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101 trattorie e osterie di Roma dove mangiare almeno una volta nella vita e spendere molto poco
101 trattorie e osterie di Roma dove mangiare almeno una volta nella vita e spendere molto poco
101 trattorie e osterie di Roma dove mangiare almeno una volta nella vita e spendere molto poco
E-book482 pagine4 ore

101 trattorie e osterie di Roma dove mangiare almeno una volta nella vita e spendere molto poco

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Info su questo ebook

Centouno luoghi attraverso i quali intraprendere un viaggio nella gastronomia romana, passeggiando tra arte, storia e letteratura. Un'occasione per riscoprire antiche ricette nate dalla fantasia e dalla passione di chi, amalgamando ingredienti poveri, si è divertito a prendere in giro il potere dei ricchi e la loro abbondanza. Nelle osterie capitoline si respira spesso la nostalgia di un tempo in cui tutto era diverso: «Era meglio prima», si sente echeggiare tra le cucine, dove il desiderio di conservare le tradizioni si fonde con il talento, tipico dei romani, di trasformare la pigrizia in virtù e la lentezza in un incedere fiero. Ogni osteria ha una storia a sé, fatta di passione per un mestiere che spesso viene tramandato di generazione in generazione. Visitandole si giunge alla conclusione che sono luoghi dell'anima dove è ancora possibile saziare la fame di cibo e di umanità.

«Tra una carbonara e una cacio e pepe, le autrici descrivono non solo le qualità del cibo ma, soprattutto, quelle degli osti, vere attrazioni di queste locande, acerrime nemiche dei fast food.»
Il Venerdì di Repubblica


Federica Morrone

ha pubblicato i romanzi Il filo del discorso e Volatili e il libro-intervista a Tiziano Terzani Regaliamoci la pace (con contributi di Dario Fo, Jovanotti, Don Ciotti, Margherita Hack, Dacia Maraini, Alda Merini, Vauro e molti altri). Autrice per la carta stampata e per la televisione, ha lavorato a Il Fatto e a Rotocalco televisivo di Enzo Biagi. Insieme a Cristiana Rumori ha scritto per la Newton Compton il romanzo Il teorema dell’amore perfetto, la guida anticonformista 101 trattorie e osterie di Roma dove mangiare almeno una volta nella vita e Roma perché sì / perché no.


Cristiana Rumori

da Pescara a Milano, New York, Roma. Ha lavorato come line producer di effetti digitali. Sceneggiatrice, web content specialist, collabora con riviste di comunicazione. Ha pubblicato Microcosmi erotici e ha partecipato alla raccolta Roma per le strade. Insieme a Federica Morrone ha scritto per la Newton Compton il romanzo Il teorema dell’amore perfetto, la guida anticonformista 101 trattorie e osterie di Roma dove mangiare almeno una volta nella vita e Roma perché sì / perché no.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854132429
101 trattorie e osterie di Roma dove mangiare almeno una volta nella vita e spendere molto poco

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    101 trattorie e osterie di Roma dove mangiare almeno una volta nella vita e spendere molto poco - Federica Morrone

    UNA QUESTIONE DI FEDE

    AI BALESTRARI

    via dei Balestrari 41 • tel. 06 6865377

    Chiusura: lunedì • Ferie: mai

    Oggi se pranza in piedi in ogni sito;

    er vecchio tavolino apparecchiato,

    che pareva un artare consacrato

    nun s’usa più: la prescia l’ha abolito.

    ’Na vorta er pranzo somijava a un rito,

    t’accomodavi pracido e beato,

    aprivi la servietta de bucato

    un grazie a Cristo e poi… Buon appetito!

    Mo’ nun c’è tempo de mettesse a sede’,

    la gente ha perso la cristianità

    e magna senza amore e senza fede.

    È proprio un sacrilegio: invece io,

    quanno me piazzo a sede’ pe’ magnà,

    sento ch’esiste veramente Dio.

