le città si adeguano ai tempi e alle necessità di chi le abita. E di scempi, a Roma, ce ne sono stati di peggiori. Ma lasciateci almeno il rimpianto. Sarebbe bello potere ancora ammirare, magari dalla torre delle Milizie (quella più alta, ma aperta a un pubblico di pochi privilegiati) quella distesa di spighe di grano che aveva tanto affascinato Mastro Gregorio.

       2.

    IL CORTILE DI PALAZZO BORGHESE

    Varcare la soglia dei saloni di Palazzo Borghese è un’impresa piuttosto rara se non impossibile. In una parte del nobile edificio risiede, infatti, l’Ambasciata di Spagna. In un’altra l’esclusivo Circolo della Caccia che una volta rifiutò perfino l’iscrizione del principe Carlo, sostenendo che i suoi antenati non avessero abbastanza quarti di nobiltà. Volendo, si potrebbe provare a entrare bussando alla porta del principe Borghese – che ancora conserva un appartamento nello stabile – ma forse non è il caso di scomodarlo.

    Accontentiamoci allora, si fa ovviamente per dire, del vasto e sontuoso cortile che ogni tanto è concesso per manifestazioni ed eventi speciali.

    Ancora oggi richiama magicamente alla memoria la fastosa vita del Seicento romano e non sarà difficile immaginarvi qualche cocchio dorato o il passaggio di dame e cavalieri. La sua bellezza è quasi sfacciata come la ricchezza delle sue decorazioni. Due enormi statue, di fronte all’ingresso, danno il benvenuto al visitatore mentre una terza, orgogliosa, si erge sulla destra. Sui quattro lati è circondato da una doppia loggia ad archi sorretti da ben 96 colonne accoppiate, di granito, cipollino e granito rosso. Non solo: sul retro si apre un enorme giardino-ninfeo, ornato da tre scenografiche fontane barocche. In origine erano solamente due ma Giovanni Battista Borghese, pur di poterne sfoggiarne una terza, scomodò il papa in persona per ottenere – riuscendoci in tempi brevissimi – la concessione di una maggior quantità d’acqua. I complessi timpani che le sovrastano sono sostenuti da coppie di atlanti su piedistalli, mentre nelle nicchie centrali si può ammirare l’elegante gruppo statuario noto con il nome Bagno di Venere, che raccoglie la rappresentazione di tre dee: Flora (nella fontana di sinistra), Il bagno di Venere (in quella centrale) e Diana (a destra).

    Frutto di numerose modifiche e ampliamenti di fabbricati preesistenti, il colossale Palazzo Borghese ha rappresentato per secoli una straordinaria manifestazione del potere papale (in particolare di Paolo V) e dinastico. In un antico detto popolare viene chiamato cembalo di Roma, per via della sua strana forma che ricorda un pianoforte, la cui tastiera darebbe su via di Ripetta, presso il Tevere, dove si vede un caratteristico portichetto con balconata.

    Anche la piazza antistante, che da esso prende il nome, ricadeva nelle dipendenze dei suoi nobili e potenti inquilini. I Borghese, infatti, acquistarono all’inizio del Seicento quasi tutti gli edifici che la circondavano e ottennero il diritto di chiuderla con le catene per proibire l’accesso agli esterni. Ai confinanti fu anche vietato di aprire le finestre che vi si affacciavano sopra. Neanche il di granduca di Toscana, un de’ Medici, riuscì a ottenere in merito alcun privilegio: quando nel 1609-10 decise di ampliare il suo Palazzo Firenze, posto nelle vicinanze, il papa comprò il terreno tra le due proprietà e vi fece erigere un muro – scomparso da tempo – per chiudere la visuale al nobile fiorentino.

    Ancora oggi, di fronte al lato curvo di Palazzo Borghese si trova l’ex dimora dei famigli, l’edificio in cui vivevano, appunto, servitori e dipendenti. Sui battenti ornamentali di un’altra struttura nel lato sud, invece, si vedono gli emblemi del drago e dell’aquila, simboli del casato.

    Tra le personalità eccentriche e vivaci che abitarono il cembalo, un posto di rilievo merita sicuramente Paolina Bonaparte, sorella preferita di Napoleone e moglie fedifraga del principe Camillo Borghese da lei definito testualmente un imbecille. Immortalata per sempre da Canova come Venere Vincitrice, si narra che dominò tante battaglie a letto quante ne dominò il glorioso fratello in guerra e in politica. Tra le sue numerose singolari abitudini aveva quella di usare le dame di compagnia come poggiapiedi; impareggiabile, però, quella di farsi portare nella vasca da bagno dal suo colossale valletto africano.

    Pochi mesi prima di morire tentò anche di riconciliarsi con il marito, spinta da una crisi spirituale-finanziaria. Be’, come andò a finire? Naturalmente lui se la riprese.

       3.

    I MULINI ALL’ISOLA TIBERINA

    Per scovare ciò che resta degli antichi mulini sul Tevere, bisogna recarsi sull’Isola Tiberina. Una volta lasciata la terraferma attraverso ponte Cestio o ponte Fabricio, entriamo nella millenaria chiesa di san Bartolomeo, fatta costruire nel 998 dall’imperatore tedesco Ottone III.

