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Vivere + sereni
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E-book358 pagine5 ore

Vivere + sereni

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Info su questo ebook

Come ridurre lo stress e aumentare la felicità senza cambiare tutto nella tua vita

N°1 del New York Times
Un libro tradotto in tutto il mondo!

Tutti noi abbiamo una voce nella testa. È quella che ci fa perdere la calma inutilmente, controllare l’e-mail in modo compulsivo, mangiare quando non siamo affamati, e ci porta a fissarci su passato e futuro a spese del presente. La maggior parte di noi può pensare che non ci sia niente da fare, ma Dan Harris è letteralmente inciampato nella soluzione per ridurre lo stress ed essere più felici, e ha deciso di metterla a disposizione di tutti. È qualcosa che ha sempre ritenuto inaccettabile o inutile: la meditazione. Un numero sempre maggiore di scienziati è convinto che la meditazione sia capace di abbassare la pressione sanguigna, rafforzare le difese immunitarie e sconfiggere le paure. Vivere + Sereni porta i lettori in un viaggio dai confini estremi delle neuroscienze al sancta sanctorum delle nuove scoperte scientifiche, con uno strumento semplicissimo da mettere in pratica che può cambiare la vita.

Bastano pochi minuti al giorno per essere finalmente felici
Dan Harris
giornalista di grande successo, conduce da anni le News del canale ABC e Good Morning America, due programmi dall’enorme audience negli Stati Uniti. Dopo essere rimasto vittima di un terribile attacco di panico in diretta TV, ha deciso di intraprendere un percorso per raggiungere una maggiore consapevolezza, imparare a gestire lo stress e vivere una vita più felice. E ci è riuscito, anche grazie all’aiuto della mindfulness, una pratica che ormai spopola in tutto il mondo, e che è arrivata anche ai piani alti delle grandi aziende. Vivere + Sereni è il risultato di questa ricerca e ha vinto il Living Book Award.
LinguaItaliano
Data di uscita20 lug 2015
ISBN9788854183896
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    Anteprima del libro

    Vivere + sereni - Dan Harris

    280

    Titolo originale: 10% Happier

    Copyright © 2014 by Daniel Benjamin Harris

    Published by arrangement with HarperCollins Publishers

    Traduzione dall’inglese di Carla De Pascale

    Prima edizione ebook: luglio 2015

    © 2015 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-8389-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Copertina: Alessandra Sabatini

    Immagini: © Shutterstock.com

    Dan Harris

    Vivere + Sereni

    Per Bianca

    Siamo a un punto di svolta anche

    nell’evoluzione della coscienza umana, ma questo

    non ve lo racconteranno al telegiornale di stasera.

    Eckhart Tolle, guru di auto-aiuto

    Open your mind, in pours the trash¹

    Beauty, brano dei Meat Puppets,

    colonna sonora dell’anime Desert Punk

    1 «Apri la mente, è lì che si riversa tutta l’immondizia». (n.d.t.)

    Nota dell’autore

    Per mia comodità, molti dei fatti accaduti e riportati in questo libro sono stati registrati con la telecamera o con il dittafono del mio iPhone. Dove non è stato possibile, ho riportato le citazioni a memoria e, in molti casi, me le hanno dettate gli stessi autori. In alcuni punti ho editato i dialoghi (eliminando i vari ehm, ah e così via) in maniera tale da renderli più scorrevoli, ma anche per apparire più intelligente.

    Prefazione

    Inizialmente, avrei voluto come titolo per questo libro La voce nella mia testa è stronza. Tuttavia, è stato ritenuto inappropriato, per evidente violazione delle comuni regole di decenza, da un signore che lavora per la Commissione federale per le comunicazioni.

    Eppure, è la verità. La voce nella mia testa, a volte, è davvero insopportabile. Scommetto che lo è anche la vostra. Molti di noi sono talmente assorti in elucubrazioni interiori da non rendersi conto che quella che parla in continuazione è una voce mentale. Di certo, io non ne ero consapevole, o almeno non prima di essermi imbarcato nella grande odissea che ha portato alla nascita di questo libro.

