101 cose divertenti, insolite e curiose da fare gratis in Italia almeno una volta nella vita
Di Isa Grassano
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Info su questo ebook
«Idee originali e di natura diversa per una gita o per un weekend.»
La Repubblica
«È qualcosa di più di una trovata divertente o di una guida ben fatta e originale: corrisponde a una filosofia di vita. Curiosa, positiva, creativa e soprattutto sobria. Quindi molto, ma molto cool.»
Daria Bignardi
Divertirsi senza spendere un euro
Isa Grassano
38 anni, giornalista professionista, si occupa prevalentemente di turismo e di enogastronomia. Collabora con numerose riviste, tra cui «I Viaggi di Repubblica», «Il Venerdì di Repubblica», «Elle», «Qui Touring», «VdG magazine», «Weekend In Auto» e la testata on line Tgcom Mediaset. Ha vinto numerosi premi giornalistici, tra i quali: Benedetta D’Intino Mondadori, Chatwin, Terra del Mediterraneo. Realizza documentari video, collaborando con lo studio di produzione Hippo Productions.
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Anteprima del libro
101 cose divertenti, insolite e curiose da fare gratis in Italia almeno una volta nella vita - Isa Grassano
89
Prima edizione ebook: settembre 2011
© 2011 Newton Compton editori s.r.l., Roma
ISBN 978-88-541-3418-8
www.newtoncompton.com
Edizione elettronica realizzata da Gag srl
Isa Grassano
101 cose divertenti, insolite e curiose da fare gratis in Italia almeno una volta nella vita
Illustrazioni di Emiliano Tanzillo
Newton Compton editori
Alla mia mamma
Introduzione
«Cose belle da fare gratis?». «Ma di gratis, fra un po’, non ci sarà neanche l’aria che si respira». Così mi sono sentita rispondere dalla maggior parte di amici e conoscenti che ho interpellato per un aiuto nell’individuare 101 cose da fare gratis del nostro bel Paese. Qualcun altro, più romantico, ha aggiunto: «Fare l’amore è gratis». Altri ancora, quasi malinconicamente, hanno affermato: «Solo i sogni non hanno prezzo».
Quasi tutti però di fronte alla mia domanda sono rimasti spiazzati, abituati come siamo a pagare qualunque cosa e per questo, talvolta, incapaci di far caso a quei beni che sono fruibili liberamente.
«Le cose gratuite sono quelle che costano di più. Come? Costano lo sforzo per capire che sono gratuite». Così scriveva Cesare Pavese, nel 1940. E aveva ragione.
Eppure, a ben guardare, sono diverse le possibilità di godere di un posto, di toccare con mano
un pezzo di storia, di entrare in un museo, di fotografare una rarità, di ammirare un paesaggio, di assaggiare un prodotto tipico, di divertirsi a una festa o sagra o a un concerto, tutto a gratis
, come usano dire le nuove generazioni.
Nella propria città, nei luoghi di vacanza, al mare come in montagna. Basta saper cercare. A volte sono sotto i nostri occhi e non ce ne accorgiamo. In queste pagine ho cercato di segnalare le cose più curiose, per offrire una mappa ben chiara da Nord a Sud.
Sapevate ad esempio che ogni ultima domenica del mese i Musei vaticani a Roma, scrigno di preziosi tesori, non fanno pagare il biglietto di ingresso? E che al Museo del Novecento a Milano, il venerdì pomeriggio c’è un incontro libero con l’arte? Per non parlare del giorno del proprio compleanno. Si può vivere divertendosi e senza spese all’Italia in miniatura di Rimini. Anche questo è un bel regalo. Tante altre, poi, le occasioni da sfruttare. Immergersi nelle acque termali delle piscine naturali, in Toscana, per ritrovare benessere e relax. Ripercorrere antichi sentieri, capaci di trasportare nel passato e di dare emozioni. Leggere i free press distribuiti a ogni angolo nelle stazioni metropolitane e dei treni.