    Giunti in fondo alla navata centrale, a sinistra dell’abside, troviamo ciò che andavamo cercando: la cappella dei Molinari. Questa corporazione aveva qui, fin dal 1626, la propria sede religiosa e pertanto sulle pareti erano state riportate scene inerenti la gravosa attività. I soggetti principali sono due imbarcazioni affiancate in mezzo alle quali sta una grande ruota molto larga.

    Per la maggior parte dei romani di oggi si tratta di immagini assolutamente nuove. In un passato non troppo lontano, però, costituivano una caratteristica particolare del paesaggio del Tevere. Quelle case galleggianti, sormontate da una croce, sono gli antichi mulini ad acqua, che non avevano pregi architettonici ma svolgevano un ruolo importante nell’economia della città dei Papi, perché fornivano la farina necessaria per produrre il pane, il principale alimento della popolazione.

    La loro presenza era così significativa che suscitarono spesso l’interesse degli artisti come Giuliano da Sangallo, che ne ritrasse tre, o dell’incisore belga Egidio Sadeler. Un’incisione di Giovanni Battista Piranesi indica poi nella didascalia, come soggetto del ritratto, il Ponte ferrato degli antiquari detto Cestio. Dove quel ferrato si riferisce alla gran quantità di corone di ferro che servivano per agganciare i mulini alla terra ferma e che erano così visibili e caratterizzanti da fare cambiare, a livello popolare, la denominazione del ponte.

    Se interessavano i pittori, i mulini invece preoccupavano gli ingegneri al servizio dei papi. Quando le piogge cadevano abbondanti, le acque si ingrossavano e uscendo dagli argini invadevano le aree circostanti. Vecchie immagini ci mostrano una specie di città lagunare, nella quale il pane veniva distribuito dalle barche alle famiglie bloccate nei piani superiori delle abitazioni.

    In queste occasioni le mole costituivano un’ulteriore fonte di pericolo soprattutto quando la furia della corrente spezzava gli ancoraggi e trascinava il mulino galleggiante in balia della corrente. Capitava allora che i capannoni, troppo alti, si incagliassero sotto le arcate dei ponti e formassero delle vere e proprie dighe che interrompevano il corso del Tevere, alzandone il livello. Ma anche quando passavano, succedeva che minacciassero le imbarcazioni ancorate nel porto di Ripa Grande o all’Arsenale, che si trovavano a poca distanza da Porta Portese.

    Diari e testimonianze riportano molti episodi critici, provocati dalle intemperanze del Tevere. Alcuni incruenti, altri disastrosi. Francesco Ludovico Valesio, nel suo Diario di Roma, racconta la disavventura di quella gondola, proprietà dell’ambasciatore di Venezia presso lo Stato Pontificio, che nel maggio del 1706 fu travolta dalla corrente. Gli occupanti, che erano servitori del diplomatico, furono trascinati in mezzo alle pale di un mulino. Se la cavarono perché era un giorno festivo e la pala era ferma.

    L’incidente più grosso avvenne, comunque, con l’alluvione del dicembre del 1870. Per i romani fu un’esperienza terribile. Si ripeterono le scene di sempre: zattere che salvavano donne che si trovavano a piano terra e che rischiavano di annegare; altre che fornivano il pane a chi era rimasto prigioniero nei piani alti. I mulini furono ancora una volta protagonisti di primo piano. Quella volta furono addirittura tre ad essere strappati dagli ancoraggi e trascinati pericolosamente verso i ponti.

    Si chiudeva praticamente così la plurisecolare storia dei mulini del Tevere. Ma la colpa, naturalmente, non fu soltanto dell’alluvione. Era finita la loro funzione economica, nuove tecniche avevano reso meno conveniente l’utilizzazione dell’acqua come forza motrice. Dei mulini rimangono principalmente le testimonianze nella cappella dei Molinari e nei lavori di pittori e fotografi. Le guardiamo con nostalgia, perché contribuivano a formare un paesaggio diverso da quello di oggi. Ma, anche, senza rimpianto. Gli ingegneri idraulici avevano ragione: erano veramente una continua fonte di pericolo.

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    I MULINI ALL’ISOLA TIBERINA

       4.

    I COLORI DELLA SINAGOGA

    Da fuori, vista dal Lungotevere Cenci, ha l’aspetto di un monumento massiccio, severo; di colori, poi, neanche a parlarne: le pareti, sin dall’inaugurazione nel 1904, sono interamente color sabbia. È al suo interno che si è colti di sorpresa, mai infatti ci si aspetterebbe di vedere un simile spettacolo. Non c’è un angolo nella Sinagoga, o Tempio, come amano chiamarla gli ebrei romani, che non sia dipinto in toni scintillanti. Forse lo si poteva intuire dalle vetrate, quando con il calare del sole la luce delle lampade interne ne fa risaltare la ricca decorazione liberty. Ma quello è solo l’inizio; poi, una volta dentro, i colori dell’arcobaleno ci sono tutti a cominciare dalla decorazione della maestosa cupola quadrata che svetta orgogliosa fra le altre nel panorama della Città eterna. Non ci sono nell’intradosso scene figurate, il comandamento biblico del resto lo vieta, ma sette filari di squame ognuna di una gradazione diversa dall’altra; ai piani d’imposta ci sono grandi palme e cedri in ricordo delle terre d’origine del popolo ebraico. Il tutto risulta poi particolarmente brillante perché la pittura – caso raro – è stata applicata direttamente sull’alluminio della volta.

