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101 cose da fare in Abruzzo almeno una volta nella vita
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E-book384 pagine4 ore

101 cose da fare in Abruzzo almeno una volta nella vita

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Info su questo ebook

Ci sono luoghi la cui bellezza è quasi paga di sé e l’energia vitale è capace di contagiarci con la sua insinuante malia. In Abruzzo la natura ti coinvolge. Ci sono le montagne, come la Maiella – la Montagna Madre, sacra alla dea Maia – o la Bella Addormentata, indimenticabile nel rosso aranciato dei tramonti. Ci sono i boschi dove si incontrano ancora orsi e lupi. C’è il mare, l’Adriatico cantato da d’Annunzio, e la poesia dei trabocchi sospesi su maree profumate d’Oriente. I laghi si fanno porte d’accesso su mondi che paiono magici; all’escursionismo, alle immersioni avventurose nella natura, si affianca il turismo dell’anima, il turismo del mistero, il turismo del cuore… Siamo nelle terre in cui l’ingegno umano è celebrato da capolavori artistici che hanno incantato nei secoli i viaggiatori, da prodezze architettoniche ma anche dalla varietà della cucina, delle ricette, dei magnifici vini. In Abruzzo si riscopre la fierezza delle misteriose civiltà che dominarono prima dei Romani. Mura megalitiche o castelli, borghi antichi o tratturi mediterranei: il passato riaffiora ovunque in storie di saraceni e paladini, donne speciali e miracoli inattesi, briganti e re in fuga… Mentre l’Abruzzo di oggi si scatena nella movida più trendy, tra Star Party e Street Party, festival del jazz, della danza e del cinema, aprendosi al futuro nella sua ferita ma irriducibile bellezza che i 101 suggerimenti di questo libro provano a catturare.

L’Abruzzo come non l'avete mai visto!
Ecco alcune delle 101 esperienze:

Cenare in un “trabocco” al chiaro di luna
Fare una visita notturna alla cattedrale del santo fantasma
Concedersi un ballo con “la pupa”
Esplorare gli Stonehenge d’Abruzzo
Partecipare a una festa del fuoco
Ritrovarsi sul set di Blade Runner
Purificarsi tra vapori luciferini
Seguire le orme dei briganti
Inseguire il Femminino sacro
Superare un top-runner
Salutare il ghiacciaio che svanisce
Afferrare al cuore l’erotismo
Raggiungere le miniere all’aperto dell’oro rosso
Luisa Gasbarri
saggista, sceneggiatrice, studiosa del pensiero gender e docente di creative writing, ha inaugurato nel 2005 il genere noir shocking con il romanzo L’istinto innaturale. Autrice di racconti apparsi in volume per diverse case editrici, ha curato lei stessa antologie di narrativa dedicate a scrittori contemporanei. Con la Newton Compton ha pubblicato con successo nel 2010 il manuale 101 cose da fare in Abruzzo almeno una volta nella vita. Dialoga costantemente con i lettori dalle pagine del mensile «La Dolce Vita», che ospita da anni la sua rubrica, Scritto sul Kuore.
LinguaItaliano
Data di uscita16 apr 2015
ISBN9788854182585
101 cose da fare in Abruzzo almeno una volta nella vita

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    101 cose da fare in Abruzzo almeno una volta nella vita - Luisa Gasbarri

    PROVINCIA DI CHIETI

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       1.

    CENARE IN UN TRABOCCO AL CHIARO DI LUNA

    Ignorate da sempre il senso della parola romantico o dell’aggettivo nostalgico?

    Non trovate lo scenario appropriato per chiederle/gli di sposarvi o per indorarle/gli la fatidica pillola dal momento che volete tornare single ma non vi vengono le parole?

    Ebbene, al chiuso di un trabocco l’illuminazione arriverà.

    Sarà questione di temperatura, di aromi, di brezze e di scricchiolii.

    Sentirete il ritmo delle onde come non l’avete mai sentito prima. Come un cucciolo si insinuerà sotto di voi facendovi percepire la sua pulsazione magnetica, a tratti diventando più imperativo, per spaventarvi un po’ e ricordarvi che non siete voi a dominarlo, anche se il mare a volte ama farvelo credere.

