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Giovani, carine e bugiarde - 4 libri in 1
Giovani, carine e bugiarde - 4 libri in 1
Giovani, carine e bugiarde - 4 libri in 1
E-book1.177 pagine16 ore

Giovani, carine e bugiarde - 4 libri in 1

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Deliziose - Divine - Perfette - Incredibili

Da questo romanzo la serie TV Pretty Little Liars

Le bugie hanno gambe bellissime

4 romanzi in 1

Nell’esclusivo quartiere di Rosewood, in Pennsylvania, Spencer, Aria, Emily e Hanna sembrano trascorrere un’esistenza tranquilla, tra manicure, pettegolezzi e problemi di cuore. Sono quattro ragazze bellissime, dall’aria ingenua e vulnerabile. Ma il loro candore è solo una fragile apparenza, dietro cui si cela un passato di segreti pericolosi. Segreti che qualcun altro sembra conoscere: una persona enigmatica che si firma con la sola lettera A e minaccia di svelare tutta la verità. Le amiche sono così trascinate in un gioco inquietante, che le costringe a portare alla luce terribili ricordi. E chiunque si nasconda dietro A, è di certo intenzionato a rovinare le loro vite per sempre…

«Qui il mistero si intreccia con il teen drama… e le quattro magnifiche bugiarde non smettono di comportarsi come ragazze della loro età.»
Il Sole 24 Ore

«Una saga al femminile con un appassionante tocco di mistero. Una serie destinata al successo.»
Publishers Weekly

Sara Shepard
È cresciuta a Philadelphia, ha studiato alla New York University e al Brooklyn College e attualmente vive a Tucson, Arizona. La serie Giovani, carine e bugiarde ha riscosso un clamoroso successo in America ed è diventata una serie televisiva.
LinguaItaliano
Data di uscita25 feb 2014
ISBN9788854164550
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    Anteprima del libro

    Giovani, carine e bugiarde - 4 libri in 1 - Sara Shepard

    GIOVANI, CARINE E BUGIARDE

    DELIZIOSE

    Tre persone possono tenere un segreto, se

    due di loro sono morte.

    BENJAMIN FRANKLIN

    A JSW

    COME È INIZIATA

    Immaginate che tutto abbia avuto inizio un paio di anni fa, nell’estate tra la seconda e la terza media: abbronzate per il sole preso sul bordo della vostra piscina, con indosso un paio di pantaloncini Juicy nuovi di zecca (vi ricordate quando andavano tanto di moda?), fantasticate sull’ultima cotta per quel ragazzo che frequenta un istituto privato di cui non faremo il nome e che ripiega jeans da Abercrombie al centro commerciale. State mangiando Choco Krispies, proprio come piacciono a voi - immersi nel latte scremato - quando notate la faccia di quella ragazza stampata sul cartone del latte. SCOMPARSA. È carina - probabilmente più di voi - e ha un’espressione arrogante negli occhi. Così pensate: Hmm, forse anche a lei piacciono i Choco Krispies. Di sicuro, anche a lei il ragazzo di Abercrombie sembrerebbe un gran figo. E vi chiedete come sia possibile che qualcuno così... be’, così simile a voi sia scomparso. In effetti, avete sempre pensato che a finire sui cartoni del latte fossero soltanto ragazze da copertina.

    Be’, ripensateci.

    Aria Montgomery affondò la faccia nel prato all’inglese della sua migliore amica, Alison DiLaurentis. «Deliziosa», mormorò.

    «Stai annusando l’erba?», le chiese Emily Fields spuntando da dietro, mentre chiudeva la portiera della Volvo di sua madre con il lungo braccio lentigginoso.

    «Sa di buono», disse Aria, togliendosi dagli occhi un ciuffo rosa e respirando l’aria tiepida del primo pomeriggio, «come l’estate».

    Emily rivolse alla madre un cenno di saluto e si tirò su degli anonimi jeans che le pendevano dai fianchi spigolosi. Nuotatrice agonistica sin dai tempi della Tadpole League ¹, sebbene in costume olimpionico sfoggiasse un fisico niente male, Emily non indossava mai niente di attillato né di carino, al contrario di tutte le altre ragazze di seconda. Questo perché i genitori continuavano a ripeterle che la personalità si forgia interiormente (anche se Emily era abbastanza certa che essere costretti a nascondere la propria t-shirt con su scritto Le ragazze irlandesi lo fanno meglio in fondo al cassetto della biancheria, non significasse esattamente migliorare la propria personalità).

    «Ehi, ragazze!». Alison volteggiò nel cortile davanti casa; portava i capelli raccolti in una coda spettinata e indossava ancora il gonnellino da hockey su prato che aveva messo quel pomeriggio alla festa di fine anno della squadra. Alison era l’unica ragazza di seconda a far parte della squadra delle JV² e per questo veniva spesso accompagnata a casa dalle ragazze più grandi della Rosewood Day School, che sparavano Jay-Z a tutto volume dai loro Cheerokee, e inondavano Alison di profumo prima di farla scendere perché nessuno si accorgesse che avevano fumato.

    «Mi sto perdendo qualcosa?», chiese Spencer Hastings, scivolando attraverso un buco nella siepe di Ali. Spencer viveva nella casa accanto. Spostò di scatto la lunga, splendente coda biondo cenere dalla spalla e bevve una gran sorsata dalla sua borraccia rossa Nalgene. Spencer non era riuscita a superare le qualificazioni che si erano tenute in autunno per essere ammessa alla JV assieme a Ali, ed era quindi stata costretta a restare nella squadra di seconda. Si era allenata duramente per un intero anno sul campo da hockey per perfezionare la sua tecnica, e le ragazze sapevano che prima di arrivare si era esercitata nel dribbling nel cortile dietro casa. Spencer non sopportava che qualcuno fosse migliore di lei in nessun campo, soprattutto Alison.

    «Aspettatemi!».

    Le ragazze si girarono e videro Hanna Marin scendere dalla Mercedes della madre e inciampare nella propria sacca, agitando le braccia paffute. Da quando l’anno precedente i suoi genitori avevano divorziato, Hanna aveva iniziato ad aumentare di peso in modo costante, senza più riuscire a entrare nei suoi vestiti. Ali alzò gli occhi al cielo, mentre le altre fecero finta di non accorgersi di niente, come fanno le migliori amiche.

    Alison, Aria, Spencer, Emily e Hanna erano diventate grandi amiche l’anno prima, quando i loro genitori le avevano proposte per lavorare come volontarie all’iniziativa di beneficenza che era organizzata ogni sabato pomeriggio dalla Rosewood Day School. Solo Spencer si era offerta spontaneamente.

    Alison poteva sapere qualunque cosa delle altre quattro, loro di sicuro sapevano tutto di lei. Alison era perfetta. Bella, intelligente, alla moda. E amata da tutti. I ragazzi desideravano baciarla, mentre le ragazze - persino le più grandi - volevano essere lei. Per cui, la prima volta in cui Ali aveva riso a una delle battute di Aria, chiesto a Emily informazioni sul nuoto, detto a Hanna che indossava una maglietta fantastica o commentato che Spencer aveva una calligrafia di gran lunga più precisa della sua, loro non avevano potuto fare altro che, be’... che restarne ammaliate. Prima dell’arrivo di Ali, le ragazze si erano sentite come un paio di jeans a vita alta della mamma, imbarazzanti e vistosi per tutte le peggiori ragioni, ma poi Ali le aveva fatte sentire come i più impeccabili abiti di Stella McCartney, quelli che nessuno può permettersi.

    A distanza di più di un anno, giunte ormai all’ultimo giorno di scuola, non erano soltanto migliori amiche, erano diventate le ragazze della Rosewood Day, e tante cose erano successe perché ciò accadesse. Ogni notte passata a casa delle altre, ogni gita scolastica che avevano fatto erano state delle nuove avventure. Quando erano assieme, ogni momento tra una lezione e l’altra si poteva considerare memorabile (il giorno in cui avevano letto all’altoparlante un imbarazzante bigliettino scritto dal capitano della squadra universitaria alla sua tutor di matematica era ormai entrato nella leggenda alla Rosewood Day). Tuttavia, erano successe anche altre cose che tutte avrebbero voluto dimenticare. E c’era un segreto del quale non riuscivano neanche a parlare. Ali diceva che i segreti le avrebbero legate come migliori amiche per l’eternità. Se così era, sarebbero rimaste amiche per tutta la vita.

    «Sono così felice che la giornata sia finita». Alison sospirò prima di spingere gentilmente Spencer attraverso il buco nella siepe. «Il tuo fienile».

    «Io sono così felice che la seconda media sia finita», disse Aria, mentre assieme a Emily e Hanna seguiva Alison e Spencer verso il fienile trasformato in residenza per gli ospiti in cui la sorella maggiore di Spencer, Melissa, aveva vissuto durante gli anni del liceo. Fortunatamente, Melissa si era appena diplomata e avrebbe trascorso l’estate a Praga, per cui quella notte il posto sarebbe stato a loro completa disposizione.

