Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L'ultima signora Parrish
L'ultima signora Parrish
L'ultima signora Parrish
E-book469 pagine6 ore

L'ultima signora Parrish

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Alcune donne ottengono tutto.
Altre ottengono tutto ciò che si meritano.


Amber Patterson non ne può più. È stanca di non essere nessuno, una donna semplice, invisibile, che si mimetizza con lo sfondo. Lei merita di più, una vita di denaro e potere come quella che Daphne Parrish, la dea con i capelli biondi e gli occhi azzurri, dà per scontata.
Tutti a Bishops Harbor, un'esclusiva cittadina del Connecticut, considerano Daphne, donna di mondo e filantropa, e suo marito Jackson, magnate immobiliare, una coppia uscita direttamente da una favola.
L’invidia rischierebbe di divorare Amber... se non avesse un piano. La donna approfitta infatti della compassione di Daphne per insinuarsi nella vita della famiglia Parrish, primo passo di un meticoloso piano per eliminarla.
In poco tempo, Amber diventa la confidente più stretta di Daphne, viaggia in Europa con i Parrish e con le loro deliziose figlie, e si avvicina sempre di più a Jackson. Ma un segreto del suo passato rischia di compromettere tutto ciò che si è impegnata a raggiungere e di far crollare il suo piano perfetto.


Tra colpi di scena inaspettati e oscuri segreti che tengono il lettore con il fiato in sospeso fino all’ultima pagina, L'ultima signora Parrish è un thriller originale e coinvolgente, opera di un talento diabolicamente fantasioso.

LinguaItaliano
Data di uscita14 giu 2018
ISBN9788858983607
L'ultima signora Parrish
Autore

Liv Constantine

Liv Constantine È il nom de plume delle sorelle Lynne e Valerie Constantine. Separate da tre Stati, trascorrono ore confabulando via FaceTime e per email. Attribuiscono la loro abilità di inventare storie oscure e contorte alle ore trascorse ascoltando i racconti tramandati dalla nonna greca. L'ultima signora Parrish è il loro thriller d'esordio.

Correlato a L'ultima signora Parrish

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su L'ultima signora Parrish

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L'ultima signora Parrish - Liv Constantine

    PRIMA PARTE

    AMBER

    1

    Amber Patterson era stanca di sembrare invisibile. Andava in quella palestra ogni giorno da tre mesi, tre lunghi mesi durante i quali aveva guardato quelle signore abbienti lavorare sull’unica cosa di cui si curassero. Erano terribilmente egocentriche; sarebbe stata disposta a scommettere il suo ultimo dollaro che non l’avrebbero riconosciuta, incrociandola per la strada, anche se ogni santo giorno era a meno di due metri da loro. Per quelle donne lei era un mero accessorio, senza importanza, insignificante. Ma non le importava, non le importava di nessuna di loro. C’era soltanto un motivo per cui quotidianamente, alle otto in punto, si trascinava fino a quella macchina.

    Era stufa marcia della routine, di sfinirsi con la ginnastica aspettando il momento giusto per fare la sua mossa. Con la coda dell’occhio vide le tipiche Nike dorate salire sull’ellittica accanto a lei. Raddrizzò le spalle e si finse assorta nella lettura della rivista piazzata strategicamente sul supporto della sua macchina. Si voltò per rivolgere alla deliziosa donna bionda un sorriso timido che le valse un educato cenno d’assenso. Allungò una mano per prendere la bottiglia dell’acqua, spostando volutamente il piede verso il bordo dell’ellittica, e scivolò facendo cadere la rivista, che finì sotto il pedale della cyclette della sua vicina.

    «Oddio, mi dispiace tanto» disse, arrossendo.

    Prima che avesse il tempo di scendere, l’altra smise di pedalare e le raccolse il periodico. Amber la guardò aggrottare la fronte.

    «Stai leggendo is?» chiese la donna, restituendoglielo.

    «Sì, è la rivista della fondazione per la fibrosi cistica. Esce due volte all’anno. La conosci?»

    «Sì. Lavori nel campo medico?»

    Amber posò lo sguardo sul pavimento, poi lo riportò su di lei. «No. Mia sorella minore aveva la fibrosi.» Lasciò che le parole aleggiassero nell’aria in mezzo a loro.