    Dovete soprattutto venire qui se pensate che qualunque cosa, avendo perduto la sua funzione pratica, vada demolita con un bel colpo di ruspa o cancellata da una sana colata di compatto cemento.

    I trabocchi sono costruzioni di legno che da lontano sembrano eleganti insetti acquatici e si protendono sottili verso il mare aperto. Gli antichi pescatori fissavano a queste strutture aeree e leggere le reti calate in mare vicino alla costa, e le ritiravano poi su cariche di pesci, quando pescare era ancora umano, e non si passavano reti a strascico sui fondali marini rendendoli improduttivi per anni, né si usciva con pescherecci motorizzati e ipertecnologici capaci di sfidare qualsiasi tempo meteorologico. Per ovvii motivi questa tecnica di pesca è oggi superata, ma le costruzioni resistono ancora e si intravedono seguendo la costa abruzzese, soprattutto lungo il versante adriatico meridionale. I pescatori le hanno in alcuni casi ristrutturate in modo da renderle agibili e sicure e ci si può cenare, a volte anche pranzare: in genere vengono serviti piatti semplici e saporiti a base di pesce fresco.

    È tuttavia difficile rendere a parole l’insieme delle sensazioni che si provano a cenare su queste costruzioni di legno ondeggianti e sospese: il mare ci circonda e profuma d’Oriente, la luna rende le onde metalliche spezzando la sua luce in mille riverberi d’argento. È come essere catapultati nell’essenza dell’estate, come tuffarsi nei suoi richiami ancestrali. Non solo ci si sente fuori dal mondo, appagati dalle vibrazioni di un’altra dimensione, ma ci si scopre fragili e concilianti al tempo stesso.

    Fragili perché lo scricchiolare minaccioso del legno a ogni passaggio di brezza ci fa sentire in balia dei capricci del mare sotto di noi e quindi piccole creature sperdute nell’universo. Concilianti perché l’abbraccio della natura che qui è acqua, vento, scogli affioranti, cielo immenso tagliato da stelle bianchissime, ci rassicura unendoci al nostro prossimo in solidale abbandono. In ogni caso si è senza difese.

    E quando alla fine della cena, che non è mai eccessiva, ci si scalda con l’assaggio di un Centerba, le confidenze diventano più facili e più spontanea la complicità.

    Le parole fluiscono senza paura.

    Se siete una comitiva sarà il momento per ricordare i cartoni animati guardati nell’infanzia e intonarne gli allegri motivetti ritornando bambini.

    Se siete una coppia, e funzionate davvero, sarà il momento per guardarvi in silenzio, semplicemente. E non sarà necessario dirvi le ragioni per cui siete lì insieme.

       2.

    FARE UNA VISITA NOTTURNA ALLA CATTEDRALE DEL SANTO FANTASMA

    Salite a Chieti. Sì, perché a Chieti dovete salire, essendo la città distinta in due parti: Chieti Scalo, dove il treno si ferma, e Chieti Alta, dove vi porta l’autobus.

    Le due anime della città si sono guardate un po’ in cagnesco per decenni, essendo, costituzionalmente e antropologicamente, vistosamente diverse.

    Oggi Chieti Scalo si presenta piena di negozi, espansa ormai a creare quasi un unico anello urbano con le frazioni a ovest della città di Pescara.

    Sorta intorno allo scalo ferroviario sulla tratta Pescara-Roma, Chieti Scalo si caratterizzò all’inizio quale zona industriale, dove spiccavano impianti storici, vedi la cartiera Burgo o il tabacchificio, industrie che in parte hanno attualmente cessato la loro attività. Questa vocazione all’apertura le è rimasta, e se prima la invadevano orde di giovanissimi carabinieri, data la presenza del CAR e del II Battaglione Allievi Ausiliari presso la centralissima caserma, adesso la affollano ben più disinvolti studenti universitari, e il suo dinamismo rimane costante.

    Se vi arrivate percorrendo l’asse attrezzato verso sud, vi verrà incontro un turbinio diffuso di luci biondazzurre che apparirà faraonico alla vostra destra: non è una metropoli del futuro, ma il ciclopico comprensorio di Megalò, con servizio navetta dalla stazione, più di cento negozi, multisala, sala-giochi, ristoranti e l’immancabile Media World!