    Sacrilegio

    di Aldo Fabrizi

    Sembra di vederlo ancora accomodato placidamente su una sedia, l’aria sorniona e scanzonata, «la servietta de bucato» appesa al collo, un piatto fumante davanti. E non è solo perché ammicca da una gigantografia. «Aldo Fabrizi abitava qui vicino, non l’ho mai conosciuto, ma per me è un mito, lo adoro». Pierluca si illumina parlando dell’attore simbolo dei romani che sanno godersi la vita, e cerca di gestire il suo locale mantenendo le vecchie abitudini che fanno stare bene: cibo buono, disponibilità con la gente e ottimo rapporto qualità prezzo; «Mi piace la varietà degli esseri umani, il contatto con il pubblico».

    Una grande lavagna appoggiata a un cavalletto tra i tavolini all’aperto conferma con parole semplici il rispetto e il desiderio di prendersi cura del cliente: «Serviamo solo cibi freschi acquistati all’alba a Campo de’ Fiori».

    La cameriera dall’aria triste fuma una sigaretta, appoggiata al muro appena fuori dalla porta d’ingresso. «Nun ce pensà», l’apostrofa un vecchietto con il cappello rosso da baseball che pranza qui tutti i giorni, «si quello nun t’apprezza, nun se le merita le lacrime tue. Fatte un altro tiro e poi portame er formaggio pe’ la pasta».

    Ai Balestrari esiste dal 1862, prima era un Vini e oli, poi è diventato un’osteria che conserva ancora il carattere di un tempo. Nelle spaziose sale interne è appesa una quantità incredibile di agli e peperoncini. «Teniamo lontane le streghe». Una vecchia sella appoggiata a uno sgabello, alle pareti fitte mensole cariche di bottiglie di vino. Si sente solo la mancanza di una delle mitiche armi da lancio che, già nel quindicesimo secolo, venivano fabbricate e vendute in questa strada e che gli hanno dato il nome. In compenso, frasi intagliate sul legno sbucano da ogni dove: «L’acqua fa male il vino fa cantà!», «Chi beve pe’ magnà, magna pe’ vive’», «Più erba te magni, più bestia se diventa», «C’è chi paga, chi strapaga… e chi magna aggratise».

    Allineati su una vecchia bilancia Berkel degli anni Cinquanta, di quelle ormai introvabili, ci sono i menu composti artigianalmente dal proprietario: pagine di carta riciclata legate con uno spago a una tavoletta di legno. Tra i vari piatti rigorosamente romani compare anche una ricetta suggerita ovviamente da Aldo Fabrizi, un modo per regalare ai clienti la possibilità di mangiare dei buoni spaghetti anche a casa:

    Soffriggete in padella staggionata,

    cipolla, ojo, zenzero infuocato,

    mezz’etto di guanciale affumicato

    e mezzo de pancetta arotolata.

    Ar punto che ’sta robba è rosolata,

    schizzatela d’aceto profumato

    e a fiamma viva, quanno è svaporato,

    mettete la conserva concentrata.

    Appresso er dado che je dà sapore,

    li pommidori freschi San Marzano,

    co’ un ciuffo de basilico pe’ odore.

    E ammalappena er sugo fa l’occhietti,

    assieme a pecorino e parmigiano,

    conditeci de prescia li spaghetti.

    La matriciana mia

    di Aldo Fabrizi

    2.

    L’ALLEGRIA DISTA SOLO TRE SCALINI

    AI TRE SCALINI

    via Panisperna 251 • tel. 06 48907495

    www.ai3scalini.org/bottiglieria

    Chiusura: mai • Ferie: due settimane ad agosto

    Adriano e Barbara sono due amici che gestiscono Ai Tre Scalini dal 2004. Si conobbero sul lavoro qualche anno prima e un giorno, appresa la notizia che la gestione di un locale storico di Monti era in vendita, presero coraggio e si lanciarono in una nuova avventura.

    L’insegna è rimasta la stessa – risale ai primi del Novecento – e specifica che si tratta di una bottiglieria. In realtà con il tempo il luogo è diventato un appuntamento fisso non solo per l’aperitivo, ma anche per cena e dopocena.