    «Oh, scusa, sono stata maleducata. Non sono affari miei» disse la donna, poi tornò sull’ellittica.

    Amber scosse il capo. «No, è tutto a posto. Conosci qualcuno con la fibrosi cistica?»

    Gli occhi della donna erano colmi di sofferenza quando la fissò. «Mia sorella. L’ho persa vent’anni fa.»

    «Mi dispiace. Quanti anni aveva?»

    «Solo sedici, due meno di me.»

    «Charlene ne aveva quattordici.» Rallentando, Amber si asciugò gli occhi con il dorso della mano. Serviva parecchio talento attoriale per piangere per una sorella mai esistita. Le sue tre sorelle erano vive e vegete, benché non parlasse con loro da due anni.

    La cyclette della donna si fermò. «Stai bene?» le domandò.

    Amber tirò su con il naso e si strinse nelle spalle. «È ancora molto dura, persino dopo tanti anni.»

    L’altra le rivolse una lunga occhiata, come se stesse cercando di prendere una decisione, poi le tese la mano.

    «Mi chiamo Daphne Parrish. Cosa ne diresti se uscissimo di qui per andare a farci una bella chiacchierata davanti a una tazza di caffè?»

    «Sei sicura? Non voglio interrompere il tuo allenamento.»

    Daphne annuì. «Sì, mi piacerebbe davvero parlare con te.»

    Amber le rivolse quello che sperava sembrasse un sorriso grato e scese dalla macchina. «Splendida idea.» Stringendole la mano aggiunse: «Io sono Amber Patterson. Lieta di conoscerti».

    Più tardi, quella sera, Amber era immersa nella vasca da bagno piena di bolle, sorseggiando un bicchiere di Merlot e fissando la foto sulla rivista Entrepreneur. Sorridendo la posò, chiuse gli occhi e appoggiò la testa sul bordo della vasca. Era molto soddisfatta di come erano andate le cose quel giorno, inoltre Daphne le aveva facilitato il compito. Dopo i convenevoli davanti a un caffè erano passate al vero motivo per cui Amber aveva attirato la sua attenzione.

    «È impossibile capire, per chi non ha sperimentato l’FC» aveva affermato Daphne, gli occhi azzurri che brillavano di passione. «Julie non è mai stata un fardello per me, ma al liceo i miei amici mi spingevano continuamente a lasciarla indietro, a impedirle di venire con noi. Non capivano che non sapevo quando sarebbe stata ricoverata in ospedale e persino se ne sarebbe mai uscita. Ogni istante era prezioso.»

    Amber si era allungata in avanti, sforzandosi di apparire interessata mentre calcolava il valore degli orecchini di diamanti a lobo di Daphne, del braccialetto tennis sul suo polso, dell’enorme brillante sul suo dito abbronzato e dalla manicure impeccabile. Doveva avere almeno centomila dollari sparsi sul suo corpo taglia 38 e non riusciva a fare altro che lamentarsi della sua tragica infanzia. Lei aveva soffocato uno sbadiglio e le aveva rivolto un sorriso tirato.

    «Lo so. Io restavo sempre a casa da scuola per fare compagnia a mia sorella in modo che la mamma potesse andare al lavoro. Ha rischiato il licenziamento, da quanti permessi si prendeva, e l’ultima cosa che potevamo permetterci era che perdesse l’assicurazione sanitaria.» Era molto compiaciuta della facilità con cui la bugia le era uscita di bocca.

    «Oh, è terribile.» Daphne sembrava davvero molto partecipe. «È un altro dei motivi per cui la fondazione è così importante, per me. Forniamo aiuto finanziario alle famiglie che non possono permettersi l’assistenza di cui hanno bisogno; è sempre stato parte integrante della missione della Julie’s Smile.»

    Amber si era finta scioccata. «La Julie’s Smile è la tua fondazione? Si tratta della stessa Julie? So tutto al riguardo, seguo da anni quello che fate. Avete la mia totale ammirazione.»

    Daphne aveva annuito. «L’ho creata subito dopo la scuola di specializzazione. In realtà mio marito è stato il mio primo benefattore.» Un sorriso, forse con una punta di imbarazzo. «È così che ci siamo conosciuti.»