    A pochi chilometri, Chieti Alta si è sempre contraddistinta invece per una sorta di elegante distacco, preservandosi nella sua vocazione di cittadina signorile, con la sua villa comunale e la sua storia antica, i suoi tradizionali riti sociali, come lo struscio, la passeggiata dalla Villa al Corso e viceversa, a cui gli abitanti sono particolarmente affezionati. E l’appartenenza rituale, si sa, genera alla lunga un po’ di snobismo.

    Quindi salite a Chieti. Per avvertire il soffio della Storia e contemplare in tutto il suo fulgore la cattedrale di San Giustino, non c’è momento migliore della notte.

    E il punto di osservazione ideale si ha arrivando dritti dallo Scalo.

    Addentrandosi un po’ in Chieti Alta, laddove la strada principale si biforca, posizionata alla vostra destra apparirà la piazza e sullo sfondo maestosa la cattedrale.

    E se non c’è più luce, la vedrete ammantata di luci artificiali, luci aranciate che ne fanno risaltare la grande mole e il solido campanile.

    Ci sono luoghi oggettivamente importanti per la loro natura, la loro intrinseca forza, che in alcuni momenti acquistano un che di diverso, di ancor più magico o solenne, e la cattedrale di Chieti è uno di questi. Per cui potete esplorarne i diversi livelli, scoprirne i tesori, secondo il classico approccio che si segue di solito visitando una cattedrale. Di giorno le pullula davanti la vita, la gente attraversa la piazza, il movimento è costante e intenso. Nei pressi c’è la storica Libreria De Luca: la figlia dell’antico proprietario, Antonella, è una coraggiosa, vivace e intelligente paladina della cultura, nonché una presenza vigile sul territorio. Mentre aspettate che intorno mutino i colori, nessuno meglio di lei può aiutarvi a cogliere le sfumature dell’aria cittadina. Certo, anche immersa nel quotidiano, la grandeur di San Giustino non passa comunque inosservata, ma è di sera, quando la luce scema, che la cattedrale acquista un che di ieratico: le luci la scolpiscono come fosse un’icona di pietra, e il silenzio intorno ne fa avvertire il potere, la suggestione arcana.

    Il santo che la protegge è del resto un santo speciale, ma intorno a lui i racconti, più che forgiarsi in agiografia, hanno virato in leggenda.

    Il nucleo originale della cattedrale risalirebbe al IX secolo, benché allora fosse intitolata a san Tommaso.

    Il vescovo Giustino, pur venendo da fuori (si dice originario delle Puglie), gli soffiò però la consacrazione definitiva perché fu riconosciuto meritevole di aver santamente difeso la città da orde di Saraceni predatori, elemento dal non trascurabile fascino esotico. Quindi nella seconda metà dell’XI secolo, dopo un primo ampliamento che le affiancò uno scriptorium divenuto celebre per la produzione di meravigliosi codici miniati, poi per gli studi umanistici, la cattedrale venne dedicata a san Giustino.

    È tuttavia curioso che a un certo punto della sua storia la celebrazione della festa del santo sia stata spostata al mese di maggio. E forse il nuovo calendario canonico non fu di suo gradimento: si vocifera che uno spirito poco ortodosso si diverta da decenni a provocare le corse fantasma, è il caso di dirlo, dell’ascensore di un distinto palazzo nei pressi, quasi gli ectoplasmi adorassero la tecnologia…

    E non si tratta dell’unico mistero: san Giustino è un santo nella cui biografia i probabilmente, i forse, le incertezze storiche colmate dalla consuetudine, si sprecano. Si può ipotizzare fosse un vescovo dalla forte personalità se grazie a lui cominciò a delinearsi l’identità cittadina, fatto frequente nel Medioevo quando, essendo latitante l’autorità politica, gli ecclesiastici più carismatici riuscivano a imporsi come guida nelle comunità urbane.