Sono tutte cose che vale la pena di provare. E se proprio qualcosa non dovesse soddisfarvi in pieno, ricordate che, in fondo, non avete speso nulla.
1.
Schiacciare le palle del toro
per avere fortuna, in galleria Vittorio Emanuele ii. Milano
Una piroetta e via. Nessuno sfugge al rito propiziatorio di ruotare su se stessi, simili a pavoni dalla gigantesca coda variopinta.
Si sta, all’interno della galleria Vittorio Emanuele II, nel cuore di Milano, col tallone del piede destro, sugli attributi maschili del toro, simbolo dello stemma della città di Torino, inciso sul pavimento dell’Ottagono.
La tradizione popolare ritiene che porti fortuna. Un’usanza antica: negli anni Cinquanta numerosi erano gli artisti che, prima di incontrare gli impresari teatrali, posavano il loro piede sui genitali dell’animale ritratto a mosaico, per rimettersi alle grazie della Provvidenza.
Oggi sono migliaia i turisti e i milanesi che quotidianamente schiacciano le palle
per affidarsi alla buona sorte. Qualcuno insinua che la vera consuetudine è fare questo gesto solo alla mezzanotte del 31 dicembre, perciò il primo giorno dell’anno questo luogo è meta di veri e propri pellegrinaggi.
Ma, in realtà, in qualunque momento si attraversi questo passaggio pedonale d’eccellenza (collega piazza del Duomo a piazza della Scala), si troverà sempre qualcuno che ben posizionato sul simbolo araldico dei Savoia (oltre al toro, ha una croce bianca in campo rosso) sta volteggiando in aria, a occhi chiusi e sorridente.
Solo dopo essersi assicurati momenti migliori, si può godere della bellezza di questo salotto milanese
, una grande opera architettonica in uno stile eclettico dell’edilizia industriale, con grottesche, lunette e lesene (progettata da Giuseppe Mengoni, fu aperta nel 1867 e completata nel 1878).
Un ambiente sfarzoso ed elegante, ricco di boutique di prestigio, ristoranti di tendenza, bar alla moda e librerie.
Accanto al benaugurante toro, sempre in mosaico, sono rappresentati gli stemmi delle quattro città che sono state le capitali del Regno d’Italia: nell’ordine Milano, Torino, Firenze e infine Roma. Nelle lunette attorno alla volta, invece, che si alza all’incrocio dei bracci fino a 47 metri, si ritrovano le allegorie dei quattro continenti: Africa, Asia, Europa e America.
Poi lo sguardo va in alto, alla cupola centrale in ferro e vetro che sovrasta ogni cosa e allo sfarzo decorativo che, in passato, era servito a celebrare il nuovo ruolo di Milano, come centro economico di un’Italia faticosamente unita. E si ritorna indietro nel tempo, immaginando principi di sangue, re e regine del bel mondo, attori e attrici, che frequentavano questo passaggio, magari dopo essere stati alla Scala. Si dice che Giuseppe Verdi ci passeggiava spesso, senza essere riconosciuto.
Dall’altra parte del tunnel
ci si trova di fronte al Duomo, bello e maestoso. Incanta per le 135 guglie che s’innalzano al cielo e le numerose statue esterne. Tra queste spiccano i bassorilievi di martiri e profeti (san Felice, san Vittore, san Canziano), ma anche le presenze laiche di Dante Alighieri e Arturo Toscanini.
Info:
Comune di Milano: tel. 02 0202
www.turismo.milano.it
2.
Respirare quel sapore futurista al museo del Novecento, ma sempre di venerdì. Milano
Secondo l’antico proverbio: Di venere e di marte non ci si sposa, non si parte, né si dà principio all’arte
, ovvero di venerdì e di martedì ci sono cose che conviene non fare, come celebrare le nozze, programmare un viaggio o intraprendere un’attività legata alla creatività. Ma per una volta essere scaramantici non conviene. Anzi, il detto popolare va sfatato. Perché di venerdì, ma solo di pomeriggio (dalle 16:00 alle 19:30), conviene dar inizio
a tutta l’arte, nel Museo del Novecento. E senza pagare il biglietto di ingresso!