    «Non vi state preparando per una grande raccolta fondi in questo periodo?»

    «Sì, mancano ancora alcuni mesi, ma c’è parecchio da fare. Magari... oh, non importa.»

    «No, cosa?» aveva insistito Amber.

    «Be’, mi chiedevo se ti piacerebbe dare una mano. Sarebbe bello avere qualcuno che capisce...»

    «Sarei felice di aiutarvi in qualsiasi modo» l’aveva interrotta Amber. «Non guadagno molto, ma ho decisamente del tempo da donare. Quello che state facendo è importantissimo. Quando penso alla differenza che fa...» Aveva sbattuto le palpebre per ricacciare indietro le lacrime.

    Un altro sorriso. «Ti ringrazio.» Poi Daphne aveva estratto un biglietto da visita su cui erano stampati il suo nome e indirizzo. «Tieni. Il comitato si riunisce a casa mia giovedì mattina alle dieci. Riesci a venire?»

    Amber le aveva rivolto un gran sorriso, sempre cercando di apparire estremamente interessata alla malattia. «Non me lo perderei per nulla al mondo.»

    2

    Il ritmo del treno del sabato da Bishops Harbor a New York cullò Amber in una piacevole fantasia ben lontana dalla ferrea disciplina della sua settimana lavorativa. Era seduta accanto al finestrino, la nuca premuta sul poggiatesta, e di tanto in tanto apriva gli occhi per dare un’occhiata al panorama che le sfilava accanto. Ripensò al suo primo viaggio in treno, quando aveva sette anni. Era luglio – il mese più caldo e afoso dell’estate, in Missouri – e l’impianto di condizionamento non funzionava bene. Rivedeva ancora la madre seduta di fronte a lei con un abito nero con le maniche lunghe, seria, la schiena dritta, le ginocchia accostate pudicamente. Aveva raccolto i capelli castano chiaro nella consueta crocchia, ma quel giorno portava un paio di orecchini, i piccoli orecchini di perle che riservava alle occasioni speciali. E Amber supponeva che il funerale della madre di sua madre meritasse la qualifica di occasione speciale.

    Quando erano scese dal treno nella sporca stazioncina di Warrensburg, l’aria si era rivelata persino più soffocante di quella a bordo. Ad aspettarle c’era zio Frank, il fratello di sua madre, e si erano stipate, a disagio, sul suo malconcio pickup azzurro. Quello che ricordava meglio era l’odore – un misto di sudore, terriccio e umidità – e il rivestimento del sedile pieno di strappi che le si conficcava nella pelle. Superarono sconfinati campi di granturco e piccole fattorie con case di legno consumate e aie piene di macchinari arrugginiti, vecchie auto su blocchi di cemento, pneumatici senza cerchioni e cassoni di metallo rotti. Era ancora più deprimente del posto in cui abitavano loro e Amber aveva rimpianto di non essere stata lasciata a casa come le sue sorelle. Secondo sua madre loro erano troppo giovani per un funerale, ma lei era abbastanza grande per porgere le condoglianze. Aveva rimosso la maggior parte di quell’orrendo weekend, ma l’unica cosa che non avrebbe mai dimenticato era lo spaventoso squallore che la circondava: il tetro soggiorno nella casa dei nonni, tutto marroni e gialli rugginosi; la corta barbetta ispida del nonno seduto sulla sua poltrona reclinabile, severo e arcigno, in canottiera consunta e pantaloni kaki pieni di macchie. Aveva individuato l’origine dell’atteggiamento privo di allegria e della mancanza di immaginazione materna. Era stato a quel punto, ancora giovanissima, che aveva cominciato a sognare qualcosa di diverso, e migliore.

    Quando l’uomo di fronte a lei si alzò urtandola con la sua ventiquattrore, aprì gli occhi e si rese conto che erano arrivati al terminal della Grand Central. Recuperò rapidamente borsa e giacca e si immise nella fiumana di passeggeri che scendevano. Non si stancava mai del percorso dai binari al magnifico atrio centrale, in così netto contrasto con la misera stazioncina di tanti anni prima. Se la prese comoda mentre passava davanti alle sfavillanti vetrine dei negozi che preannunciavano gli spettacoli e i suoni della città che l’attendeva lì fuori, poi lasciò l’edificio e coprì a piedi i pochi isolati lungo la Forty-Second Street, fino alla Fifth Avenue. Quel pellegrinaggio mensile le era ormai talmente familiare che avrebbe potuto farlo a occhi chiusi.