    Le sue spoglie miracolose pare che anticamente siano state anche sottratte, almeno in parte. Ad essere miracoloso oltremodo era il braccio del santo, che divenne quindi obiettivo privilegiato del furto infame. Non si sa dunque molto sul venerabile Giustino, e burlescamente anni fa ci fu chi ne mise addirittura in dubbio l’esistenza, come una voce di corridoio, che passava di orecchio in orecchio, minando la fiducia nella protezione del santo. A qualcuno parve evidentemente buffo immaginare una cattedrale così imponente per un patrono effimero come una diceria.

       3.

    SCOPRIRE LA CHIETI ROMANA

    Potete attraversare la città di Chieti, sostando dove i resti romani sono ancora visibili, per quanto ormai parte integrante del contesto urbano moderno. Il percorso romano non solo attesta l’antichità del luogo, ma ha un suo fascino, soprattutto in una bella giornata di sole, quando muoversi a piedi diventa allettante.

    La Chieti più verace è fatta di strade strette e salite, di angoli in ombra e deviazioni ripide. Secondo una lettura tra le altre, di certo la più suggestiva, la città sarebbe stata fondata addirittura dai celebri Mirmidoni, i compagni d’Achille, che l’avrebbero consacrata a Teti, la madre dell’eroe. L’antica Teate, dunque, è ricca di storia e di fascino e i suoi abitanti, che si chiamano ancor oggi teatini, sono molto fieri delle sue bellezze. E consapevoli che a Chieti le sorprese tendono ad arrivare ancora dal passato: raramente si scava o si ristruttura in questi paraggi senza ritrovarsi davanti un muro romano, un resto musivo o le tessere colorate di un’arcaica pavimentazione ignorata da secoli.

    Dopo gli Osci, intorno al 1000 a.C., si stanziarono qui i Marruci, detti Marrucini per aggiunta dialettale successiva, popolazione dei Marsi che elesse la città a centro del proprio territorio. In seguito alla guerra sociale, i Romani furono costretti a riconoscere la cittadinanza anche ai Marrucini e tra la fine della repubblica e l’inizio dell’impero Teate visse un periodo di sereno sviluppo: sotto l’imperatore Claudio la via Claudia Valeria fu fatta poi proseguire fin nel centro della città, dove oggi troviamo il Corso Marrucino. Si venne così a delineare in modo più ampio il tracciato stradale consolare della Tiburtina-Valeria. Al I secolo d.C. risale l’antico foro, situato proprio nel cuore di Chieti. Oltre a iscrizioni, vi spiccano un mosaico e il gruppo di edifici sacri che circonda la zona sui due lati.

    Nello specifico il complesso dei tempietti, detti appunto romani, appartiene alla seconda metà del I secolo, mentre il terzo e più piccolo edificio risulta di più tarda datazione: oggi ci appaiono tutti posti sopra un podio sopraelevato.

    Il fasto dell’insieme è ancora evocato dai resti delle eleganti murature bicrome in opus reticulatum che alterna pietra e cotto a laterizi.

    Da segnalare anche l’importanza dell’acqua, non solo perché a restare idealmente al centro dell’intera area è ancora il pozzo sacro, legato ai culti ancestrali di epoche assai più arcaiche, ma perché proseguendo la nostra passeggiata, rivolte alla Maiella, la Grande Madre, incontriamo le Terme, un tempo sontuose per i loro mosaici e i rilievi marmorei. Oggi si presentano ancora magnificamente conservati i cisternoni dove venivano raccolte le acque piovane e sorgive. Le Terme si trovano nella via omonima, un po’ fuori dall’abitato, ma la strada è in discesa e in fondo non ci si allontana troppo dal centro. Per scoprire invece la Civitella, cioè l’acropoli della città, dobbiamo procedere in direzione opposta, ovvero in salita. Sul cammino intercetteremo prima i resti del Teatro, di cui si contempla tuttavia solo una piccola parte. Il Teatro, durante il Medioevo, fu inglobato a scopo difensivo nella cinta muraria, poi divenne oggetto di continuo saccheggio perché cominciarono a essere asportati i suoi materiali per altre costruzioni.