    Un lungo elenco di proprietari caratterizza la storia dell’osteria; l’ultimo, prima degli infaticabili Adriano e Barbara, era solito aprire quando voleva, rispondere ai clienti quando si sentiva ispirato e si dice che non sempre ascoltasse le ordinazioni – pare che a lui non piacesse fare troppa fatica. Tuttavia i più famosi rimangono i due fratelli, anche se spesso ne viene citato solo uno, Checco, meglio conosciuto come Checco l’avvelenatore. Di certo non era famoso per la prelibatezza dei suoi piatti, quanto piuttosto per il prezzo, caratteristica questa che aveva portato i clienti a definire il luogo bujaccaro. Il termine viene da bujacca, ovvero il pasto che si serve ai carcerati, e si usa anche per definire i locali in cui si mangia alla buona, senza grosse pretese e si paga poco. Si mormora poi – ma ditelo sottovoce – che i due fratelli fossero soliti cucinare per le scale e non al piano sottostante, per paura di dover affrontare qualche grosso topo.

    Niente timore, ora le cose sono decisamente cambiate, il cibo è di qualità, le scale sono un luogo sicuro tanto quanto i piani inferiori e nessuno si permetterebbe mai di definire Adriano come l’avvelenatore.

    L’atmosfera che si respira a Ai Tre Sscalini è giovane, fresca e frizzante. Sia i gestori che i camerieri sono soliti accogliere i clienti con un gran sorriso, la folla non manca mai, e quasi ogni giorno capita di trovare persone che sostano dentro e fuori in attesa di un tavolo che, se si ha pazienza, arriva sempre. Nel frattempo è facile intrattenersi in chiacchiere con gli amici e con chi capita di conoscere al bancone, o con i camerieri, velocissimi ma sempre disponibili. Difficile sentirsi soli in un luogo simile, alla mano, per nulla affettato, che predispone anche la persona più timida a socializzare, e non è raro il caso che si incontri qualcuno che si conosce già.

    I frequentatori non sono solo gli abitanti del quartiere, vengono da tutte le parti di Roma e anche del mondo, visto che non mancano i turisti, di passaggio ma lontani dal genere ubriachezza vacanziera molesta che capita di incontrare in zone come Trastevere o Testaccio.

    Il vociare diffuso è comunque spesso causa di problemi con il vicinato che non sempre reagisce con gioia al sound allegro del posto. Capita, infatti, che Adriano, Barbara o uno dei tantissimi collaboratori debbano uscire in strada e supplicare i chiacchieroni che sostano nella via di sussurrare invece di declamare a gran voce i propri pensieri. Puntualmente gli habitué rispondono pronti alle sollecitazioni, sono tutti troppo legati al luogo per assumersi la responsabilità di creare problemi ai proprietari.

    Se proprio si desidera parlare ad alta voce, meglio accomodarsi dentro: c’è anche un bel divano rosso adattissimo a calde conversazioni tra innamorati o tra amici desiderosi di confidenza. A rendere accogliente il posto, oltre al divano contribuiscono una radio anni Cinquanta, quarantacinque giri originali di Frank Sinatra, The Platters, Supertramp e Camaleonti – la musica è sempre gioiosa e ricercata – un mappamondo luminoso, quadri alle pareti, affreschi di Achille Achilli e due grandi lavagne che illustrano il menu, costante nel tempo, tranne piccole variazioni.

    Al tavolo si può gustare la porchetta, rigorosamente di Ariccia, servita calda o fredda a seconda dei gusti, con la mostarda e il pane di Lariano. La bufala viene da Fondi ed è veramente ottima. Inoltre si può scegliere il tagliere di salumi e formaggi, tutti prodotti laziali, dalla ricotta e al prosciutto delle Ciociaria alle coppiette – carne secca al peperoncino – e ancora il cacio al coccio, un coccio scaldato al forno con dentro provola zucchine e speck, oppure provola gorgonzola e noci; e poi le polpette al sugo, l’insalata di carciofi, soncino e straccetti di pollo, le melanzane alla parmigiana, le lasagne, la cicoria ripassata, le patate al forno o per i palati fini un tagliere di formaggi con miele e marmellata al peperoncino. Degna di nota è l’attenzione offerta ai vini autoctoni laziali. Varie le etichette, anche il vino della casa è ottimo e non provoca mal di testa.