    All’improvviso sentirono una voce stridula. «Alison! Ehi Alison! Ehi Spencer!».

    Alison si voltò verso la strada. «Non questo», sussurrò. «Non questo», si affrettarono a ripetere Spencer, Emily e Aria.

    Si trattava di un giochetto che Ali aveva imparato da suo fratello Jason, che ormai frequentava l’ultimo anno alla Rosewood Day. Jason e i suoi amici lo facevano durante le feste della scuola preparatoria, intenti a squadrare le ragazze. Pronunciare per ultimi le parole non questo voleva dire essere costretti a intrattenere la bruttina di turno per tutta la serata, mentre gli altri si divertivano con le sue amiche carine, come ad ammettere, di fatto, di essere goffi e poco attraenti quanto lei. Nella versione di Ali, le ragazze dicevano non questo tutte le volte in cui compariva qualcuno di brutto, fuori moda o sfigato.

    Quella volta, il non questo era rivolto a Mona Vanderwaal - una stupida che abitava in fondo alla strada e il cui passatempo preferito era quello di cercare di guadagnarsi l’amicizia di Spencer e Alison - e alle sue due strambe compagne, Chassey Bledsoe e Phi Templeton. Chassey era nota per essere riuscita a entrare nel sistema informatico della scuola per poi andare a dire al preside come renderlo più sicuro, mentre Phi Templeton girava dappertutto con il suo yo-yo, e non aggiungeremo altro. Le tre erano rimaste ferme in mezzo alla tranquilla stradina del quartiere a fissare le ragazze. Mona stava appollaiata sul suo scooter Razor, Chassey su una mountain bike nera e Phi a piedi, con in mano il suo yo-yo, naturalmente.

    «Ragazze, vi andrebbe di venire a vedere Fear Factor³ con noi?», chiese Mona.

    «Mi dispiace», rispose Alison con un sorriso affettato, «siamo davvero occupate». Chassey aggrottò le sopracciglia. «Non volete vedere quando mangiano i vermi?».

    «Che schifo!», sussurrò Spencer ad Aria, che iniziò a fare finta di mangiare pidocchi invisibili dalla testa di Hanna, come una scimmia.

    «Be’, vorremmo tanto poter venire», rispose Alison chinando la testa, «ma abbiamo organizzato questa serata da un sacco di tempo. Magari la prossima volta...».

    Mona abbassò lo sguardo verso il marciapiede. «Ok, va bene».

    «Ci vediamo». Alison si voltò alzando gli occhi al cielo, imitata dalle altre.

    Entrarono dalla porta sul retro di Spencer. Alla loro sinistra si trovava il giardino di Alison, dove i genitori stavano facendo costruire un gazebo per i loro sontuosi picnic all’aperto. «Grazie a Dio non ci sono gli operai», disse Alison, gettando lo sguardo su un caterpillar giallo.

    Emily s’irrigidì di colpo. «Ti hanno infastidita di nuovo?»

    «A cuccia, killer!», disse Alison, facendo ridacchiare le altre. Talvolta chiamavano Emily killer come se fosse il pitbull personale di Ali. Un tempo anche Emily lo trovava divertente, ma negli ultimi tempi non rideva più tanto.

    Ormai erano giunte davanti al fienile. Si trattava di un edificio piccolo e appartato, con un’ampia finestra che dava sulla vasta, irregolare fattoria di Spencer, con annesso mulino a vento. A Rosewood, Pennsylvania, un piccolo sobborgo a venti miglia da Philadelphia, era molto più facile abitare in una fattoria di venti stanze dotata di piscina rivestita in mosaico, come quella di Spencer, piuttosto che in una villetta prefabbricata. D’estate, Rosewood odorava di lillà e di erba tagliata, mentre d’inverno si diffondeva il profumo della neve candida e delle stufe a legna. Era circondata di pini alti e rigogliosi, acri di fattorie a conduzione familiare e attraversata dalle volpi e dalle lepri più graziose. Vi si trovavano negozi fantastici e proprietà risalenti al periodo coloniale, assieme a parchi in cui organizzare compleanni, feste di laurea e per ogni altra occasione. I ragazzi di Rosewood, poi, erano favolosi, con quel portamento fiero e forte, come fossero appena usciti da un catalogo di Abercrombie. Rosewood, che sorgeva sulla principale linea ferroviaria in partenza da Philadelphia, era abitata da antiche famiglie nobili; ricchezze ancora più antiche e scandali il cui ricordo si perdeva nella notte dei tempi.

    Appena raggiunto il fienile, le ragazze sentirono delle risatine provenire dall’interno. Qualcuno strillò: «Ti ho detto di smetterla!».

    «Oddio», sospirò Spencer, «che cosa ci fa lei qui?».

    Non appena ebbe avvicinato l’occhio alla serratura, riuscì a scorgere Melissa, la sua castigata e rispettabile sorella maggiore, impeccabile in ogni attività, lottare sul divano con Ian Thomas, il suo attraente fidanzato. Spencer spinse la porta con il tacco, forzandone l’apertura. La rimessa odorava di muschio e popcorn leggermente bruciato. Melissa si girò.

    «Ma che dia.?», chiese. Poi si accorse delle altre e sorrise. «Oh, ciao ragazze».

    Le quattro si voltarono verso Spencer. Lei si lamentava continuamente del fatto che Melissa fosse un’infida troietta, per cui si sorprendevano sempre quando si mostrava dolce e amichevole.

    Ian si alzò stiracchiandosi e rivolgendo un sorrisetto a Spencer. «Ehi».

    «Ciao Ian», replicò lei con un tono di voce molto più squillante, «non sapevo che fossi qui».

    «Sì che lo sapevi», rispose Ian con un sorriso malizioso, «ci stavi spiando».

    Melissa si ricompose i lunghi capelli biondi e la fascia di 15 seta nera, fissando sua sorella. «Dunque, che succede?», chiese con tono leggermente accusatorio.

    «Be’, ecco... non intendevo intromettermi...», borbottò Spencer, «ma stanotte il fienile doveva essere a nostra disposizione».

    Ian le diede un buffetto sul braccio. «Ti stavo solo prendendo in giro», disse in tono canzonatorio.

    Spencer avvampò. Ian aveva biondi capelli arruffati, occhi languidi color nocciola e un petto pieno di muscoli che gridavano toccami!.

    «Wow», disse Ali in un tono di voce troppo alto, tanto da far girare tutti verso di lei. «Melissa, tu e Ian siete proprio una bella coppia; lo penso da sempre, anche se non ve l’ho mai detto. Non sei d’accordo, Spence?».

    Spencer ammiccò. «Uhm», disse piano.

    Melissa fissò Ali per un attimo con aria perplessa, poi si rivolse di nuovo a Ian. «Puoi venire fuori un momento? Devo parlarti».

    Ian finì di scolarsi la sua Corona, osservato dalle ragazze, che bevevano soltanto di nascosto dalle bottiglie chiuse negli armadietti dei liquori dei loro genitori. Posò la bottiglia vuota e rivolse loro un largo sorriso di congedo. «Adieu, ladies», disse ammiccando, prima di chiudersi dietro la porta.

    Alison si sfregò le mani. «Un altro problema risolto da Ali D. Adesso mi ringrazierai Spence, vero?».

    Spencer non rispose. Era troppo occupata a guardare fuori dalla finestra. Alcune lucciole avevano iniziato a illuminare il cielo violaceo.

    Hanna si diresse verso la ciotola di popcorn abbandonata, afferrandone una generosa manciata. «Ian è così figo. Direi che è ancora più figo di Sean». Sean Ackard, uno dei ragazzi più carini della loro classe, era oggetto di fantasie costanti da parte di Hanna.

    «Sai che cosa ho sentito dire?», chiese Ali, lasciandosi cadere sul divano. «A Sean piacciono un sacco le ragazze che amano mangiare».

    Lo sguardo di Hanna s’illuminò. «Davvero?»

    «No», sbuffò Alison.

    Hanna ripose lentamente la manciata di popcorn nella ciotola.

    «Dunque, ragazze», disse Ali, «conosco il modo perfetto per passare il tempo».

    «Spero proprio che tu non ci chieda di nuovo di metterci a correre nude», ridacchiò Emily. Lo avevano già fatto un mese prima, rabbrividendo nel freddo gelido, e sebbene Hanna si fosse rifiutata di togliersi anche la canottiera e le mutandine con su scritto il giorno della settimana, le altre avevano attraversato completamente nude un vicino campo di granturco ormai secco.

    «A te è piaciuto un po’ troppo», borbottò Ali. Il sorriso sulle labbra di Emily si spense. «Ma no, si tratta di una cosa che ho lasciato appositamente per l’ultimo giorno di scuola. Ho imparato a ipnotizzare la gente».

    «Ipnotizzare?», le fece eco Spencer.