    Tanto per essere chiari, non sto parlando di quel fenomeno comunemente chiamato sentire le voci, ma del narratore interiore che costituisce la parte più intima delle nostre vite. Della voce che inizia a bisbigliare non appena apriamo gli occhi al mattino, che ci tormenta per tutto il giorno come una trombetta da stadio. Si tratta di un insieme di pulsioni, desideri e giudizi, di pensieri che si focalizzano sul passato e sul futuro, a discapito del qui e ora. È quel meccanismo che ci fa andare verso il frigo quando non abbiamo fame, che ci fa perdere la pazienza quando, in realtà, siamo consapevoli che un comportamento del genere andrà a nostro svantaggio, o che ci spinge a controllare i messaggi mentre siamo impegnati in una conversazione con persone in carne e ossa. Ovviamente, il nostro chiacchierone interiore non è soltanto qualcosa di negativo. A volte è creativo, generoso, o divertente. Ma se non stiamo attenti – e pochi di noi sanno come fare – può rivelarsi un malvagio burattinaio.

    Se mi aveste consigliato, appena arrivato a New York per lavorare al telegiornale, di provare la meditazione per tarpare le ali alla mia voce interiore – o se mi aveste detto che avrei finito per scriverci un libro – vi avrei riso in faccia. Fino a poco tempo fa, immaginavo la meditazione come qualcosa per quei santoni indiani barbuti, per gli hippie che non si lavano e per i fan della musica di John Tesh. Inoltre, considerando che il mio livello di concentrazione è pari a quello di una cavia di laboratorio di sei mesi, pensavo fosse una pratica a cui non sarei mai riuscito ad avvicinarmi. Credevo che, dato il costante accavallarsi e ronzare dei miei pensieri, svuotare la mente non mi sarebbe mai stato possibile.

    Poi sono accadute cose insolite e impreviste, che riguardavano fronti di guerra, grandi organizzazioni ecclesiastiche, guru dell’auto-aiuto, Paris Hilton, il Dalai Lama, e ho vissuto dieci giorni di silenzio che, in un lampo, si sono trasformati dall’esperienza più fastidiosa a quella più significativa della mia vita. Così mi sono reso conto che i miei pregiudizi sulla meditazione erano, appunto, soltanto preconcetti errati.

    La meditazione soffre di un enorme problema di immagine, soprattutto perché molti dei suoi sostenitori parlano come se fossero costantemente accompagnati dal suono di un flauto di pan. Se saprete guardare oltre tutto questo, scoprirete che la meditazione non è altro che un allenamento del cervello. È una tecnica collaudata, utile per frenare la voce interiore che vi fa distrarre dai compiti nei quali siete impegnati. Chiariamo che non si tratta di un rimedio miracoloso. Non vi farà diventare più alti, o più belli, non risolverà tutti i vostri problemi. Diffidate da quei libri e maestri che vi promettono l’illuminazione immediata. Secondo la mia esperienza, la meditazione vi renderà il dieci percento più felici. Si tratta di una stima per niente supportata dalla scienza, ovviamente, ma che tuttavia giustifica il tentativo.

    Una volta che avrete fatto pratica, la tecnica vi fornirà quello spazio sufficiente nel cervello per evitare di essere sopraffatti dalla rabbia o da altre emozioni negative. Esiste anche un ramo della scienza a supporto della meditazione; c’è stata infatti una vera e propria esplosione di studi, tra cui ad esempio risonanze magnetiche a colori, che dimostrano che la meditazione riattiva il cervello. Questo ramo della scienza si prefigge il compito di sfatare il luogo comune secondo cui la nostra capacità di essere felici, o i nostri livelli di resistenza e affabilità, siano congeniti. Molti di noi vivono con la convinzione di essere intralciati dagli aspetti difficili della propria personalità, sono convinti di essere collerici, timidi, o malinconici, e che queste caratteristiche siano congenite e dunque immodificabili. Oggi sappiamo che molti dei tratti della personalità sono, in realtà, abilità, che possono quindi essere sviluppate allo stesso modo in cui si sviluppano i muscoli in palestra.

    È un’idea rivoluzionaria, che infonde speranza. Ho scoperto che questo nuovo ramo della neuroscienza ha portato alla nascita di una élite subculturale, fatta di manager, atleti e soldati che fanno uso della meditazione per migliorare e raggiungere i propri obiettivi, per frenare la dipendenza dagli strumenti tecnologici ed evitare di lasciarsi sopraffare dalle emozioni. Alcuni hanno definito la meditazione la nuova caffeina. Sono convinto che, se questa tecnica potesse essere liberata di tutti quegli orpelli spirituali insensati, come lo spazio sacro, la madre divina e il controllo delle proprie emozioni facendo ricorso all’amore e alla dolcezza, potrebbe attrarre milioni di persone scettiche e ambiziose che, a causa di questi aspetti, non vi si avvicinerebbero mai.