    Ogni piatto è accompagnato da stuzzichini offerti dalla casa, come taralli, pizzette ripiene e ceci secchi. Un modo gentile per accogliere il cliente e contagiarlo con quell’aria amichevole tipica di Ai Tre Scalini.

    Qui persino i camerieri sono affezionati al luogo: capita, infatti, di incontrarli in borghese, in veste di clienti. Ogni lavoratore ha una storia diversa e interessante, c’è chi è attrice, chi disegna gioielli, chi lavora per il turismo e chi ha un sogno segreto che non ha ancora confessato. «Molte ragazze sono originarie dei Castelli, luoghi come Genzano, Frascati, Sezze, che danno quella punta di folclore e di appartenenza regionale che a noi piace tanto», sottolinea Adriano al quale viene da chiedere quale sia il segreto di tanta affezione da parte dei suoi collaboratori. «Il segreto è bere shot insieme ma mai prima delle dieci di sera». Dopo quell’ora, infatti, al bancone volano brindisi e ognuno non è altro che un omaggio alla complicità nel lavoro e al gusto della vita.

    «E poi ci sono giornate in cui accade di sostare dietro al bancone e vedere clienti di molto tempo fa, e di chissà quale gestione, che chiedono di entrare per ritrovare un luogo così denso di ricordi. Spesso hanno sguardi commossi, ogni tanto si siedono e mi raccontano la loro storia, e non è raro che io mi commuova insieme a loro», conclude Adriano.

    Dopotutto le osterie sono luoghi dell’anima.

    3.

    LA GIOIA DI SODDISFARE IL PALATO DELLE DONNE

    AL CARDELLO

    via del Cardello 1 • tel. 06 4745259

    Chiusura: mai • Ferie: mai

    Sono solo le sei del pomeriggio, i fornelli accesi cuociono a fuoco lento il sugo di scampi, l’aroma si diffonde per la sala, e Angelo ha appena terminato il suo pranzo, consumato, come ogni giorno, dopo aver salutato gli ultimi clienti. La fida aiutante Debora è con lui, lo tratta con grazia cercando di carpire i segreti della sua cucina, un misto di tradizione romana e abruzzese come a lui piace sottolineare. Debora è ecuadoriana, è da undici anni in Italia e da due lavora alla trattoria Al Cardello, aiutando in cucina e seguendo passo passo i consigli dell’anziano cuoco che gioca a fare il distratto ma che, come ogni persona attenta al mestiere, scruta con attenzione i movimenti della sua assistente.

    L’aroma del vino appena assaporato accarezza il palato di Angelo mentre esclama: «Ah, le donne, le donne! Le femmine combinano guai, quello di cui è capace una donna, un uomo non riesce neanche a pensarlo».

    Lo dice con ironia e ammirazione, ricordando tutti gli sguardi femminili che ha avuto il piacere di incontrare. «Ora sono solo un aggeggio che cammina per strada, ma da giovane ero forte e bello», afferma estraendo dal portafoglio una foto. «Mi si buttavano addosso!». In effetti nella foto che lo mostra a ventidue anni, Angelo ha lo sguardo da uomo fatto e dei baffi che paiono dichiarare tutta la sua determinazione di seduttore.

    Ora, a più di ottant’anni, gli piace sottolineare le sue antiche doti amatorie. Sovente gli capita di assettarsi fuori dal locale per riposare, mentre ricorda momenti del passato e osserva il passeggio femminile in via del Cardello, una deliziosa stradina del quartiere Monti che porta dritta fino alla meraviglia del Colosseo.

    Le sue origini sono aquilane, è arrivato a Roma giovanissimo e per ben trentadue anni ha lavorato all’hotel Ritz. E ancora le donne: «Mi cascavano ai piedi, specie le messicane. Quelle impazzivano per me». Angelo è un fiume in piena di ricordi, ha i modi curiosi di chi ha fatto della malizia un mestiere eppure, appena nomina sua moglie «che ora non c’è più», lo sguardo si fa tenero e innamorato.