    «Mi ha insegnato la sorella di Matt», rispose Ali, osservando le foto di Melissa e Ian sul caminetto. Il suo ragazzo della settimana, Matt, aveva gli stessi capelli biondo oro di Ian.

    «E come si fa?», chiese Hanna.

    «Mi spiace, le ho giurato di non dirlo a nessuno», rispose Ali, voltandosi. «Vi va di vedere se funziona?».

    Aria aggrottò le sopracciglia, sedendosi su un pouf color lavanda. «Non saprei.».

    «Perché no?». Lo sguardo di Ali si posò su un pupazzetto di stoffa a forma di maiale che faceva capolino dalla sacca rossa di Aria fatta ai ferri. La ragazza era solita portarsi dietro 17 strani oggetti a forma di animale, pagine strappate a caso da vecchi romanzi, cartoline di posti che non aveva mai visto.

    «Ma l’ipnosi non ti fa dire cose che non avresti mai voluto confessare?», chiese Aria.

    «C’è forse qualcosa che non puoi dirci?», ribatté Ali. «E poi, perché continui a portarti ovunque quel pupazzetto?», chiese indicandolo.

    Aria alzò le spalle e tirò fuori il pupazzo dalla borsa. «Mio padre mi ha comprato Pigtunia in Germania; mi dà consigli sulla mia vita sentimentale». Infilò la mano nella marionetta.

    «Le stai ficcando la mano su per le chiappe!», strillò Ali, mentre Emily ridacchiava. «E poi, intendi davvero portarti dietro qualcosa che ti ha dato tuo padre?» «Non è divertente», sbottò Aria, girandosi di scatto per guardare in faccia Emily.

    Rimasero tutte in silenzio per alcuni secondi, guardandosi l’un l’altra con occhi interrogativi. La scena si era ripetuta diverse volte negli ultimi tempi. Qualcuno (di solito Ali) diceva qualcosa e qualcun altro ne rimaneva turbato, ma erano tutte troppo timide per chiedere che cosa stesse accadendo.

    Spencer ruppe il silenzio. «Essere ipnotizzati. mi sembra un po’ ridicolo».

    «Ma se tu non ne sai un bel niente», rispose di botto Alison. «Avanti, potrei ipnotizzarvi tutte assieme».

    Spencer iniziò a sfilacciare l’orlo della sua t-shirt. Emily sibilò rumorosamente tra i denti. Aria e Hanna si scambiarono un’occhiata. Ali tirava sempre fuori qualcosa di nuovo da fare: l’estate passata le aveva convinte a fumare dei semi di tarassaco per capire se avessero un effetto allucinogeno, mentre in autunno erano andate a nuotare a Pecks Pond, sebbene una volta vi fosse stato scoperto un cadavere. Ma il fatto era che spesso non avevano alcuna voglia di fare ciò che diceva Ali. Tutte quante l’amavano alla follia, ma talvolta, allo stesso tempo, si ritrovavano a odiarla per il potere che esercitava su di loro e perché le comandava a bacchetta. Certe volte, in presenza di Ali, non si sentivano reali, non nel vero senso della parola. Si sentivano come delle specie di marionette nelle mani di lei. Ciascuna di loro avrebbe voluto riuscire a dire di no a Ali almeno una volta.

    «Per favoooreee...?», chiese Ali. «Emily, a te va di farlo, non è vero?»

    «Uhm.», rispose Emily con voce tremolante. «Be’.».

    «Io voglio farlo», s’intromise Hanna.

    «Anch’io», replicò Emily subito dopo.

    Spencer e Aria fecero cenno di sì con la testa, riluttanti. Soddisfatta, Alison spense tutte le luci in un colpo solo e accese diverse candele dal delicato profumo di vaniglia che si trovavano su un tavolino, poi si rimise seduta e si schiarì la voce.

    «Ok, adesso rilassatevi», disse in tono salmodiante, mentre le ragazze si sistemavano in cerchio sul tappeto. «Il battito del vostro cuore inizia a rallentare. Concentratevi su pensieri rilassanti. Conterò alla rovescia da cento, e non appena vi avrò toccate, cadrete in mio potere». «Inquietante», ribatté Emily, scossa da una risata. Alison iniziò. «Cento. novantanove. novantotto.».

    Ventidue.

    Undici.

    Cinque.

    Quattro.

    Tre.

    Toccò Aria sulla fronte con il palmo della mano. Spencer distese le gambe. Aria mosse il piede sinistro di scatto.

    «Due.». Lentamente toccò Hanna, poi Emily e infine si avvicinò a Spencer. «Uno».

    Spencer aprì gli occhi prima che Alison potesse raggiungerla. Saltò in piedi e corse verso la finestra.

    «Che cosa stai facendo?», sussurrò. «Stai rovinando l’atmosfera».

    «È troppo buio qui dentro». Spencer allungò le braccia e aprì le tende.

    «No». Alison la fermò. «Deve essere buio. È così che funziona».

    «Andiamo, non è vero». La serranda oppose resistenza e Spencer grugnì nel tentativo di liberarla.

    «Sì che lo è».

    Spencer si mise le mani sui fianchi. «Voglio più luce. Forse anche le altre lo vogliono».

    Alison guardò le altre. Erano tutte immobili, con gli occhi chiusi.

    Spencer continuò: «Non deve sempre andare come vuoi tu, sai?».

    Alison esplose in una risata. «Chiudile!».

    Spencer alzò gli occhi al cielo. «Oddio, datti una calmata».

    «Pensi che sia io a dovermi dare una calmata?», chiese Alison.

    Spencer e Alison rimasero a fissarsi per alcuni secondi. Era una di quelle stupide dispute che avrebbe potuto nascere su chi avesse visto per prima il nuovo abito Lacoste da Neiman Marcus o sul fatto che i colpi di sole color miele apparissero troppo forti. Invece, riguardava qualcosa di completamente diverso. Qualcosa di più grande.

    Alla fine, Spencer indicò la porta. «Vattene».

    «D’accordo». Alison se ne andò a grandi passi.

    «Bene!». Dopo pochi secondi, però, Spencer la seguì.

    L’atmosfera bluastra della sera era immobile, e da casa sua non proveniva alcuna luce.

    Tutto era avvolto nel silenzio, non si sentivano neppure i grilli, e Spencer poteva distinguere il suono del suo stesso respiro.

    «Aspetta un attimo!», gridò subito dopo, chiudendosi la porta alle spalle. «Alison!». Ma Alison se ne era già andata.

    Al rumore della porta che sbatteva, Aria aprì gli occhi. «Ali?», chiamò. «Ragazze?». Nessuna risposta.

    Si guardò attorno. Hanna ed Emily erano sedute sul tappeto, immobili, mentre la porta era aperta. Aria si diresse in veranda. Non c’era nessuno. In punta di piedi, arrivò fino al confine della proprietà di Ali. Davanti a lei si estendeva il bosco e tutto era silenzioso.

    «Ali?», sussurrò. Niente. «Spencer?».

    All’interno, Hanna ed Emily si stropicciarono gli occhi. «Ho fatto un sogno davvero strano», disse Emily.

    «Voglio dire, credo che fosse un sogno. È stato brevissimo. Alison cadeva in un pozzo senza fine, pieno di piante gigantesche».

    «Anch’io ho fatto lo stesso sogno!», disse Hanna.

    «Lo stesso?», chiese Emily.

    Hanna annuì. «Be’, una specie. C’era una pianta enorme. E penso di aver visto anche Alison. Forse era la sua ombra, ma era sicuramente lei».

    «Wow», sussurrò Emily. Rimasero a fissarsi, con gli occhi sgranati.

    «Ragazze?». Aria entrò, pallida in viso.

    «Ti senti bene?», chiese Emily.

    «Dov’è Alison?». Aria corrugò la fronte. «E Spencer?»

    «Non lo sappiamo», disse Hanna.

    Subito dopo, Spencer irruppe in casa, facendo sobbalzare tutte quante. «Che succede?», chiese.

    «Dov’è Ali?», chiese Hanna con voce calma.

    «Non saprei», sussurrò Spencer. «Pensavo che. non lo so».

    Tra le ragazze cadde il silenzio. L’unico rumore che si poteva avvertire era quello dei rami che strisciavano contro le finestre, come lo stridere di unghie affilate sul metallo.

    «Penso sia meglio andare a casa», disse Emily.

    Il mattino successivo, nessuno aveva ancora saputo niente di Alison. Le ragazze si chiamarono a vicenda, in una conversazione a quattro e non più a cinque, come succedeva di solito.

    «Pensate che sia arrabbiata con noi?», chiese Hanna. «Si è comportata in modo strano per tutta la serata».

    «Probabilmente è da Katy», disse Spencer. Katy era una delle compagne di hockey di Ali.

    «O forse è con Tiffany, quella ragazza del campeggio», suggerì Aria.

    «Sono sicura che si trova da qualche parte a divertirsi», disse Emily con tono sereno.