    Una delle domande che, molte volte, mi hanno rivolto gli scettici è: se faccio star zitta la voce nella mente, diventerò meno efficiente? Alcuni credono che la tristezza sia fondamentale per essere creativi, o le ossessioni compulsive lo siano per avere successo.

    Durante gli ultimi quattro anni, ho sperimentato la meditazione in uno degli ambienti lavorativi più competitivi che esistano, la redazione del telegiornale. E vi garantisco che l’impresa è fattibile. La meditazione potrebbe offrirvi diversi vantaggi, oltre che rendervi persone migliori. Certo, come vedrete tra poco, ho commesso alcuni passi falsi durante il percorso. Ma grazie alla mia esperienza, voi riuscirete a evitarli.

    L’obiettivo che sto cercando di raggiungere attraverso questo libro è la demistificazione della meditazione allo scopo di mostrarvi che, se funziona per me, molto probabilmente potrà funzionare anche per voi. La maniera migliore è offrirvi, come si dice nel mondo degli affari, un accesso esclusivo alla mia voce interiore. Tutti noi lottiamo per trovare un equilibrio tra come ci mostriamo e come siamo in realtà. Si tratta di un’operazione difficile per i conduttori di telegiornali, i quali devono trasmettere calma, sicurezza e (quando è il caso) allegria. Molte volte, il mio aspetto corrisponde al mio vero carattere; di natura, sono un uomo felice, pienamente consapevole della sua fortuna. Tuttavia ci sono, ovviamente, momenti in cui mi sento un po’ inquieto. Per tirare fuori il meglio dagli argomenti trattati in questo libro, analizzerò sotto la lente di ingrandimento tutti i miei aspetti più contorti.

    Tutto ebbe inizio quando diedi libero sfogo alla voce interiore. Era l’esordio della mia carriera; ero un giornalista inesperto, ansioso, curioso e ambizioso che, a un certo punto, fu sollevato da tutti gli incarichi e messo in panchina. Questo periodo si concluse con il momento più umiliante della mia vita.

    1

    Fame d’aria

    Secondo i dati sugli indici di ascolto diffusi dall’agenzia Nielsen, 5,019 milioni di persone mi hanno visto perdere il controllo.

    Successe tutto il 7 giugno del 2004, durante la trasmissione Good Morning America. Indossavo la mia nuova cravatta preferita e uno spesso strato di fondotinta, e i miei capelli erano eccessivamente vaporosi e morbidi. I capi mi avevano chiesto di sostituire il mio collega Robin Roberts nella conduzione del notiziario. Si trattava, in pratica, di dare ogni ora brevi aggiornamenti sulle news.

    Ero seduto al posto di Robin, dietro a una piccola scrivania per il collegamento via satellite, inquadrato in secondo piano in uno studio con le pareti di vetro con vista su Times Square, dove si trovava la sede del canale

    ABC

    . Dall’altra parte dello studio c’era la scrivania del giornalista di punta, dietro la quale c’erano i co-conduttori del programma: il vecchio Charles Gibson e l’elegante Diane Sawyer.

    Charlie si girò verso di me e annunciò: «Ora ci colleghiamo con Dan Harris, per le ultime notizie. Dan?». A quel punto, avrei dovuto leggere sei notizie con la mia voce fuori campo, notizie brevi, di venti secondi l’una, mentre la regia avrebbe mandato in onda i relativi filmati.

    All’inizio andò tutto bene. «Buongiorno, Charlie e Diane. Grazie», esordii, con la mia voce migliore da giornalista del mattino, allegra ma autoritaria.

    Ma poi, nel bel mezzo della seconda notizia, scattò qualcosa. Dal nulla, mi sentii come pugnalato al cervello con una ferocia animale. Un attacco di panico mi paralizzò, dalle spalle alla testa, per poi muoversi verso il viso. Mi sembrava che l’universo stesse per collassarmi addosso. Il cuore iniziò a battere all’impazzata. La bocca era completamente asciutta. I palmi delle mani madidi.

    Ero consapevole del fatto che avrei dovuto leggere ancora quattro notizie; un’eternità, senza poter fare una pausa e andare a nascondermi. Non avevo un nastro preregistrato da attivare e nessun collega che potesse sostituirmi per darmi il tempo di riprendere fiato e far calmare i nervi.