    Non meno spettacolari sono le pareti della grande aula dove i colori vivi e inalterati dal tempo disegnano palmette, fiori, girali in uno stile eclettico fra liberty e arte babilonese. Non sembra, a dire il vero, di stare a Roma; più che altro da qualche parte in Oriente dove la tradizione israelitica narra stretto il patto d’alleanza.

    A decidere degli ornamenti furono i pittori umbri Domenico Bruschi e Annibale Brugnoli, due dei protagonisti dello stile liberty fra Otto e Novecento. Il primo, accademico di San Luca, si occupò dei disegni ispirati a motivi assiro-babilonesi. Il secondo, che già a Roma aveva decorato la cupola e il sipario di quello che allora si chiamava Teatro Costanzi, oggi Teatro dell’Opera, si dedicò al colore, applicando peraltro diverse tonalità di dorature che oltre a simulare mirabilmente l’incidere dei raggi solari, fecero lievitare sensibilmente la spesa preventivata. Il loro compenso, oggi fa sorridere, ammontò complessivamente a 24.753 lire, mentre per le dorature si sforò di 8.000 lire.

    Anche le vetrate, come si è accennato prima, sono di gran pregio. Furono commissionate al maestro vetraio Cesare Picchiarini, lo stesso che pochi anni più tardi avrebbe realizzato quelle celebri della Casina delle Civette a Villa Torlonia.

    Ci teneva, insomma, la comunità ebraica di Roma degli inizi del Novecento ad avere un sinagoga di tutto rispetto e fu forte e attiva la partecipazione dei correligionari alle sottoscrizioni indette per la sua edificazione. Del resto erano gli anni dell’emancipazione, dell’abolizione del ghetto voluta da Vittorio Emanuele II. Gli ebrei, con l’Unità d’Italia, avevano acquistato a pieno titolo la cittadinanza e con essa il diritto di rendere ben visibile una sinagoga degna di confronto con altri monumenti e luoghi di culto della nuova Capitale. Sulle macerie del serraglio degli Ebrei – com’era anche chiamato il Ghetto – ormai demolito, gli architetti Costa e Armanni eressero così, tra il 1901 e il 1904, il simbolo concreto della libertà acquisita, della dignità riconquistata, della volontà di appartenenza nazionale. L’imponente costruzione andò quindi a sostituire il vecchio tempio israelitico che raccoglieva in un unico edificio le Cinque Scole (la Castigliana, la Catalana, la Siciliana, la Nova e l’Italiana) a seconda del rito.

    L’inaugurazione avvenne solennemente il 27 luglio del 1904 preceduta qualche giorno prima da una breve ma intensa visita del re Vittorio Emanuele III che aveva spontaneamente espresso il desiderio di visitare il nuovo monumento.

    E pensare che negli anni che ne precedettero la costruzione venne fortemente caldeggiata la proposta di collocare proprio lì, di fronte l’Isola Tiberina, il Palazzo di Giustizia. Se ne parlò seriamente per almeno un decennio fino a quando, per qualche imperscrutabile accadimento burocratico, venne stabilito che il Palazzaccio sarebbe dovuto sorgere nel nuovo quartiere in corso di costruzione ai Prati di Castello.

       5.

    LO SCALONE DI PALAZZO DEL GALLO DI ROCCAGIOVINE

    Questo elegante palazzo mostra la sua nobile facciata di fronte al ben più famoso Palazzo Farnese e, probabilmente per questa sua particolare posizione, passa spesso inosservato. Fu costruito da Baldassarre Peruzzi nel 1520 e custodisce nel suo cortile interno un magnifico scalone, forse il più bello della Roma settecentesca. Ma difficilmente lo si può ammirare passando dal portone principale, quasi sempre chiuso a chi non ha la fortuna di abitare nel palazzo.

    Una via alternativa – che poi è la stessa che anni fa mi portò a conoscere questo tesoro – è quella di sbirciare da una anonima finestrella in un locale di piazza Campo de’ Fiori, il Nolano, a destra guardando la statua di Giordano Bruno. Per individuarla (la finestra), chiedete della toilette e prima di scendere la rampa di scale ve la troverete sulla destra. Nonostante le pesanti grate di ferro lo spettacolo che si apre dall’altra parte è davvero straordinario: l’imponente scalone, infatti, comparirà proprio di fronte ai vostri occhi.

    Dà l’impressione di un grande loggiato, se non fosse per il suo andamento leggermente obliquo. Si snoda su tre piani ed è decorato da colonne e pilastri e da una graziosa balaustra di marmi e stucchi.

    Quello che è insolito è che esso rappresenta lo scalone d’onore del palazzo, solitamente elemento monumentale che

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