    «È morta davanti ai miei occhi, era malata da mesi» . Ora gli manca ed è bello ascoltare l’intensità della sua voce quando parla di lei: «Era un donna intelligente, leggeva sempre. Io sono sempre stato lento a leggere, lei in poco tempo finiva il giornale e poi cominciava a riassumermi le notizie. Era una grande cuoca, specializzata negli antipasti. La gente impazziva. Chiamò perfino un’agenzia di viaggi da Los Angeles per chiederle come si preparavano i piatti che i clienti avevano provato qui. E lei rispondeva: Come faccio a spiegartelo? Vieni qui e mangiali!».

    Angelo, invece, è fiero della sua amatriciana. «È così buona che chi la prova è capace di lasciare il deposito per le prossime volte... E poi l’agnello, noi abruzzesi siamo maestri nel cucinarlo. Siamo cresciuti tra quei sapori e non li dimentichiamo».

    Ad Angelo piace raccontarsi, scherza con il cliente, entra subito in confidenza e dopo poco inizia a parlare del suo passato. Le donne, i piatti preferiti, le città che ha visitato, quell’avvocato che si è comportato male o ancora quel giornalista che era solito dirgli: «Tu hai una cultura incredibile in testa, una cultura nativa, non coltivata attraverso i libri, ma che ti viene dalla tua grande capacità di saper sviluppare concetti».

    È vero, Angelo ha una buona proprietà di linguaggio, tuttavia il pensiero che più lo avvince è quel mondo tanto misterioso quanto affascinante chiamato Donna.

    Ah, la donna!

    In questa parola Angelo racchiude tutti gli sguardi che hanno saputo conquistarlo e tutto l’amore per colei che lo ha accompagnato per gran parte della vita, sua moglie. Ogni emozione, ogni sentimento, dal più importante al più frivolo, è stato amalgamato da un ingrediente importante, la passione per la cucina, che con maestria e giocosità Angelo ha saputo versare sulle sue frizzanti e vitali giornate di seduttore di palati femminili.

    4.

    UN POSTO SENZA VINO È COME UNA GIORNATA SENZA SOLE

    ALFREDO E ADA

    via dei Banchi Nuovi 14 • tel. 06 6878842

    Chiusura: sabato e domenica • Ferie: agosto

    «Faccio io». Dopo pochi minuti Sergio porta in tavola rigatoni al pomodoro. Qui si mangia quello che c’è, seduti dove capita, i posti sono pochissimi e bisogna adattarsi.

    «Preparo ancora il menu che ha fatto mia madre, non ho cambiato una virgola». Sergio è il figlio di Alfredo, che purtroppo non c’è più, e di Ada, che sta riposando nell’appartamento sopra all’osteria perché non si sente tanto bene. A ottantasei anni può capitare. Una bellissima foto la ritrae mentre si affaccia fuori dalla porta sorridendo.

    Quindi il menu è ancora lo stesso che Ada stabilì sessantatré anni fa. Trippa il giovedì; il venerdì baccalà o calamari e piselli; qualche volta coratella, rigatoni o farfalline al sugo, involtini e spezzatino. Tutti i giorni involtini al pomodoro, vitella e piselli, cicoria, patate, fagiolini.

    «I piatti sono questi. Mi capita di servire anche una cosa diversa a ognuno, dipende da quello che è rimasto».

    Un posto senza vino è come una giornata senza sole, si legge sul muro.

    Una coppia si alza barcollando, saluta, lei dimentica la borsetta sopra la sedia, richiamata all’ordine torna indietro dichiarando: «State attenti! Questo vino fa effetto, bevete poco».

    La vecchietta dai capelli rossi bisognosi di una nuova tinta vuole sapere se è previsto un dolcetto. Domanda inutile, Sergio la fulmina: «Il dolcetto anche se non lo chiedevi lo portavo lo stesso, fa parte della cena». Poi sparisce nella minuscola cucina dove i piatti sono impilati nel lavandino in attesa di essere lavati a mano e torna con le ciambelline.

    L’osteria è una delle più antiche di Roma, esiste dal 1880.

    «Mio padre era del 1913 e nel 1930 già lavorava». Alfredo veniva a Roma tutti i giorni da Albano, portava il vino in questo posto che allora apparteneva a un velletrano. «Quando il vecchio oste decise di andare via, papà s’è preso il locale. Abbiamo sempre lavorato in famiglia, mamma, le zie, poi io e le mie sorelle». Adesso Sergio fa quasi tutto da solo.