    Ci ripaga però raggiungere l’anfiteatro posto più su, nello splendido Parco Archeologico della Civitella, luogo davvero spettacolare per la magnifica vista che si ha dell’intera vallata. Nel complesso antico sorge la struttura nuovissima del Museo della Civitella e il nostro percorso di esplorazione archeologica può continuare al suo interno, con esperienze multimediali e multisensoriali in grado di restituirci in modo assai efficace il contatto col mondo classico. Tra le meraviglie esposte, i frontoni policromi di ascendenza ellenistica che adornavano i tre templi dedicati ad Artemide persiana e a Ercole, che nel II secolo a.C., prima che venisse costruito l’anfiteatro, si ergevano sull’acropoli. Le sale che li ospitano sono state costruite appositamente per conservare i grandi impianti decorativi e sono amplissime, il colpo d’occhio è decisamente suggestivo. Si evince del resto dai reperti quanto l’antica Teate fosse sensibile ai culti misterici di divinità orientali come Iside e Cibele, largamente diffusi. Ma l’adorazione del divino femminile è presente fin dalla lontana venerazione della Grande Madre, qui omaggiata nella Dea di Rapino, dal nome del comune dove si trova la grotta in cui fu rinvenuta la significativa scultura.

    La figura muliebre, risalente all’età arcaica e considerata in un primo momento Cervia Iovia, rappresenterebbe in realtà, più che la dea, un’officiante del rito, rito consistente appunto nel propiziarsi Madre Terra ringraziandola per il dono delle messi.

    Dopo aver esplorato le bellezze del museo, potete tornare all’aperto e riabbracciare con lo sguardo l’orizzonte. Data la magnifica posizione, l’area viene in genere adibita d’estate a discoteca sotto le stelle, divenendo polo di attrazione per un folto popolo di giovanissimi che arriva anche da fuori regione.

    La nostra passeggiata romana può dirsi conclusa. Terminarla sull’acropoli offre un’ottima garanzia: il ritorno sarà una piacevole discesa.

       4.

    ACCORGERSI CHE I SANNITI DANNO ANCORA FILO DA TORCERE AI ROMANI

    Il Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo si trova a Chieti, nel cuore della Villa Comunale, e precisamente all’interno del bel palazzo neoclassico appartenuto ai baroni Frigerj. Merita una visita fosse solo per la presenza di un’opera significativa come il Guerriero di Capestrano, ma altre sue ricchezze richiedono attenzione.

    Il Museo si presenta su due piani e presto vedrà l’allestimento di nuove aree espositive. Le principali sezioni in cui è suddiviso sono attualmente dedicate all’Abruzzo preromano, all’iconografia romana, di cui si segnala in particolare la scultura (non vi sfuggirà del resto un gioiello assoluto come il riflessivo Ercole Curino proveniente da Sulmona), alla numismatica (15.000 monete circa, che vanno dal IV secolo a.C. al XIX d.C., tra cui spicca il raro aureo dell’imperatore Galba).

    La ricca serie di reperti, dalle armi all’oggettistica ordinaria, è di grande fascino per ricostruire la vita quotidiana in Abruzzo, dalla preistoria all’epoca della dominazione romana. Le collezioni numismatiche e le statue di ascendenza classica non potranno però impressionarvi più di tanto, mentre reperti insoliti sono sicuramente quelli relativi alle civiltà italiche di epoca preromana, qualcosa di veramente raro, drasticamente al di fuori dell’immaginario consueto.

    In particolare si considerino le steli paleosabelliche di Penna Sant’Andrea (Teramo), risalenti al V secolo a.C. e scoperte nel 1974.

    Una delle steli supera i due metri di altezza. Le iscrizioni sono state faticosamente decifrate dopo studi lunghi e rigorosi. Si tratta di una scrittura piuttosto originale, a tratti bustrofedica, di ascendenza sabina. A colpire la fantasia sono sicuramente i volti diafani e stilizzati scolpiti alle loro sommità. Non può non essere intenzionale che i tratti di questi volti spiritati siano così evasivi e astratti, anche perché si conservano reperti coevi dove la cura del dettaglio è assai maggiore.

    Un’epoca come la nostra, tecnologica e pragmatica fin che si vuole, è però costantemente a caccia del mistero, al punto che spesso la fantarcheologia ama sovrapporsi con disinvolta compiacenza all’archeologia autentica. Non stupisca allora che l’originalità delle steli sia stata avvertita in tutta la sua evidenza e la conseguenza sia stata quella di sempre: i volti inespressivi sono sembrati visi di alieni.