    Una a una, furono contattate dalla signora DiLaurentis, che chiedeva se avessero saputo qualcosa di Ali. All’inizio, tutte cercarono di coprirla: avevano sempre coperto Emily, quando nel fine settimana rientrava di soppiatto dopo il coprifuoco delle 11; avevano nascosto la verità quando Spencer aveva preso in prestito il giaccone di Melissa e poi l’aveva dimenticato sul sedile del treno, e così via. Quella volta però, dopo avere riagganciato con la signora DiLaurentis, ognuna di loro sentì una profonda amarezza correrle giù per lo stomaco, una sensazione orribile.

    Quel pomeriggio la signora DiLaurentis chiamò di nuovo, stavolta in preda al panico. Prima di sera, i DiLaurentis avevano già chiamato la polizia; il mattino successivo, il loro prato inglese, un tempo immacolato, era invaso da auto della polizia e giornalisti. Era il sogno proibito della TV locale: una ricca e bella ragazza scomparsa in una delle più sicure cittadine borghesi del Paese.

    Hanna chiamò Emily dopo avere ascoltato il primo notiziario notturno su Ali. «Sei stata interrogata dalla polizia, oggi?»

    «Sì», sussurrò Emily.

    «Anch’io. Non avrai parlato di.». Fece una pausa. «Dell’’Affare Jenna, spero?»

    «No!». Emily ebbe un sussulto. «Perché? Pensi che sappiano qualcosa?»

    «No... come potrebbero?», sussurrò Hanna dopo un secondo. «Siamo le uniche a sapere. Noi quattro e. Alison».

    La polizia interrogò le ragazze, così come praticamente ogni altro abitante di Rosewood, dall’insegnante di educazione fisica di Ali in seconda elementare al ragazzo che una volta le aveva venduto delle Marlboro da Wawa.

    Era l’estate prima della terza media, e le ragazze avrebbero dovuto passarla flirtando con ragazzi più grandi ai party in piscina, mangiando pannocchie in giardino l’una ospite delle altre e trascorrendo intere giornate a fare shopping al King James Mall. Invece, trascorrevano il tempo piangendo da sole nei loro letti a baldacchino o fissando con sguardi vacui le pareti tappezzate di foto. Spencer si gettò a capofitto nella pulizia frenetica della camera, ripensando a quale fosse realmente stata la questione centrale della lite con Ali e riflettendo su alcune cose di Ali che sapeva soltanto lei. Hanna trascorreva ore e ore sul pavimento della sua stanza, nascondendo sacchetti vuoti di patatine al formaggio sotto il materasso. Emily non riusciva a smettere di tormentarsi per via di una lettera che aveva spedito a Ali prima della scomparsa. Ali l’aveva mai ricevuta? Aria restava seduta alla scrivania con Pigtunia. Lentamente, le ragazze iniziarono a chiamarsi sempre meno. Erano tutte assillate dagli stessi pensieri, ma non avevano più nulla da dirsi.

    L’estate finì per dare inizio all’anno scolastico, che a sua volta si concluse l’estate successiva. Di Ali, ancora nessuna notizia. Le ricerche della polizia proseguivano, ma senza clamore. I media persero interesse, tuffandosi a capofitto su un triplo omicidio avvenuto nel centro città. I DiLaurentis lasciarono Rosewood circa due anni e mezzo dopo la scomparsa di Alison, mentre anche in Spencer, Aria, Emily e Hanna cambiò qualcosa. Ormai, se passavano nella strada in cui abitava Ali e guardavano la sua vecchia casa, non scoppiavano più a piangere; iniziarono, invece, ad avvertire una sensazione nuova.

    Sollievo.

    Certo, Alison era Alison. Era la spalla su cui piangere, l’unica alla quale avreste potuto chiedere di chiamare il ragazzo per cui avevate preso una cotta per sapere che cosa ne pensasse di voi, l’unica a poter dire l’ultima parola su come i vostri nuovi jeans facessero risaltare il fondoschiena. Eppure, le ragazze ne avevano anche paura. Ali sapeva più cose di loro di chiunque altro, inclusi gli avvenimenti più torbidi che tutte desideravano nascondere, come fossero un cadavere. Era orribile pensare che Ali potesse essere morta, ma. in tal caso, almeno i loro segreti sarebbero stati al sicuro.

    E lo rimasero. Almeno, per tre anni.

    ¹ Campionato scolastico annuale di nuoto per ragazzi dai 9 ai 12 anni (n.d.t.).

    ² Le Junior Varsity teams sono squadre organizzate dagli stessi istituti scolastici in sport diversi per ragazzi e ragazze fino ai 14 anni (n.d.t.).

    ³ Reality show, in onda negli Stati Uniti dal 2001, in cui i concorrenti, suddivisi in squadre, sono sottoposti a prove di coraggio estreme per aggiudicarsi il premio finale in denaro (n.d.t.).

    1

    ARANCE, PESCHE E LIME, OH MIO DIO!

    «Alla fine, qualcuno ha comprato la vecchia casa dei Di Laurentis», disse la madre di Emily Fields. Era sabato pomeriggio e la signora Fields stava seduta al tavolo di cucina a controllare con calma i conti, con un paio di bifocali ap-puntati sul naso.

    Emily sentì la Coca alla vaniglia che stava bevendo sfrigolarle su per il naso.

    «Penso che ci si sia trasferita un’altra ragazza della tua età», continuò la signora Fields. «Pensavo di portar loro quel cesto oggi pomeriggio. Vuoi farlo tu al posto mio?», chiese, indicando un raccapricciante oggetto incellofanato posato sul bancone della cucina.

    «Oddio, mamma, no», replicò Emily. Da quando, l’anno precedente, era andata in pensione e aveva lasciato il suo posto di insegnante alla scuola elementare, la madre di Emily era diventata la Lady Benvenuto non ufficiale di Rosewood, Pennsylvania. Di solito, riuniva un milione di oggetti d’ogni tipo - frutta secca, quegli aggeggi piatti di gomma che si usano per aprire i barattoli, polli di ceramica (la madre di Emily era ossessionata dai polli), una guida alle locande di Rosewood, insomma, un po’ di tutto - dentro un enorme cesto di benvenuto. Era la quintessenza della madre di provincia, ma senza il SUV, che riteneva pomposo e inquinante, per cui guidava una pratica Volvo station wagon.

    La signora Fields si alzò in piedi e passò le dita tra i capelli bruciati dal cloro di Emily. «Ti disturberebbe molto andarci, tesoro? Forse dovrei mandarci Carolyn?».

    Emily gettò uno sguardo verso sua sorella Carolyn, più grande di lei di un anno, che se ne stava comodamente distesa sulla poltrona del soggiorno a guardare Dr. Phil., e scosse la testa. «No, va bene. Ci andrò io».

    È vero, Emily talvolta si lamentava e alzava gli occhi al cielo, ma in realtà, se era sua madre a chiederglielo, avrebbe fatto qualsiasi cosa. Prima della classe, quattro volte campionessa di stile farfalla della Pennsylvania, figlia superobbediente; per lei rispettare regole e richieste era una cosa naturale.

    Inoltre, era come se in fondo al cuore desiderasse trovare una ragione per rivedere di nuovo la casa di Alison. Mentre tutti gli abitanti di Rosewood sembravano avere superato la scomparsa della ragazza, avvenuta ormai tre anni, due mesi e dodici giorni prima, Emily non c’era riuscita. Persino adesso non era in grado di guardare il suo diario di seconda media senza provare il desiderio di raggomitolarsi su se stessa. Talvolta, nei giorni di pioggia, Emily rileggeva ancora i vecchi appunti di Ali, che teneva in una scatola di Adidas nascosta sotto il letto.

    Era arrivata persino a conservare, su una stampella di legno, un paio di pantaloni di velluto a coste che Ali le aveva prestato, anche se ormai non le stavano più. Aveva trascorso gli ultimi anni a Rosewood in solitudine, alla ricerca di un’altra amica come Ali, che probabilmente non avrebbe mai trovato. Non era stata un’amica perfetta, ma, nonostante tutti i suoi difetti, Ali era quasi impossibile da sostituire.

    Emily si alzò ricomponendosi e afferrò le chiavi della Volvo sfilandole dal gancio accanto al telefono. «Sarò di ritorno tra poco», gridò chiudendosi la porta alle spalle. La prima cosa che vide avvicinandosi alla vecchia casa in stile vittoriano di Alison all’inizio della strada alberata fu un’enorme pila di cianfrusaglie sul marciapiede e un cartello con su scritto Gratis!. Gettando uno sguardo furtivo, si rese conto che vi erano contenute anche alcune cose di Ali; riconobbe infatti la vecchia poltrona di velluto imbottita che la ragazza teneva in camera. Erano passati almeno nove mesi da quando i DiLaurentis si erano trasferiti. Evidentemente, avevano deciso di lasciare qualcosa.