    «Quando mio padre è arrivato qua c’era la monarchia!». Mostra una foto di Alfredo con il carretto, è vestito a festa. Erano in tanti a venire da Albano, partivano alle due e mezza di notte, portavano vino, broccoli, fragoline, ognuno con il proprio carrettino. Spesso caricavano anche un cane per difendersi dai briganti che stavano in agguato a Caracalla. A metà dell’Appia poi li aspettava la dogana: «Fregavano un po’ di roba, Che porti?, e per passare dovevi lasciargli qualcosa».

    Erano tempi in cui se abitavi oltre il Tevere non eri romano. «Roma era questa qua, altrimenti andavi fuori porta. A San Pietro e a Madonna del Riposo c’erano le pecore che pascolavano».

    «Questo era un quartiere popolare, di artigiani. A via di Panico c’era il bordello. Dormivo al piano di sopra, la mia finestra affacciava sul casino, c’erano sempre le persiane serrate e io mi chiedevo: Ma lì non ci abita nessuno? È sempre chiuso». Sergio è del ’51, ricorda ancora il viavai nelle strade circostanti, i militari di viale Giulio Cesare che facevano la fila, e dopo aver provato l’amor profano venivano a bere qui ripensando forse alla fidanzata che li aspettava al paesello.

    «Era un’altra città, quanto mi manca. Una sera, facevo il militare a Udine e non tornavo a casa da sei mesi, guardai il film Roma di Fellini, insieme a un commilitone milanese. Mi sono messo a piangere come un bambino. Ancora adesso mi vengono i brividi se ci ripenso. Roma era proprio quella rappresentata nel film, la mia Roma. Si vede anche un bordello, l’osteria vicino i binari del tram, i ragazzini che correvano intorno ai tavoli, l’omone che grida: Dove sei annato a piglià ’sto pollo, alli sprofonni?. Era proprio così la città, era proprio bella».

    La gente viene qua perché rivuole quella Roma. «Io l’ho vissuta, conosco ogni sampietrino. Prima era pure troppo volgare, ma era divertente. Qua venivano i borsaroli, quelli che vendevano l’oro, i frequentatori del casino, un bell’ambientino… Mio padre era burino, piccolo ma tosto, anche perché era uno che lavorava tanto, non gli piaceva ’sta gente: Se venite qua dovete fare quello che dico io, e quelli: A me lo dici?. E allora erano cazzotti e sediate. Una volta sono andati avanti per tre giorni, le sedie sono arrivate fino a corso Vittorio, loro erano matti ma mio padre era più matto di loro. Dopo ’sta cosa sono diventati agnellini, hanno capito che mio padre era uno tosto e l’hanno rispettato». Al punto di affidargli i soldi per sicurezza: «Mo’ dobbiamo annà a Capannelle, te lasciamo un po’ de sordi perché quando torniamo nun c’avremo una lira». La fiducia si conquistava anche con le sediate.

    «Me manca la gente di una volta, quella vera che veniva qui. In centro adesso ci sono i milanesi, loro sono ricchi, hanno spedito i romani in periferia. Qualcuno ogni tanto torna con la nostalgia, e me lo dicono che vorrebbero venire più spesso ma che ormai abitano lontano. I romani non c’hanno i soldi, i milanesi sì».

    «Qua è nato il Bagaglino. Pingitore, Castellacci, Montesano, non avevano una lira all’inizio, gli artisti sono tutti così, mio padre gli faceva credito. Scrivevano i copioni su quel tavolino, facevano le battute, mangiavano». Sergio conserva un vecchissimo libro del Bagaglino che prima stava a via della Campanella. Fino a qualche mese fa era un deposito di bottiglie, c’è scritto sulla prima pagina. «Montesano ha fatto il pranzo di nozze qua a porte chiuse, lo spazio è piccolo, solo parenti stretti e pochi amici».