Solo tre ore per accedere a palazzo dell’Arengario, proprio vicino al Duomo, ma ne vale la pena: oltre quattrocento opere del Secolo Breve, fra le quali ciascuno può trovare il suo artista preferito.
Un po’ di fila sicuramente c’è, ma il tempo passa più in fretta e non ci si annoia se si legge uno dei tanti free press che vengono distribuiti in metropolitana (Duomo). Non dimenticate, quindi, di prenderne una copia o più di una, visto che ce ne sono diversi («Leggo», «City», «Metro»).
Dal mezzanino della metropolitana Duomo, inoltre, si può salire direttamente all’ingresso del museo attraverso una scala elicoidale. Già la rampa è un’opera d’arte, dal sapore futurista; un colpo di scena che riporta alla mente il Guggenheim di New York. Qui si fa il primo importante incontro con il Quarto Stato (1898-1902), la famosa marcia solenne dei contadini dipinta da Giuseppe Pellizza da Volpedo.
Al primo piano, nella sala delle Colonne, ci si trova di fronte la collezione Jucker, con pezzi del Novecento internazionale. A fare gli onori di casa è Picasso e la sua Femme nue. Nella sala dedicata a Boccioni, sono esposti capisaldi del Futurismo: Elasticità, manifesto pittorico del movimento, e Forme uniche della continuità dello spazio, una scultura in bronzo. Tra gli altri ci sono Ardengo Soffici, Giacomo Balla, Carlo Carrà.
Da non perdere, la piccola mostra monografica di Giorgio Morandi, il pittore delle bottiglie
, com’è stato affettuosamente definito. L’artista bolognese amava circondarsi di bottiglie, scatole, ciotole che diventavano, poi, le protagoniste dei suoi quadri; gli piaceva soprattutto che la vita quotidiana, fatta di piccoli cambiamenti, rendesse tali oggetti diversi ogni giorno, soprattutto con un filo di polvere in più (è noto che si raccomandava con le sorelle perché il pulviscolo, mentre spazzavano, finisse sulle sue cose). Così si possono ammirare diverse nature morte, dal 1913 agli anni Quaranta. Non mancano i paesaggi, soprattutto quelli realizzati lungo le colline della media valle del Reno (in provincia di Bologna): borghi, alberi, campi di grano, che Morandi seppe rendere così misteriosamente belli.
Si prosegue ed ecco la sala personale di Giorgio de Chirico, gli astrattisti anni Trenta, le opere di Michelangelo Pistoletto (tra cui il celebre quadro specchiante, Ragazza che scappa).
Dall’ultimo piano occhieggia la Struttura al neon, di Lucio Fontana. Questo lavoro, insieme agli altri spazialisti
, fa da quinta a una vista straordinaria sulla piazza che si gode dalle ampie vetrate, con palazzo Reale, il Novecento architettonico di piazza Diaz e soprattutto le guglie del Duomo, fin lassù alla Madonnina, simbolo della città. Arte su arte.
Info:
Museo del Novecento: tel. 02 88444061
www.museodelnovecento.org
3.
Seguire i canali di Leonardo da Vinci. Milano
Senza le acque dei Navigli, anche il Duomo di Milano, forse avrebbe avuto un’altra storia. Si deve proprio ai canali (che fecero da cornice anche alla vita di Leonardo da Vinci, tanto da essere stati ribattezzati i Navigli di Leonardo
: fu proprio lui infatti a progettare il sistema di chiuse) la costruzione dell’imponente chiesa.
Nel 1386, Gian Galeazzo Visconti concesse agli agenti della Fabbrica del Duomo di poter trasportare liberamente a Milano – e senza pagamento di pedaggio, riportando la scritta "ad usum fabricae" – tutto il necessario per il cantiere: legnami, pietre e i marmi delle cave di Candoglia, vicino al lago Maggiore (il tutto durò per quasi cinquecento anni, fino al 1913).