    Parcheggiò dietro un enorme furgone per traslochi e scese dalla Volvo. «Wow», mormorò, cercando d’impedire che il labbro inferiore le tremasse. Sotto la poltrona erano impilati numerosi libri pieni di polvere. Emily si chinò e dette un’occhiata alle coste. Il segno rosso del coraggio. Il principe e il povero. Si ricordò di averlo letto durante il corso di letteratura inglese del signor Pierce in seconda media, parlando di simbolismo, metafore ed epiloghi. Sotto erano nascosti molti altri libri, alcuni dei quali sembravano essere semplici taccuini. Accanto, giacevano delle scatole, contrassegnate con le scritte Vestiti di Alison e Vecchie scarpe di Alison. Da una cassa faceva capolino un nastro rosso e blu. Emily lo tirò un po’ fuori: era una medaglia di prima media che aveva lasciato a casa di Alison quando un giorno avevano fatto un gioco chiamato Le dee olimpiche del sesso.

    «Lo vuoi?».

    Emily sobbalzò. Vide una ragazza alta e magra dalla pelle scura e i capelli ricci, di un nero corvino. Indossava una canottiera sportiva gialla: una bretellina era scesa, lasciando intravedere quella verde e arancio del reggiseno. Benché non ne fosse sicura, Emily pensò di avere lo stesso reggiseno a casa. Era un Victoria’s Secret tempestato di arance, pesche e lime su tutte, ehm… su tutte le tette.

    La medaglia di nuoto le scivolò dalle mani e cadde a terra.

    «Ehm, no», disse, chinandosi goffamente per raccoglierla.

    «Puoi prendere tutto quello che vuoi. Hai visto il cartello?»

    «No, davvero, grazie».

    La ragazza alzò la mano. «Maya St. Germain. Mi sono appena trasferita».

    «Io.». La voce le si ruppe in gola. «Emily», riuscì a dire alla fine, stringendole la mano. Sembrava un gesto talmente formale quello di stringere la mano a una ragazza, che Emily non si ricordava neanche di averlo mai fatto prima. Si sentiva un po’ confusa. Forse a colazione non aveva mangiato abbastanza cereali al miele e nocciole? Maya indicò gli oggetti accatastati a terra. «Tutta questa roba era ammucchiata nella mia nuova camera. Ci crederesti? Ho dovuto spostarla tutta da sola. Che schifo».

    «Sì, apparteneva tutta a Alison», disse Emily, con un filo di voce.

    Maya si chinò per osservare alcuni libri, tirandosi su la bretella della canottiera. «È una tua amica?».

    Emily fece una pausa. È? Forse Maya non sapeva niente della scomparsa di Ali? «Uhm, lo era. Molto tempo fa. Assieme ad altre ragazze che vivono nei dintorni», le spiegò Emily, tralasciando la parte del rapimento, omicidio, o di qualunque altra cosa fosse accaduta e che non osava neppure immaginare. «In seconda media. Adesso frequenterò la terza superiore alla Rosewood Day». La scuola sarebbe iniziata subito dopo il weekend, così come le lezioni di nuoto, il che avrebbe significato tre ore di vasche al giorno. Emily non osava neanche pensarci.

    «Anch’io andrò alla Rosewood!», disse Maya con un largo sorriso, sprofondando nella vecchia poltrona di velluto di Alison e provocando un gran stridio di molle. «Durante il volo per venire qua, i miei genitori non hanno fatto altro che ripetermi quanto fossi fortunata a venire alla Rosewood e quanto questa fosse diversa dalla mia vecchia scuola in California. Voglio dire, scommetto che voi ragazzi non mangiate cibo messicano, giusto? O in ogni caso, cibo messicano davvero buono, tipo quello che si trova in California. A noi ce lo davano a mensa e hmm, era fantastico. Dovrò abituarmi ai Taco Bell. I loro gorditas¹ mi fanno vomitare».

    «Oh». Emily sorrise. Quella ragazza parlava davvero un sacco. «Sì, il cibo fa abbastanza schifo».

    Maya saltò su dalla poltrona. «Forse ti sembrerà una domanda assurda dato che ci siamo appena conosciute, ma non è che mi aiuteresti a portare le ultime cose nella mia stanza?». Si diresse verso alcuni scatoloni appoggiati accanto al furgone.

    Emily sgranò gli occhi. Entrare nella vecchia stanza di Alison? Ma sarebbe sembrata davvero maleducata se avesse rifiutato, no? «Uhm, certo», rispose con tono incerto.

    L’atrio odorava ancora di Dove e potpourri, proprio come quando ci vivevano i DiLaurentis. Emily si fermò sulla porta, aspettando che Maya le dicesse cosa fare, anche se sapeva benissimo che avrebbe potuto trovare la vecchia stanza di Ali a occhi chiusi, proprio in fondo al corridoio al piano superiore. Ovunque erano sparse scatole piene di roba, e due esili levrieri italiani guairono da dietro un cancelletto in cucina.

    «Ignorali», le disse Maya, mentre si dirigeva su per le scale verso la sua stanza, bloccando la porta aperta con l’anca ben visibile; Maya indossava un paio di pantaloncini di spugna.

    Wow, sembra che tutto sia rimasto uguale, pensò Emily entrando nella stanza. Eppure non lo era: Maya aveva posizionato il suo enorme letto in un angolo diverso, sulla scrivania aveva sistemato un enorme PC a schermo piatto e aveva atipiche piadine di farina di mais, simili ai più noti tacos, con ripieni di vario genere (salsiccia, carne tritata, patate, formaggio) (n.d.t.).

    Attaccato poster ovunque, ricoprendo la vecchia carta da parati floreale di Alison. Eppure qualcosa era rimasto immutato, come se la presenza di Alison vi aleggiasse ancora. Emily si sentì girare la testa e si appoggiò al muro per sostenersi.

    «Mettile dove vuoi», le disse Maya. Emily fece appello a tutte le proprie energie per non cadere, posò la scatola ai piedi del letto e si guardò attorno.

    «Mi piacciono i tuoi poster», disse. Erano principalmente di gruppi musicali: MIA, Black Eyed Peas, Gwen Stefani in uniforme da cheerleader. «Adoro Gwen», aggiunse.

    «Già», rispose Maya. «Il mio ragazzo ne è totalmente ossessionato. Si chiama Justin. Anche lui è di San Francisco, come me».

    «Oh, anch’io ho un ragazzo», disse Emily. «Si chiama Ben».

    «Ah sì?». Maya si sedette sul letto. «E com’è?».

    Emily cercò di ricordare i tratti di Ben, con cui stava da quattro mesi. L’aveva visto due giorni prima, quando avevano guardato Doom in DVD a casa di lei. La madre, naturalmente, era rimasta nell’altra stanza, facendo capolino di tanto in tanto per chiedere se avessero bisogno di qualcosa. Erano stati buoni amici per un po’, facendo parte delle squadre di nuoto dello stesso anno. Tutti i loro compagni avevano insistito perché uscissero insieme, e alla fine era successo. «È carino».

    «Allora, perché le tue amiche non frequentano più la ragazza che abitava qui?», chiese Maya.

    Emily si sistemò i capelli rossicci dietro le orecchie. Wow. Dunque Maya non sapeva davvero niente di Alison. Se Emily avesse iniziato a parlare di Alison, però, avrebbe potuto iniziare a piangere, il che sarebbe sembrato strano. Conosceva appena quella Maya. «Be’, crescendo mi sono allontanata da tutte le mie vecchie amiche di seconda media. Siamo cambiate tutte moltissimo, credo».

    In effetti, ciò che aveva appena detto era alquanto riduttivo. Delle vecchie migliori amiche di Emily, Spencer era diventata iperperfezionista, peggio di quanto già fosse; la famiglia di Aria si era improvvisamente trasferita in Islanda l’autunno dopo la scomparsa di Ali, mentre l’amorevole sempliciotta Hanna era diventata l’esatto contrario di ciò che era allora, una vera puttana. Hanna e la sua attuale migliore amica, Mona Vanderwaal, si erano totalmente trasformate nell’estate tra la terza media e la prima superiore. La madre di Emily, che aveva di recente visto Hanna entrare da Wawa, il negozio di casalinghi locale, le aveva detto che Hanna sembrava «una sgualdrina persino peggiore di quella Paris Hilton». Emily non aveva mai sentito la madre pronunciare la parola sgualdrina prima di allora.

    «So che cosa significhi allontanarsi», disse Maya, che continuava a saltellare su e giù sul letto da quando si era seduta. «Come il mio ragazzo: ha paura che lo molli, adesso che vivo sulla costa opposta. È un tale ragazzino».

    «Io e il mio ragazzo facciamo parte della squadra di nuoto, per cui ci vediamo sempre», rispose Emily, cercando un posto in cui sedersi. Forse troppo, pensò.

    «Nuoti?», le chiese Maya, squadrandola dall’alto in basso e facendola sentire un po’ fuori luogo. «Scommetto che sei davvero brava. Hai le spalle adatte».