    I ricordi continuano a viaggiare e si fermano sui clienti abituali di un tempo. Battilocchi era un carrettiere, vive ancora in un ritratto sul muro: sfondo rosso, lui vestito di nero accasciato sul tavolo con la testa poggiata sulle braccia. «Era romano, non gli fregava niente di niente. Però sapeva a memoria tutte le poesie del Belli e aveva una competizione aperta con la signora Bianca che recitava le poesie di Trilussa». Bianca ancora lo sfotte da una fotografia dove lo sguardo pestifero luccica dietro agli occhialetti. «Avevano la stessa età, anziani e rosiconi, non si potevano vedere. Quando lei iniziava a declamare, Battilocchi si alzava e se ne andava».

    Ci sono vite che diventano patrimonio di una città, esseri umani semplici e malinconici che stanno scomparendo, modi di comportarsi, di parlare, di ricondurre verso memorie che ancora abitano le cellule e l’anima di chi si sente romano.

    Sulla parete, incorniciata, una poesia scritta da chi non dimentica:

    Arfredo er pane nu’ lo taja più.

    Era stanco. S’è ito a riposà.

    E nu’ mme domannà indov’è annato.

    Indo’ anneremo tutti.

    Pure tu.

    In ricordo de Arfredo

    Roma 15/6/1998

    dai vecchietti ai Banchi Nuovi

    5.

    L’OPERA UMANA

    ANTICA BOHEME

    via Napoli 4 • tel. 06 4885505

    www.anticaboheme.it

    Chiusura: domenica • Ferie: agosto

    La locandina della stagione ’75-’76 de La bohème per la regia di Giuseppe Giuliano brilla sulle pareti della seconda sala dell’osteria. L’opera di Giacomo Puccini venne rappresentata per la prima volta nel 1896 al teatro Regio di Torino, il locale Antica Boheme fu aperto l’anno dopo e il proprietario, in omaggio all’amore che nutriva per quel testo lirico e alla vicinanza del Teatro dell’Opera, pensò di usarne il nome.

    La bohème. Parigi, 1830: l’arte, l’amicizia, l’amore, la vita di stenti di alcuni giovani artisti pieni di energia. Complicità, gelosia, sofferenze e prima di tutto passione.

    RODOLFO

    L’amore è un caminetto che

    sciupa troppo...

    MARCELLO

    ...e in fretta!

    RODOLFO

    ...dove l’uomo è fascina...

    MARCELLO

    ...e la donna è l’alare...

    RODOLFO

    ...l’una brucia in un soffio...

    MARCELLO

    ...e l’altro sta a guardare.

    La bohème, Atto I

    Alla fine della guerra il dottor Croce, di origini abruzzesi, rileva l’osteria dalla zia e la gestisce fino al 1978, anno in cui subentrano i fratelli De Luca, Santo e Raffaele, che vi lavoravano come camerieri sin dal 1969. Il locale è stato pubblicizzato come trattoria abruzzese con prevalenza di cucina romana in ricordo del vecchio proprietario. In realtà i fratelli De Luca sono di Cosenza anche da più di trent’anni molti li definiscono i due fratelli abruzzesi.

    «A noi non dispiace che le nostre origini siano confuse con quelle del vecchio proprietario. È bello recuperare la storia di questo luogo. Quando siamo subentrati abbiamo persino ritrovato il vecchio travertino dell’insegna originaria, l’abbiamo fatto restaurare e ora è in mostra, in tutto il suo splendore, dietro alla cassa».

    La trattoria si apre con una piccola sala d’attesa densa di fascino. Nelle aree principali spicca alle pareti una sequenza di immagini con volti noti del cinema, della lirica, della musica leggera e del teatro. Qui sembrano essere passati proprio tutti. Celentano, Benigni, Sophia Loren, Salvatores, Pozzetto, Victoria Abril, Bertolucci, Valerio Mastandrea, Battiato, Sergio Leone, Fiorello, Mirella Freni, Ruggero Raimondi e chi più ne ha più ne metta.

    «Oltre al teatro dell’Opera qui vicino c’è l’International Recording, un’importante sala di doppiaggio, e molti vengono a mangiare da noi. A me piace scattare fotografie e riproporre, attraverso i personaggi, la

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