    Del resto le civiltà italiche qualcosa di alieno per i Romani dovevano pur averlo: le stiamo ancora studiando! E se consideriamo che alcune, come quella etrusca, danno tuttora adito a misteri a bizzeffe, l’analogia non parrebbe così peregrina. La fiera resistenza che i Sanniti opposero ai Romani, per esempio, la dice lunga su come l’assimilazione pacifica non fosse sempre uno dei primi pensieri dei popoli italici.

    Anche senza spingersi a tali eccessi interpretativi, tuttavia, le steli mantengono il loro fascino ancestrale e stupiscono per il loro differenziarsi dagli stilemi scultorei tradizionali. Con una certa audacia, sono state infatti messe in relazione a reperti altrettanto originali, come le statue stele della Lunigiana o le stele menhir di Laconi in Sardegna. In effetti c’è una vaga affinità tra i pittogrammi di queste ultime, si pensi a quello ancora inspiegabile dell’uomo capovolto (forse un riferimento cultuale a esseri discesi dal cielo), e l’alfabeto inciso sulle steli di Penna Sant’Andrea che, pur risultandovi familiare, tradirà radicalmente le vostre aspettative.

       5.

    INVESTIGARE IL MISTERO DEL GUERRIERO DI CAPESTRANO

    Tutti hanno ancora negli occhi le immagini del presidente americano Barack Obama che contemplava, in occasione del recente G8 svoltosi a L’Aquila, il celebre Guerriero di Capestrano, esempio mirabile di arte italica risalente al VI secolo a.C.

    Meno note sono le immagini della sconvolta direttrice del Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo a Chieti, mentre qualche giorno prima la statua veniva divelta a suon di martellate dal proprio basamento, per poter più agilmente affrontare il trasporto nella sede del summit. Preoccupazione legittima la sua, perché il Guerriero è considerato un simbolo prezioso e unico della regione oltre che del Museo di Chieti, dove si trova da anni. Fu rinvenuto nei pressi del paese aquilano di cui porta il nome nel lontano 1934, da un contadino che lo trovò per caso nel suo campo e lì lo lasciò parecchio, come dice la leggenda, a mo’ di spaventapasseri, indispettito dal soprannome che alla statua, e a lui di rimando, venne subito affibbiato: lu mammocce (il pupazzo). Il nomignolo irriverente cela però una verità: della statua non venne compreso il valore per il suo assoluto divergere dai moduli abituali dell’arte classica, nella fattispecie greca e romana. Il Guerriero è tutt’altro.

    Ha linee più spartane eppure i dettagli sono sorprendentemente accurati.

    Alto più di due metri, si presenta già enigmatico fosse solo perché ha il volto coperto da una maschera. Come ogni guerriero che si rispetti, indossa una rotonda placca di bronzo sostenuta da cinghie, il kardiophilax, a protezione sia del cuore che della schiena, un gonnellino con ornamento alla greca, che lascia scoperte le gambe, e i calzari. L’eleganza dell’insieme è ribadita dal collare con pendagli e dalle due armille sulle braccia. Le armi sono appoggiate al petto: una spada dall’ansa decorata, su cui si intravede un pugnale, e una piccola ascia tenuta in mano; sui sostegni laterali sono incise due lance e, a sinistra, compare un’iscrizione.

    In origine, come attesterebbero alcune tracce, la statua era probabilmente di un rosso brillante. Che l’opera possieda un fascino misterioso è evidente in primo luogo dall’enorme cappello, più simile a un sombrero che a un elmo greco, e considerato da alcuni uno scudo. La sua appariscente rotondità ha fatto pensare a un legame con il culto del dio Sole. L’ampio copricapo è in fango carbonatico – mentre il corpo è un blocco unico di calcare – e a guardarlo lateralmente viene in mente la cresta aggressiva che alcuni rettili sfoggiano prima di attaccare.

    Indubbiamente il personaggio doveva essere illustre. La statua, forse quella di un re, fu realizzata sul finire dell’epoca monarchica, prima che si giungesse all’introduzione delle cariche elettive che avrebbero in seguito caratterizzato le locali toutai.