    «Be’, non saprei». Emily arrossì e si appoggiò alla scrivania in legno bianco di Maya.

    «Certamente!». Maya sorrise. «Ma allora. da atleta professionista, pensi che mi ucciderai se mi fumo un po’ di erba?»

    «Cosa? Adesso?». Emily sgranò gli occhi. «E i tuoi genitori?»

    «Sono andati a fare la spesa. E mio fratello, be’, è qui in giro, ma a lui non importa nulla». Maya allungò la mano sotto il materasso alla ricerca di una scatola di mentine. Sollevò la finestra che si trovava proprio accanto al letto, tirò fuori una canna e l’accese. Il fumo volò fuori nel cortile, avvolgendosi in una nube indistinta attorno a una grossa quercia.

    Maya la ritirò dentro. «Vuoi fare un tiro?».

    Emily non aveva mai fumato marijuana in tutta la sua vita. Aveva sempre pensato che i suoi genitori lo avrebbero in qualche modo saputo, annusando l’aria o costringendola a fare pipì in una tazza, o roba così. Ma non appena Maya ebbe allontanato l’erba con grazia dalle labbra ricoperte di glitter alla ciliegia, le sembrò sexy. Anche Emily voleva sembrare sexy.

    «Ehm, ok». Emily scivolò vicino a Maya e prese la canna. Le loro mani si sfiorarono e gli sguardi si incontrarono. Gli occhi di Maya erano verdi, con alcune striature di giallo, come quelli di un gatto. La mano di Emily tremò. Si sentiva nervosa, ma avvicinò comunque la sigaretta alle labbra e aspirò profondamente, come se stesse succhiando della Coca alla vaniglia da una cannuccia.

    Il sapore, però, non era quello; d’un tratto, si sentì come se avesse inalato un intero barattolo di spezie andate a male, e scoppiò in una tosse da vecchio fumatore incallito.

    «Wow», disse Maya, riprendendosi l’erba. «Prima volta?».

    Non riuscendo a respirare, Emily si limitò ad annuire, boccheggiando. Ansimò ancora per un po’, nel tentativo di far entrare un po’ d’aria nel petto, finché finalmente non riuscì a sentire di nuovo l’ossigeno penetrarle nei polmoni. Non appena Maya girò il braccio, Emily scorse una pallida e lunga cicatrice scenderle giù fino al polso. Wow. Sulla pelle abbronzata, le sembrò che strisciasse giù come un serpente albino. Dio mio, forse era già completamente fatta.

    Improvvisamente, si udì un forte rumore metallico. Emily sobbalzò. Poi udì di nuovo lo stesso rumore. «Che cos’è?», sibilò. Maya aspirò ancora e scosse la testa. «Gli operai. Siamo qui da un giorno e i miei genitori hanno già dato il via ai lavori», rispose con un ghigno. «Sei agitatissima, come se stesse arrivando la polizia. Sei già stata beccata qualche volta?»

    «No!». Emily scoppiò in una risata; era un pensiero talmente ridicolo.

    Maya sorrise ed espirò.

    «Devo andare», disse Emily con voce stridula.

    Il viso di Maya si fece triste. «Perché?».

    Emily si trascinò giù dal letto. «Ho detto a mia mamma che mi sarei fermata soltanto per qualche minuto. Ma ci vediamo a scuola martedì».

    «Perfetto», disse Maya. «Forse potresti farmi fare un giro?».

    Emily sorrise. «Certo».

    Maya accennò un sorriso e fece un cenno di saluto a tre dita. «Sai come uscire?»

    «Penso di sì». Emily dette un’altra occhiata alla stanza di Ali. di Maya, e scese rumorosamente dalle scale tanto familiari.

    Fu soltanto dopo avere scrollato la testa all’aria aperta, attraversato tutta la roba di Alison sul marciapiede ed essere rimontata sulla macchina dei suoi genitori che Emily si rese conto del cesto sul sedile posteriore. Fottiti, pensò, infilandolo tra la vecchia poltrona di Alison e le scatole di libri. Chi ha bisogno di una guida alle locande di Rosewood? Maya già vive qui.

    Ed Emily ne fu improvvisamente felice.

    ¹ Tipiche piadine di farina di mais, simili ai più noti tacos, con ripieni di vario genere (salsiccia, carne tritata, patate, formaggio) (n.d.t.).

    2

    LE ISLANDESI (E LE FINLANDESI) SONO FACILI

    «Ommioddio, alberi. Non sapete quanto sia contento di vedere dei grossi, grassi alberi».

    Il fratello quindicenne di Aria Montgomery, Michelangelo, spenzolò la testa fuori del finestrino come un golden retriever. Aria, i suoi genitori, Ella e Byron (volevano che i figli li chiamassero per nome) e Mike stavano tornando in macchina dall’aeroporto internazionale di Philadelphia, appena scesi da un volo in arrivo da Reykjavik, Islanda. Il padre di Aria era un professore di storia dell’arte, e l’intera famiglia aveva trascorso gli ultimi due anni in Islanda, dove lui aveva lavorato a un documentario televisivo sull’arte scandinava. Ora che erano tornati, Mike osservava incantato il paesaggio campestre della Pennsylvania. E ciò significava. Ogni. Singolo. Elemento. La locanda in pietra del XVIII secolo che vendeva vasi in ceramica decorata; le vacche nere che, da dietro uno steccato, osservavano con sguardo assente la loro macchina passare lungo la strada; il centro commerciale in pieno stile New England che si era ingrandito durante la loro assenza e persino lo sbiadito Dunkin’ Donuts, che ormai aveva venticinque anni.

    «Diavolo, non vedo l’ora di farmi una granita al caffè!», esclamò Mike.

    Aria grugnì. In Islanda, Mike aveva trascorso un paio di anni in solitudine (si lamentava che tutti i ragazzi islandesi fossero «femminucce che cavalcano piccoli cavalli gay»), Aria, al contrario, era sbocciata. Un nuovo inizio era proprio ciò di cui aveva bisogno all’epoca, per cui fu felice quando suo padre annunciò che la famiglia si sarebbe trasferita. Era l’autunno dopo la scomparsa di Alison, e le ragazze si erano allontanate, lasciandola senza alcuna vera amica, solo una scuola piena di gente che conosceva ormai da una vita.

    Prima di partire per l’Europa, Aria si era accorta che talvolta i ragazzi la osservavano da lontano incuriositi, ma che poi voltavano lo sguardo. Con la sua figura vivace da ballerina, i lisci capelli neri e le labbra carnose, Aria sapeva di essere carina. La gente glielo ripeteva continuamente; allora, perché non aveva ricevuto alcun invito alla festa di primavera di seconda media? Una delle ultime volte in cui lei e Spencer erano uscite (una di quelle festicciole imbarazzanti dell’estate subito dopo la scomparsa di Ali), Spencer le aveva detto che avrebbe potuto ricevere un sacco di inviti, se soltanto avesse cercato di ambientarsi un po’ di più.

    Ma Aria non sapeva come fare ad ambientarsi. I suoi genitori le avevano inculcato la convinzione di essere un individuo ben distinto, non una qualunque pecora del gregge, e che perciò doveva essere se stessa. Il problema era che Aria non sapeva chi fosse realmente Aria: da quando aveva compiuto undici anni, aveva recitato l’Aria punk, l’Aria intellettualoide, l’Aria da documentario e, poco prima che si trasferissero, persino l’Aria ragazza ideale di Rosewood, un fantino con la polo dotata di borsa di cuoio, quintessenza di tutto ciò che i ragazzi di Rosewood adoravano, ma anche di tutto ciò che Aria non era. Grazie al cielo, si erano trasferiti in Islanda a due settimane da quel disastro, e lì, tutto, tutto, ma proprio tutto, era cambiato.

    Suo padre aveva ottenuto quel lavoro quando Aria aveva appena iniziato la terza media, e la famiglia aveva fatto le valigie. Aria aveva sospettato che fossero partiti così in fretta a causa di un segreto riguardante il padre che solo lei e Alison DiLaurentis conoscevano, ma si era ripromessa di non pensarci più non appena decollata sull’aereo dell’Icelandair, e così fu: dopo avere vissuto per alcuni mesi a Reykjavik, Rosewood si era trasformata in un pallido ricordo. I suoi genitori sembravano essersi innamorati di nuovo e persino il fratello, da provinciale incallito quale era, aveva imparato l’islandese e il francese. E Aria si era innamorata. diverse volte, a dire il vero.