    Appena passai a leggere la terza notizia sui farmaci contro il colesterolo, iniziai a perdere la parola, ad ansimare e a lottare contro il terrore, consapevole che la disfatta veniva filmata in diretta.

    Sei sulla rete nazionale.

    Adesso. Proprio adesso.

    Ti stanno guardando tutti, amico.

    "Fai qualcosa.

    FAI

    qualcosa".

    Cercai di reagire, ma non riuscii a ottenere i risultati che speravo. La trascrizione fedele delle mie parole riflette bene la degenerazione verso il farfugliamento:

    «Alcuni ricercatori hanno dimostrato che le persone che assumono farmaci per far abbassare il colesterolo, denominati statine, per almeno cinque anni, potrebbero vedere ridotto il rischio di ammalarsi di cancro, ma è troppo presto per… per prescrivere gradualmente le statine… per provocare il cancro».

    In quel momento, poco dopo la notizia sulla possibilità di «provocare il cancro», con il viso rosso per l’eccessivo afflusso di sangue e tormentato da tic continui, mi resi conto di dover escogitare qualcosa per uscire da quella situazione drammatica.

    Il crollo di nervi in diretta fu il risultato di un periodo della mia esistenza vissuto senza consapevolezza, una fetta di vita incentrata soltanto su carriera e avventura a discapito di tante altre esigenze vitali. Iniziò tutto il 13 marzo del 2000: il mio primo giorno di lavoro presso la

    ABC

    News.

    Avevo ventotto anni, ero terrorizzato, indossavo uno sfortunato doppiopetto e percorrevo l’ingresso con il soffitto alto, le pareti costellate di foto di grandi personaggi del giornalismo televisivo come Peter Jennings, Diane Sawyer e Barbara Walters (ora sono tutti miei colleghi, a quanto pare), per poi salire su una scala mobile, agile ed elegante, che conduceva al cuore dell’edificio nell’Upper West Side di Manhattan.

    Da lì, quel giorno, mi mandarono al piano seminterrato, in un ufficio arredato con lampade fluorescenti, e mi scattarono una foto per il mio nuovo tesserino identificativo. Vi apparivo così giovane che, qualche tempo dopo, un collega mi disse, per fare una battuta, che se la foto fosse stata scattata in campo lungo, mi avrebbe ritratto con un pallone tra le mani.

    Che fossi arrivato alla

    ABC

    sembrava un caso fortunoso per tutti, o magari uno scherzo crudele. Nei sette anni precedenti, quando facevo la gavetta nella cronaca locale, il mio sogno era sempre stato quello di "andare a lavorare in

    TV

    " – come si diceva da noi, ai margini dell’impero – ma ero certo che non sarebbe successo prima dei quarant’anni, quando sarei sembrato abbastanza grande da guidare un veicolo a motore.

    Iniziai con i telegiornali appena finita l’università, con il vago obiettivo di perseguire una carriera che mi concedesse un po’ di fama e non avesse nulla a che fare con la matematica. I miei genitori avevano studiato entrambi medicina, ma io non ero portato. Così, nonostante qualche perplessità da parte loro, accettai un lavoro per la

    NBC

    a Bangor, nel Maine (uno dei network commerciali più piccoli del Paese – sintonizzato sul canale 154 di 210). Il contratto era part-time, il compenso era di 5,50 dollari l’ora, e il lavoro prevedeva la scrittura dei copioni per la conduttrice e la gestione della telecamera nello studio di registrazione durante una trasmissione intitolata Alive at 5:30. Il primo giorno il produttore, che aveva il compito di insegnarmi il mestiere con la macchina da scrivere elettronica, mi rivelò con onestà: «Questo non è un lavoro che ti renderà famoso». Aveva ragione. Riprendere incendi e tempeste di neve nella zona rurale del Maine – per non parlare della vita che conducevo, vale a dire, abitare in un appartamento al primo piano di una piccola casa di proprietà di un’anziana signora e mangiare maccheroni al formaggio quasi tutte le sere – non costituiva proprio un’esperienza allettante. Tuttavia, mi innamorai di questo mestiere fin da subito.