Con l’avvento dei mezzi gommati, il costo dei trasporti sui Navigli diventa troppo alto e così venerdì 30 marzo 1979 l’ultimo barcone ormeggia alla Darsena, il porto
, in una pallida giornata nebbiosa.
Nel tempo, poi, questa autostrada d’acqua
è stata progressivamente coperta perché i canali erano maleodoranti e considerati d’intralcio al traffico. Tuttavia, non sono poche le tracce ancora visibili in città. Le più importanti? Il Naviglio Grande, il Naviglio Pavese e il Naviglio della Martesana.
Vi è anche vicolo dei Lavandai (che si stacca lateralmente dalle sponde del canale più antico, il Naviglio Grande). Qui si possono vedere anche i brellin, le lastre in pietra inclinate, dove le donne dei ceti meno abbienti, spesso al servizio delle famiglie benestanti, s’inginocchiavano per strofinare i panni.
Si può passeggiare lungo gli argini o tra le corti delle case, con le ringhiere fiorite di glicini o gerani, tra vecchi laboratori artigiani, fabbriche dismesse, avveniristici loft, occupati da designer, fotografi, architetti, per rivivere il fascino di una vita che scorreva lenta sull’acqua.
Il Naviglio Pavese, invece, si caratterizza per i barconi galleggianti
, ristoranti che sfilano uno accanto all’altro e per le case tutte colorate: gialle, rosse, grigie.
Tra gli altri Navigli, infine, c’è quello della Martesana, che attraversa la zona nord, circondato da piste ciclo-pedonali.
Un tempo, vi erano tanti passaggi pedonali che varcavano il Naviglio. Tra questi, il ponte delle Sirenette, costruito tra il 1840 e il 1842, su progetto dell’architetto Francesco Tettamanzi.
I milanesi l’avevano ribattezzato ponte delle sorelle Ghisini
, perché si trattava del primo ponte costruito in Italia con la ghisa, una lega metallica composta da ferro e carbonio, che tanto era di moda in Europa. C’è da ricordare che, in passato, le forme procaci delle sirene, anch’esse di ghisa, non mancarono di suscitare qualche polemica, indignando le puritane coscienze ottocentesche. Ma, allo stesso tempo, le statue divennero oggetto di culto. Le coppie di innamorati erano solite sfiorarle, nella speranza di ricevere protezione per il loro amore.
Dagli anni Trenta del Novecento il ponte è stato trasferito al parco Sempione, ma le belle sirenette continuano a non disdegnare le carezze dei passanti.
Info:
www.turismo.milano.it
4.
Ritrovare la scarpetta di Cenerentola tra centinaia di modelli. Vigevano (Pavia)
Ballerine, tacco a spillo, a punta, arrotondate, zeppe. Per indossare tutte le scarpe che si sognano, a molte donne non basterebbe una vita intera. Ma per godersele in vetrina si può organizzare uno shoes tour nel Museo della calzatura, nelle scuderie del Castello sforzesco di Vigevano. Del resto, la cittadina lombarda ha fatto le scarpe a tutti
, con una grande produzione artigianale.
Nelle sale sono esposte oltre quattrocento calzature di tutti i tempi (a rotazione su una collezione molto più ricca), fra cui scoprire i pezzi più rari e curiosi ma anche la storia dei vari stili, del design e della creatività.
Stando ben attenti, si può scovare anche la famosa scarpetta di Cenerentola che ogni donna vorrebbe nel suo guardaroba, per sentirsi un po’ principessa.
In esposizione, in un percorso cronologico, alcuni modelli di importante valore storico, come la pianella datata 1495, appartenuta a Beatrice d’Este, moglie di Ludovico il Moro, che nacque nel castello e che contribuì a fare di Vigevano la residenza preferita della corte ducale.
Ancora, romantiche scarpette in raso del tardo Settecento veneziano, decorate con nastro plissettato, che riportano indietro, ai fastosi balli in maschera. Preziose realizzazioni degli anni Venti, con dettagli in metalli nobili, si alternano ad altre povere nell’aspetto ma geniali nell’utilizzo dei materiali alternativi, reperibili nel periodo bellico. Tra le linee originali ci sono i modelli anni Settanta, in materiali multicolor e patchwork, fino ai pezzi esclusivi, indossati da personaggi famosi, tra i quali: Mussolini e Maria José di Savoia.