    E qui si pone il secondo interrogativo: la scritta in lingua italica che corre lungo il sostegno laterale fa riferimento a un certo Numa Pompuledio, da alcuni associato alla figura del mitico re romano Numa Pompilio. Perché mai sarebbe stato oggetto di un simile omaggio proprio un re romano, tra l’altro quello tra tutti più legato alla religione delle origini? Ma la sorpresa più spiazzante risiede altrove.

    Passi pure che l’arte italica ha modelli propri, che presenta una sua rude energia, che è più stilizzata, non avendo ancora subito radicali influenze dall’arte greca etc etc: niente spiega a sufficienza il bacino allargato e le gambe tornite della statua.

    E femminilmente tornite!

    Praticamente un guerriero che dalla vita in giù ha fattezze femminee.

    Qualcuno ha azzardato l’ipotesi dell’androgino, che è un po’ il passepartout dell’antropologia quando annaspa nell’indecifrabile. Va ricordato però che accanto al Guerriero venne rinvenuta parte di una figura muliebre, il che suggerirebbe piuttosto l’idea di una coppia di statue.

    Perciò c’è chi continua a rilanciare, con altri argomenti, l’ipotesi più ardua: il Guerriero di Capestrano sarebbe una donna. E pare lo sostenga addirittura un’archeologa svedese, Katreen Berggren, esperta di arte preromana.

    Acquisterebbe in tal modo un senso ben diverso la suggestiva dedica incisa sul pilastrino: «Me bella immagine fece Aninis, per il re Nevio Pompuledio».

    Ed eccoci a immaginare il valente scultore Aninis, il nobile re Nevio Pompuledio che riceve il dono con dedica, e la modella segreta rappresentata nella «bella immagine»…

    Che le donne, dopo l’imporsi della società patriarcale, prendessero parte a guerre e battaglie scendendo direttamente sul campo, è ormai noto e documentato.

    Se le amazzoni invadono l’immaginario attraverso le mitiche gesta cantate dall’epica, guerriere formidabili fanno parlare di sé ovunque. La storia ufficiale ne cancella l’esistenza ben poco ortodossa, ma quando il loro nome si associa a eventi speciali non può trascurarle. In letteratura troviamo tante Camilla, Bradamante, Clorinda, perché nella realtà ci furono Semiramide, Boadicea, Giovanna d’Arco.

    Che i popoli italici, in questa regione così combattivi e renitenti alla dominazione romana, abbiano voluto lasciarci l’effigie di una nobile guerriera?

    Quando sarete davanti alla mole ieratica e conturbante della statua più impenetrabile d’Italia, provate a domandarvelo. Il suo tacere è forse l’omaggio a tutte le guerriere sminuite dal silenzio.

    Il Guerriero di Capestrano

       6.

    SPERIMENTARE IL PIÙ ALLUCINANTE TRIP DI CAPODANNO

    Cercate un viaggio simile alle corse avventurose delle carrozze nell’antico Far West o agli itinerari rocamboleschi dei picari? Allora non fatevi ingannare dalla carta geografica. Roma e Pescara si trovano infatti più o meno alla stessa latitudine, una sul versante tirrenico e l’altra sul versante adriatico. Divise dall’Appennino, certo, che non è l’Himalaya ed è più traforato dell’Emmental! In auto o in autobus, traffico permettendo, procedendo a un’andatura tranquilla, in circa due ore siete nella capitale. Il treno, invece, fa un tremendo giro dell’entroterra che dura anche più di quattr’ore e v’induce a chiedervi febbrilmente: perché tutti pensano a unire l’Italia del Nord a quella del Sud e nessuno si preoccupa dei collegamenti da est a ovest e viceversa, così a cuore agli abitanti della penisola estranei alla tratta Roma-Milano?

    Errore prospettico, ma tanto c’è l’autobus, si dirà…

    Appunto: l’autobus, in caso di nevicata improvvisa e massiccia, non parte neppure. Figuriamoci la notte del 31!

    Le compagnie degli autotrasporti sono però gentili e vi restituiscono in questo caso i soldi del biglietto. L’alternativa è

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