    Dopo aver pregato, per più di qualche mese, i miei superiori affinché mi mettessero dall’altra parte della telecamera, alla fine acconsentirono; così diventai corrispondente e conduttore, anche se avevo appena ventidue anni e una sola giacca di lana blu ereditata da mio padre. Non mi ci volle molto per capire che questo era il lavoro che avrei voluto fare per il resto della vita. Lo ritenevo un mestiere molto interessante: scrivere testi adatti ad accompagnare le immagini dei filmati era una sfida, per me. Mi allettava l’idea di affrontare un argomento oscuro ma importante, di escogitare una maniera per insegnare ai telespettatori qualcosa di utile o di sorprendente. Soprattutto, mi allettava la probabilità che questo nuovo ruolo potesse farmi incontrare persone importanti alle quali poter rivolgere domande impertinenti.

    Tuttavia, i telegiornali sono una brutta bestia. Accanto agli aspetti positivi, come la responsabilità di riportare notizie importanti e usare un mezzo di diffusione a fin di bene, c’è anche un aspetto profondamente irrazionale nell’apparire in

    TV

    . Guardate quanto sono tesi i giocatori di baseball quando appaiono sui maxischermi. Ora, immaginate di vivere questa sensazione ogni giorno.

    Il mio collega di Bangor aveva ragione quando affermava che gran parte del lavoro di un inviato del telegiornale – assistere seduti a conferenze interminabili, passare ore in un camioncino insieme a un cameraman irascibile, inseguire i poliziotti per carpire anche una sola battuta – non era un lavoro da star; ma quando mi trasferii in città più grandi, prima a Portland, nel Maine, poi a Boston, lo stipendio aumentò, le notizie divennero più importanti e l’emozione di essere riconosciuto nei bar e durante la fila in banca non mi fece mai pentire della mia scelta.

    Mia madre, una donna molto saggia, a un certo punto della mia giovinezza mi disse, in maniera scanzonata, che secondo lei chiunque si candidi a presidente deve avere un enorme vuoto dentro di sé, tanto grosso da non riuscire mai a colmarlo. Nonostante non facessi nulla per arginare la mia ambizione, trovavo che tale pensiero fosse inquietante.

    Sette anni dopo quel primo incarico a Bangor, avevo iniziato a lavorare per un canale che trasmetteva ventiquattr’ore su ventiquattro nei pressi di Boston, quando ricevetti una telefonata, del tutto inaspettata, che sembrava preannunciarmi l’arrivo della grande occasione per fare il salto di qualità. Era il mio agente: alcuni manager della

    ABC

    avevano visto i miei filmati, e volevano parlarmi.

    Mi assunsero come co-conduttore di brevi e frammentari telegiornali notturni in una trasmissione intitolata World News Now, che andava in onda dalle due alle quattro del mattino. Il pubblico era costituito da persone insonni, madri che allattavano e studenti fatti di medicinali contro l’iperattività. Il primo giorno in cui presi servizio, nel marzo del 2000, il tizio che avrei dovuto sostituire, Anderson Cooper, decise di non voler più andare via. Non sapendo cosa farsene di me, i responsabili mi diedero l’opportunità di preparare alcune notizie da mandare in onda nell’edizione serale del weekend della trasmissione World News Tonight. Per quanto mi riguardava, era la cosa più emozionante che potesse capitarmi. Soltanto alcune settimane prima, facevo l’inviato per un pubblico di alcune decine di migliaia di spettatori nel New England; da quel momento avrei invece lavorato per milioni di persone, sparse per tutto il Paese. In seguito, le cose andarono ancora meglio: mi venne chiesto di preparare la mia prima notizia per l’edizione serale del notiziario, condotto da Peter Jennings in persona.

    Per me Jennings era un idolo. Mi ispiravo a lui quando andavo in onda. Avevo studiato tutte le sue mosse da conduttore: i movimenti lenti e imperiosi, i cenni con il capo, l’inarcamento delle sopracciglia. Ammiravo la sua abilità nell’essere pacato ma allo stesso tempo emotivamente partecipe, senza diventare stucchevole. Era la quintessenza del conduttore, aveva la voce di un dio e una mescolanza molto personale di doti: l’aspetto da 007, quattro mogli e qualche pettegolezzo su probabili tresche.