Da non perdere, l’incredibile cappello-scarpa, disegnato da Salvador Dalí per la moglie Gala.
In pochi sanno che il tacco a spillo, intramontabile accessorio, simbolo della seduzione femminile che permette alle più modaiole di svettare con un’andatura sensuale, è nato proprio a Vigevano, nel 1953. Per questo non poteva mancare un’ampia sala dedicata allo stiletto.
Nella sala etnica si ha, invece, una panoramica sul mondo: scarpe provenienti da luoghi ed etnie lontani. Sandali giapponesi, scarpette cinesi, calzature sudamericane, africane e orientali.
Ricca la sezione di stile e design, in cui si ammirano scarpe che sembrano gioielli, impreziosite da cristalli, pietre, opere creative di grandi nomi come Salvatore Ferragamo, Dior, Armani, Yves Saint Laurent, Roger Vivier, Charles Jourdan, Cesare Paciotti.
Infine, ci sono le chopine
(di origini spagnole), vere e proprie impalcature, con tacchi esageratamente alti, che potevano raggiungere il mezzo metro d’altezza. Erano prodotte a Venezia da artigiani locali e, talvolta, potevano essere tempestate di pietre preziose. Ben presto divennero un simbolo di ricchezza e quindi molto in voga tra le nobildonne dell’epoca.
La curiosità? Le signore le utilizzavano come espediente per aumentare la statura. Ovviamente stando su questi trampoli, si aveva un’andatura molto sinuosa e ancheggiante, che richiamava l’immaginario erotico, tanto che alle suore fu vietato di indossarli.
Info:
Castello sforzesco di Vigevano: tel. 0381 691636
www.museodellacalzatura.jimdo.com
5.
Ridiventare bambini al Museo del cavallo giocattolo. Grandate (Como)
Nell’infanzia di tutti c’è sempre stato un cavallo: le femminucce sognavano una carrozza trainata da puledrini per essere romanticamente trasportate nel mondo delle fiabe o il cavallo bianco e rosa di Barbie. I maschietti, invece, s’immaginavano sul destriero di Zorro per sfrecciare lontano. La fantasia si scatenava persino su un piccolo purosangue di legno a dondolo. Poi i giri sulle giostre nelle feste di paese o nei luna park, che davano davvero la sensazione di andare al galoppo.
C’è chi ha pensato che valesse la pena di serbare memoria di questi ricordi d’infanzia. E così dal desiderio di un bambino che giocattoli non ne aveva, è nato un ritrovo
speciale per questi cavalli giocattolo.
Più di cinquecento equini-balocchi
, per tutti i gusti. Di legno o di pezza, con le ruote, a pedali, a dondolo, sfarzosi, meccanici, da corsa o da guerra. Antichi e moderni, e tutti hanno un nome. Non ci sono vetri e barriere a separarli dal pubblico, chi vuole può persino montarvi sopra, accarezzarli, toccarli. Un modo per capire l’importanza di questo primo mezzo di trasporto. E ci si può divertire a leggere la storia di ogni esemplare: a chi è appartenuto, da dove proviene, di che materiale è fatto, quanti anni ha.
Si scopre Paolo Natalino, che cammina e dondola la testa mentre trascina il suo carrettino costruito in Italia oltre settant’anni fa. Apparteneva al piccolo Paolo, che poteva giocarci un solo giorno all’anno, a Natale. O ancora Edoardo, cavallino a dondolo, realizzato in legno e dipinto con decorazioni tipiche gardenesi a Ortisei, o Stevanne che arriva, invece, da una riserva indiana, tutto legno, criniera in lana e cuore in pelle sul petto. Tiziano e Raffaello, con grandi ruote colorate e di provenienza tedesca, a dispetto dei loro nomi italiani. E il giapponese Mikao, ornato di cordoncini