    Dunque, che importava se i ragazzi di Rosewood non riuscivano a capire l’eccentrica Aria? I ragazzi islandesi - i ricchi, mondani, affascinanti ragazzi islandesi - di sicuro ci riuscivano. Non appena si erano trasferiti, aveva incontrato un ragazzo di nome Hallbjorn, un DJ diciassettenne con tre pony e il più strabiliante fisico che avesse mai visto, che si offrì di portarla a vedere i geyser e, subito dopo averne visto uno gorgogliare ed esplodere in una larga nube di vapore, l’aveva baciata. Dopo Hallbjorn c’era stato Lars, a cui piaceva giocherellare con il suo vecchio pupazzo, Pigtunia (quello che le dava consigli sulla vita sentimentale), e che la portava alle più belle feste al porto. In Islanda, si sentiva adorabile e sexy. Là era diventata Aria l’islandese, la migliore Aria di sempre, che aveva trovato un proprio stile, un look a metà tra l’hippy e il bohémien fatto di abiti a strati, stivali allacciati e jeans APC comprati durante un viaggio a Parigi. Leggeva i grandi filosofi francesi e viaggiava in treno per tutta Europa munita solo di una mappa e un cambio di biancheria.

    Adesso, invece, ogni angolo di Rosewood che le appariva fuori dal finestrino le ricordava un passato che avrebbe voluto dimenticare. C’era Ferra’s Cheesesteaks, dove aveva trascorso ore con le sue amiche alle medie; c’era il country club, con il suo ingresso in pietra (i suoi genitori non lo sapevano, ma c’era andata con Spencer, e una volta, in un impeto di coraggio, si era diretta verso il ragazzo per cui aveva preso una sbandata, Noel Kahn, per chiedergli se voleva condividere un gelato con lei. Lui le aveva risposto un secco no, naturalmente.

    Infine, apparve la luminosa strada alberata in cui viveva Alison DiLaurentis. Non appena la macchina si fermò all’incrocio, Aria sgranò gli occhi: riusciva a scorgerla, seconda casa dall’angolo. A parte un mucchio d’immondizia sul marciapiede, la casa appariva ordinata e quieta. Riuscì a osservarla per poco prima di doversi coprire gli occhi. In Islanda, passavano giorni in cui arrivava quasi a dimenticarsi di Ali, dei loro segreti e di ciò che era successo. Tornata a Rosewood da meno di dieci minuti, ad Aria sembrava quasi di sentire la voce di Ali a ogni curva della strada e di vederla riflessa in ogni finestra. Sprofondò nel sedile, cercando di non piangere.

    Suo padre proseguì per pochi isolati e si diresse verso la loro vecchia casa, una cupa scatola marrone postmoderna con una sola finestra squadrata proprio al centro; un’enorme delusione in confronto alla casa a schiera dipinta di un azzurro tenue con vista sul mare in cui abitavano in Islanda. Sentì Mike, appena sceso, rispondere al cellulare e lo vide agitare le mani tra i granelli luccicanti di polvere che aleggiavano nell’aria.

    «Mamma!». Mike attraversò di corsa la porta. «Ho appena parlato con Chad, mi ha detto che le prime selezioni di lacrosse sono oggi».

    «Lacrosse?». Ella emerse dalla sala da pranzo. «Proprio ora?»

    «Sì», disse Mike. «Vado!». Salì di corsa le scale in ferro battuto dirigendosi nella sua vecchia stanza.

    «Aria, tesoro?». La voce della madre la fece girare. «Puoi accompagnarlo agli allenamenti?». Aria accennò una risatina. «Che cosa, mamma? Non ho la patente».

    «E allora? A Reykjavik guidavi sempre. Il campo di lacrosse è solo a un paio di miglia, no? La cosa peggiore che ti possa capitare è di investire una mucca. Ti chiedo solo di aspettare che abbia finito».

    Aria fece una pausa. La madre sembrava già esaurita. Aveva sentito il padre aprire e chiudere gli armadietti della cucina, borbottando fra i denti. I suoi genitori sarebbero riusciti ad amarsi come in Islanda? Oppure le cose sarebbero tornate come prima? «D’accordo», mugugnò. Lasciò cadere con un tonfo le sue borse sul pianerottolo, afferrò le chiavi della macchina e scivolò sul sedile anteriore.

    Suo fratello si sedette accanto a lei, sorprendentemente già in divisa. Sistemò la rete all’estremità della mazza e le fece un sorriso sadico e furbesco. «Felice di essere tornata?».

    Per tutta risposta, Aria emise solo un sospiro. Per tutto il tragitto, Mike tenne le mani attaccate al finestrino, gridando frasi del tipo: «Ecco la casa di Caleb! Hanno demolito la rampa da skate!» e «La cacca di mucca ha sempre la stessa puzza!». Arrivati all’ampio, curato campo di gioco, Aria non fece in tempo a fermare la macchina che Mike aprì lo sportello e scappò via.

    Aria si accasciò sul sedile osservando il tettuccio apribile e sospirò. «Entusiasta di essere tornata», mormorò. Una mongolfiera galleggiava placida tra le nuvole. Di solito era bello vederle, ma quel giorno la fissò con intensità, chiuse un occhio e fece finta di farla scoppiare tra pollice e indice.

    Un gruppo di ragazzi in tshirt bianche della Nike, pantaloncini larghi e cappellini da baseball bianchi indossati al contrario sfilò lentamente accanto alla macchina, diretto verso gli spogliatoi. Visto? Ogni ragazzo di Rosewood era 38 una fotocopia dell’altro. Aria sbatté le palpebre: uno di loro indossava persino la stessa t-shirt Nike della University of Pennsylvania che indossava sempre Noel Kahn, il ragazzo del gelato di cui si era innamorata in seconda media. Dette uno sguardo furtivo ai capelli neri e mossi del ragazzo. Era forse. lui? Oddio. Era lui davvero. Aria non riusciva a credere che indossasse ancora la stessa maglietta di quando aveva tredici anni. Probabilmente, era una sorta di portafortuna, o forse lo faceva per qualche altra strana superstizione da giocatore.

    Noel la guardò con aria interrogativa, poi si avvicinò alla macchina e bussò al finestrino. Lei lo abbassò.

    «Tu sei quella ragazza che si era trasferita al Polo Nord. Aria, giusto? Eri l’amica di Ali D?», proseguì Noel.

    Aria si sentì un nodo in gola. «Uhm», disse.

    «No, scemo». James Freed, il secondo ragazzo più figo della Rosewood, fece capolino dietro di lui. «Non è andata al Polo Nord, è andata in Finlandia. Sai, da dove viene quella modella, Svetlana. Quella che somiglia a Hanna».

    Aria si grattò la fronte. Hanna? Cioè, Hanna Marin? Si udì un fischio, e Noel si allungò dentro la macchina per toccare il braccio di Aria. «Resti qui a guardare gli allenamenti, vero Finlandia?»

    «Uhm. ja», disse Aria.

    «Che cosa sarebbe, un grugnito sexy in finlandese?», sogghignò James.

    Aria alzò gli occhi al cielo. Era abbastanza certa che ja significasse sì in finlandese, ma naturalmente quei ragazzi non lo sapevano. «Divertitevi a giocare a palla», disse, sorridendo con aria stanca.

    I ragazzi si spintonarono l’un l’altro e poi corsero via, facendo guizzare le loro mazze da lacrosse ancora prima di toccare il campo. Aria rimase a guardare dal finestrino. Che ironia. Quella era stata la prima volta in cui aveva flirtato con un ragazzo di Rosewood - Noel per giunta - e neanche le interessava.

    Attraverso gli alberi riusciva a malapena a scorgere la guglia della cappella dell’Hollis College, la piccola scuola d’arte dove insegnava il padre. Sulla strada principale della Hollis c’era un bar, Snookers. Mise la schiena dritta e guardò l’orologio. Le due e mezza. Doveva essere aperto. Avrebbe potuto andare a farsi un paio di birre e divertirsi un po’.

    Forse, un po’ di alcol le avrebbe persino fatto sembrare carini i ragazzi di Rosewood.

    Mentre i bar di Reykjavik odoravano di birra chiara appena fermentata, legno vecchio e sigarette francesi, Snookers sapeva di un misto tra carne in putrefazione, hot dog marci e sudore. Snookers, come ogni altro angolo di Rosewood, portava con sé dei ricordi: un venerdì sera, Alison DiLaurentis aveva sfidato Aria a entrare e ordinare un orgasmo strillante. Aria aveva aspettato in coda a un gruppetto di collegiali di buona famiglia, e quando il buttafuori all’entrata non l’aveva lasciata passare, aveva urlato: «Ma il mio orgasmo strillante è lì dentro!». Poi, realizzando cosa aveva detto, era scappata dalle sue amiche, accucciate dietro a una macchina nel parcheggio. Stavano tutte ridendo a crepapelle, fino a farsi venire il singhiozzo.

    «Amstel», disse al barista dopo aver superato la porta d’ingresso a vetri (evidentemente, non c’era bisogno di buttafuori alle due e mezza di sabato pomeriggio). Il barista la guardò con aria interrogativa, poi le servì un boccale e si allontanò. Aria buttò giù una sorsata, insipida e annacquata, e la risputò nel bicchiere.

    «Tutto bene?».

    Aria si girò. Tre sgabelli più avanti stava seduto un ragazzo 40 dai capelli biondicci e arruffati e occhi da husky siberiano. Stava mescolando qualcosa in un bicchierino.