    Era il colosso che dominava la

    ABC

    News. Tra gli addetti ai lavori, la sua trasmissione era nota come The Show, quasi che 20/20,

    GMA

    e Nightline non fossero da prendere in considerazione. Era un uomo che incuteva timore. Non lo avevo ancora mai incontrato, ma avevo sentito parlare del suo carattere difficile. A causa della reputazione di conduttore che divora le reclute, i manager mi avevano messo in scaletta nella puntata del 4 luglio, giorno in cui erano certi che sarebbe stato in ferie.

    Avevo preparato un pezzo sui baby boomer che si riciclavano come guardie del corpo, dopo che persone più giovani li avevano rimpiazzati in aziende dot-com. Quando il servizio andò in onda, i produttori della trasmissione sembravano soddisfatti, ma non sentii alcun commento da parte di Jennings. Non sapevo neanche se avesse seguito la trasmissione, o perfino se sapesse chi ero.

    Alcune settimane dopo, mi trovavo nell’appartamento che dividevo con mio fratello minore, Matt, e mentre pedalavo sulla cyclette in soggiorno il telefono fisso, il cellulare e il cercapersone iniziarono a squillare all’unisono. Saltai giù per controllare il cercapersone. C’era scritto 4040. Era il prefisso della redazione di World News Tonight, in cui Peter e i produttori più anziani lavoravano per organizzare lo spettacolo. Richiamai e un giovane assistente mi rispose per mettermi subito in attesa. Dopodiché un signore sollevò il ricevitore e disse: «Penso sia arrivato il momento di iniziare a preparare servizi su Ralph Nader. Questo tipo sta acquisendo una popolarità crescente. Ce la puoi fare?». Guardai Matt e mimai, con le labbra: Credo che sia Peter Jennings.

    Il giorno dopo, ero in viaggio in aereo per Madison, nel Wisconsin, con l’obiettivo di intervistare Nader e preparare un pezzo per l’edizione notturna. Fu un’esperienza frenetica e molto faticosa, aggravata dal fatto che, lo stesso giorno, poche ore dopo, Peter mi chiese di apportare delle modifiche al testo che avevo preparato. Riuscimmo a mandare in onda il servizio, ma con non poche difficoltà. Quando tornai nella mia stanza d’albergo e mi collegai a internet, trovai un’email in stile telegrafico, da parte di Peter: «Chiamami». E così feci. Immediatamente. Mi aspettavo un rimprovero per aver scritto un pezzo scadente, ma la prima cosa che mi disse fu: «Devi indossare delle camicie più chiare». Poi mi rivelò che la rivista «People» lo nominava spesso personaggio più elegante, sebbene ordinasse i suoi abiti dai cataloghi.

    E questo fu l’inizio di tutto. Nei cinque anni successivi, Peter diventò il mio mentore e, a volte, il mio aguzzino. Condurre il programma della notte era ormai acqua passata. Da quel momento ero diventato, inaspettatamente, un corrispondente del telegiornale. Avevo i miei biglietti da visita e il mio (primo) ufficio personale, al quarto piano dell’edificio, vicino ad altri cinque corrispondenti, tutti di decine di anni più vecchi di me. I nostri uffici si affacciavano lungo un corridoio che terminava sul set dal quale Peter conduceva il suo programma. Una mattina, pochi giorni dopo aver assunto il nuovo incarico, uscii dall’ascensore e trovai gli altri corrispondenti in gruppo che chiacchieravano. Nessuno di loro aveva voglia di parlare con me. La cosa mi preoccupò un po’, ma era il prezzo che dovevo pagare per aver raggiunto quella posizione una decina di anni prima di quanto credevo fosse possibile, dunque ne era valsa davvero la pena.

    Lavorare con Peter era come mettere la testa tra le fauci di un leone: un’esperienza eccitante, ma non certo rilassante. Mi faceva paura per diverse ragioni: era una trentina di centimetri più alto di me, soggetto a improvvisi e imprevedibili sbalzi di umore e – anche se aveva origini canadesi – era la quintessenza dell’uomo americano. Tutto questo rendeva ancora più mortificanti i rimproveri che mi rivolgeva. Sembrava provasse piacere nel mettermi in imbarazzo, possibilmente davanti a molte persone. Una volta, il suo assistente mi chiamò sul set, dicendo che Peter aveva bisogno di parlarmi di alcune cose. Quando arrivai, lui mi guardò, due volte, per poi posare gli occhi sulla mia giacca a quadri e dire: «Non avrai mica intenzione di indossare quella roba in

    TV

    , vero?». Tutti iniziarono a ridere, anche se con un certo imbarazzo. Io diventai bordeaux e bisbigliai che no, certo che no, non l’avrei mai indossata. In seguito devo averla bruciata, quella giacca.