    Aria aggrottò le sopracciglia. «Sì, avevo dimenticato il sapore della birra da queste parti. Ho vissuto in Europa per due anni. La birra è meglio laggiù».

    «Europa?». Il ragazzo sorrise. Aveva un sorriso davvero carino. «Dove?».

    Aria contraccambiò il sorriso. «Islanda».

    Gli occhi del ragazzo s’illuminarono. «Una volta ho trascorso alcune notti a Reykjavik al ritorno da Amsterdam. Avevano organizzato un’enorme, fantastica festa al porto».

    Aria strinse il boccale tra le mani. «Sì», disse ridendo, «lì danno le feste migliori».

    «Hai visto l’aurora boreale?»

    «Certo», rispose Aria. «E anche il sole di mezzanotte. Facevamo delle feste da sballo in estate, con la musica migliore». Guardò il bicchiere del ragazzo. «Che cosa stai bevendo?»

    «Scotch», rispose lui, facendo segno al barista. «Ne vuoi uno?».

    Lei fece cenno di sì con la testa. Il ragazzo si avvicinò di tre sgabelli. Aveva delle belle mani, con dita lunghe e unghie leggermente irregolari. Sulla giacca di velluto indossava una piccola spilla con scritto Le donne intelligenti votano!.

    «Quindi hai vissuto in Islanda?». Sorrise ancora. «Tipo, per un anno di studi all’estero?»

    «Be’, no», rispose Aria. Il barista le versò lo scotch. Fece una generosa sorsata, come se fosse birra, e gola e petto iniziarono a bruciarle. «Sono stata in Islanda perché.».

    Si fermò. «Sì, è stato il mio. be’, il mio anno all’estero». Che pensasse ciò che voleva.

    «Forte», annuì lui. «E prima dove abitavi?».

    Aria alzò le spalle. «Be’, qui a Rosewood», disse sorridendo, e subito dopo aggiunse, «ma l’Islanda mi piaceva molto di più».

    Il ragazzo annuì. «Ero davvero triste di dover tornare negli Stati Uniti dopo Amsterdam».

    «Io ho pianto durante l’intero tragitto verso casa», ammise Aria, sentendosi per la prima volta se stessa (la nuova, migliore Aria l’islandese) da quando era tornata. Non solo stava parlando dell’Europa con un ragazzo carino e intelligente, ma probabilmente stava parlando con l’unico ragazzo di Rosewood che non la conosceva come l’Aria di Rosewood, l’amica sciroccata della bella ragazza che era scomparsa. «Dunque, vai a scuola qui?», chiese.

    «Mi sono appena diplomato». Si pulì la bocca con un tovagliolo e si accese una Camel. Ne offrì una ad Aria, ma lei scosse la testa. «Adesso voglio dare un po’ di lezioni».

    Aria bevve un altro sorso di scotch e si accorse di averlo finito. Wow. «Mi piacerebbe insegnare, credo. Una volta finita la scuola. O insegnare, o scrivere commedie teatrali».

    «Davvero? Commedie? In che cosa ti stai specializzando?»

    «Uhm, letteratura?». Il barista le versò un altro scotch.

    «Io insegno letteratura!», disse il ragazzo, mettendole una mano sul ginocchio; Aria sobbalzò dalla sorpresa e per poco non si versò il drink addosso. Il ragazzo ritirò la mano, mentre Aria arrossì.

    «Scusami», disse con tono imbarazzato. «Comunque, io mi chiamo Ezra».

    «Aria». All’improvviso il suo nome le sembrò divertente e iniziò a ridere, perdendo l’equilibrio.

    «Ehi». Ezra l’afferrò per il braccio, tenendola stretta.

    Tre scotch dopo, Aria ed Ezra avevano scoperto di aver conosciuto lo stesso vecchio marinaio barista al Borg bar di Reykjavik, di adorare il modo in cui l’usanza di fare il bagno nelle fonti bollenti della laguna blu, ricca di minerali, li faceva sentire assonnati, e di trovare piacevole l’odore di uova marce che si sprigionava dalle fonti d’acqua termale. Gli occhi di Ezra diventavano via via più azzurri. Aria avrebbe voluto chiedergli se aveva una ragazza; sentiva caldo dentro ed era abbastanza sicura che non fosse soltanto colpa dello scotch.

    «Devo andare in bagno», disse con aria stordita.

    Ezra sorrise. «Posso accompagnarti?».

    Be’, questa era già un’ottima risposta alla domanda sulla ragazza.

    «Voglio dire, be’.». Si strofinò la base del collo. «È troppo ardito da parte mia?», chiese, alzando lo sguardo da sotto le sopracciglia ben disegnate.

    Ad Aria ronzava la testa. Avere una relazione con uno sconosciuto non era proprio sua abitudine - almeno, non in America. Ma non aveva detto di voler essere l’Aria l’islandese? Si alzò e lo prese per mano. Si guardarono negli occhi per tutto il tempo impiegato a raggiungere il bagno delle signore. Sul pavimento c’era carta igienica sparsa ovunque, e l’odore era persino peggiore che nel resto del bar, ma Aria non ci fece caso. Mentre Ezra la sollevava sul lavandino e lei gli cingeva i fianchi con le gambe, tutto ciò che riuscì a sentire fu il suo profumo, un misto tra scotch, cannella e sudore, e niente aveva mai avuto un odore più dolce.

    Come dicono in Finlandia, o forse da qualche altra parte, ja.

    3

    IL BRACCIALETTO DI HANNA

    «E così sembra che stessero facendo sesso nella camera dei genitori di Bethany!».

    Hanna Marin stava fissando la sua migliore amica, Mona Vanderwaal, dall’altro lato del tavolo. Mancavano ormai solo due giorni all’inizio della scuola, e le due se ne stavano sedute sulla terrazza del caffè in stile francese del King James Mall, il Rive Gauche, a bere vino, mettere a confronto «Vogue» con «Teen Vogue» e spettegolare. Mona conosceva sempre i segreti più intimi di tutti. Hanna bevve un altro sorso di vino e notò un tizio sulla quarantina che le osservava con sguardo lascivo. Il solito Humbert Humbert, pensò Hanna, senza dirlo ad alta voce. Mona non avrebbe certo colto la citazione letteraria, ma solo perché Hanna era la ragazza più ricercata della Rosewood Day, ciò non significava che non fosse capace, di tanto in tanto, di leggere i libri consigliati per l’estate, specialmente quando prendeva il sole a bordo piscina senza niente da fare. Oltretutto Lolita sembrava deliziosamente osceno.

    Mona si voltò per capire chi Hanna stesse osservando. La bocca le si piegò in un sorriso cattivello. «Facciamogli vedere».

    «Al tre?». Hanna spalancò gli occhi.

    Mona annuì. Al tre, le ragazze sollevarono lentamente l’orlo delle minigonne già vertiginose, mostrando gli slip. Humbert sgranò gli occhi, versandosi il bicchiere di pinot nero sul cavallo dei pantaloni. «Merda!», strillò, prima di schizzare in bagno. «Ben fatto», disse Mona. Gettarono i tovaglioli nelle insalate ancora intatte e si alzarono per andarsene.

    Erano diventate amiche durante l’estate tra la terza media e la prima superiore, quando erano state entrambe scartate alle selezioni per entrare a far parte delle cheerleader della Rosewood. Decise a entrare in squadra l’anno successivo, si erano impegnate a perdere diversi chili in modo da diventare come quelle ragazze carine e tutto pepe che i ragazzi lanciavano in aria. Una volta magre e splendide, però, avevano deciso che diventare cheerleader era un’ambizione ormai sorpassata e che le cheerleader erano delle perdenti, per cui non avevano mai riprovato a entrare in squadra.

    Da allora, Hanna e Mona avevano condiviso tutto. be’, quasi tutto. Hanna non aveva mai confessato a Mona in che modo fosse riuscita a perdere peso così velocemente, era troppo volgare per parlarne. Mentre seguire una dieta rigida era sexy e ammirevole, non c’era niente, assolutamente niente di attraente nel mangiare una tonnellata di schifezze grasse, unte e ripiene di formaggio per poi rivomitarle tutte. In ogni caso, Hanna aveva ormai superato quella brutta abitudine, per cui non aveva più molta importanza.

    «Hai visto che quel ragazzo stava avendo un’erezione?», sussurrò Mona, rimettendo le riviste in pila. «Che cosa ne penserà Sean?»

    «Riderà», disse Hanna.

    «Oh, non penso».

    Hanna alzò le spalle. «Potrebbe».

    Mona sbuffò. «Già, mostrare le mutande agli estranei si sposa perfettamente con un voto di castità».

    Hanna abbassò lo sguardo, fissandolo sulle scarpe firmate Michael Kors. Il voto di castità. Il ragazzo di Hanna, l’incredibilmente popolare e straordinariamente sexy Sean Ackard, quello che aveva desiderato fin dalla seconda media, negli

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