    Ma il vero e proprio fuoco incrociato aveva luogo – con me come con tutti gli altri inviati – durante la preparazione dei pezzi che accompagnavano i servizi. Peter era un editor puntiglioso e irascibile, ed era solito apportare modifiche all’ultimo minuto, mandando nel pallone produttori e corrispondenti pochi minuti prima della diretta. Anche quando assumeva toni più miti durante le revisioni dei testi, avevo il sospetto che provasse piacere nel giocare il ruolo di dominatore. Aveva una serie di regole di scrittura che ogni corrispondente aveva imparato a seguire durante il periodo in cui veniva sottoposto alla sua supervisione: non iniziare una frase con ma; non dire come quando si può dire ad esempio; mai, mai utilizzare la locuzione nel frattempo.

    Senza ombra di dubbio, tutte le regole di Peter erano arbitrarie. Dopo averlo osservato e aver interagito con lui per un po’, ci si rendeva conto che ci teneva molto al suo lavoro e lo considerava un privilegio, un patto sacro con il pubblico e un elemento vitale per il funzionamento della democrazia. Era un ribelle di natura e metteva sempre in discussione, in maniera aggressiva, le autorità (compresi i nostri capi ma con l’eccezione di se stesso, ovviamente). All’inizio del mio lavoro con lui, gli presentai un servizio sulle cure a cui venivano sottoposti gli internati dei manicomi criminali; mi aiutò personalmente nella preparazione e mi concesse molto spazio nella trasmissione. In seguito, mi fece seguire diverse inchieste, tra cui una su un caso di stupro in prigione e un’altra sulla pratica di ridurre al silenzio i conservatori nei campus americani. Era un tirocinio di giornalismo ai massimi livelli.

    Molto spesso, tuttavia, le grandi qualità di Peter alle quali mi potevo ispirare venivano oscurate dal carattere estremamente volubile, soprattutto nelle ore frenetiche che precedono la diretta, quando gli inviati e i produttori accorrevano per ricevere la sua approvazione, che voleva sempre dare di persona. Una delle sue manie era quella di riordinare le idee in un foglio di riepilogo, cosa di cui nessuno di noi riusciva a capire il motivo: prendere le idee migliori da ognuno di noi per usarle personalmente. Noi corrispondenti (alla fine, i miei colleghi più anziani si degnarono di parlare con me) ci commiseravamo a vicenda ed eravamo soliti dire di essere stati piterati, arrivando quasi sempre alla conclusione che il carico delle critiche ricevute fosse direttamente proporzionale al suo stato d’animo in quel determinato momento. Peter era, secondo tutti noi, un uomo alimentato da un mix di talento naturale e insicurezza straziante. La prima – e unica – volta in cui mi mandò indietro un testo senza correzioni con la penna rossa, decisi di conservarlo.

    Sebbene fossi rimasto inizialmente stordito dall’ascesa al canale

    ABC

    News, feci in modo di non sprecare l’occasione che mi era capitata. Superai presto la fase non ci posso credere che mi abbiano preso e iniziai a concentrarmi per trovare il modo giusto di fare strada in un ambiente, come dire, hobbesiano, in cui le diverse trasmissioni, i conduttori e i manager erano in continua competizione l’uno con l’altro, e in cui schierarsi troppo con una fazione avrebbe potuto comportare grossi rischi.

    Ereditai il mio modus operandi da mio padre, il quale osservava questa massima: «Il prezzo della sicurezza è l’insicurezza». Il dottor Jay Harris, un torchiatore nato, uno che stringe i denti, con il motto sicurezza/insicurezza nel cuore si era fatto strada tra le figure spietate della facoltà di Medicina. Mia madre, una donna schiva del Massachusetts, era leggermente più tranquilla nell’intraprendere la carriera di medico. A casa si diceva che avessero caratteri tanto diversi perché papà è ebreo e mamma no. Altro tormentone: io avevo ereditato tutti i geni di mio padre, mentre mio fratello ne era stato risparmiato. Come disse una volta Matt: «In confronto a Dan, Woody Allen è un monaco buddista».

    Mettendo da parte le battute – e gli stereotipi sulle diverse culture – decisi di prendere a cuore il motto di mio padre. Fin da

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