    La sua prima fermata era sempre la sala di lettura principale della New York Public Library. Si sedeva a uno dei lunghi tavoli, mentre il sole entrava dalle alte finestre, e assaporava la bellezza degli affreschi sul soffitto. Quel giorno si sentiva particolarmente confortata dai libri che rivestivano le pareti; le rammentavano che qualsiasi conoscenza lei potesse desiderare era a sua completa disposizione. Sarebbe rimasta lì seduta a leggere e a scoprire tutte le cose che avrebbero dato forma ai suoi piani. Vi si trattenne, immobile e silenziosa, per una ventina di minuti, finché fu pronta a tornare in strada e a risalire la Fifth Avenue.

    Oltrepassò con passo lento ma risoluto i negozi di lusso che si affacciavano sulla via. Versace, Fendi, Armani, Louis Vuitton, Harry Winston, Tiffany & Co., Gucci, Prada e Cartier, le boutique più prestigiose e costose del mondo si susseguivano una dopo l’altra. Era entrata in tutte, aveva inalato l’aroma di pellame morbido e la fragranza di profumi esotici, si era strofinata addosso le creme vellutate e i costosi unguenti racchiusi in tester riccamente decorati.

    Si lasciò alle spalle Dior e Chanel e si fermò ad ammirare un aderente abito nero e argento che fasciava il manichino nella vetrina. Lo fissò immaginandosi con quel vestito indosso, i capelli raccolti, il trucco impeccabile, mentre entrava in una sala da ballo sotto braccio al marito, l’invidia di ogni donna a cui passava accanto. Proseguì verso nord fino a raggiungere il negozio di Bergdorf Goodman e l’intramontabile Hotel Plaza. Fu tentata di salirne i gradini rivestiti con la passatoia rossa fino all’atrio imponente, ma era l’una passata e aveva fame. Si era portata uno spuntino leggero da casa, visto che non poteva certo permettersi di spendere sia per il museo sia per il pranzo a Manhattan i soldi faticosamente guadagnati. Attraversò la Fifty-Eighth Street raggiungendo Central Park, si sedette su una panchina rivolta verso la strada trafficata e prese dallo zaino una piccola mela e un sacchetto pieno di uvetta e nocciole. Mangiò lentamente mentre osservava le persone che passavano spedite e pensò per la centesima volta a com’era felice di aver evitato la squallida esistenza dei genitori, le conversazioni banali, la prevedibilità del tutto. Sua madre non aveva mai capito le sue ambizioni; sosteneva che si stesse montando troppo la testa, che quel modo di pensare sarebbe riuscito solo a metterla nei guai. E poi Amber gliel’aveva fatta vedere e aveva finalmente abbandonato tutto, anche se forse non nella maniera programmata.

    Finì di mangiare e attraversò il parco raggiungendo il Metropolitan Museum of Art, dove avrebbe trascorso il pomeriggio prima di prendere un treno serale per tornare nel Connecticut. Negli ultimi due anni aveva percorso ogni centimetro del Met, sedendosi ad ascoltare conferenze, studiando le opere d’arte, e guardando filmati su di esse e sui loro autori. All’inizio era rimasta sgomentata di fronte alla vastità della propria ignoranza, ma poi, metodicamente, aveva proceduto un passo alla volta, leggendo su libri presi in prestito tutto il possibile sull’arte, la sua storia e i suoi maestri. Ogni mese, provvista di nuove informazioni, tornava a visitare il museo per vedere di persona ciò di cui aveva letto. Ormai era in grado di sostenere una conversazione discretamente intelligente con chiunque, a parte il critico d’arte più esperto. Dal giorno in cui aveva lasciato quell’affollata casa nel Missouri aveva creato una Amber nuova e migliorata, che si sarebbe sentita a proprio agio con i super-ricchi. E fino a quel momento il suo piano stava rispettando i tempi.

    Dopo un po’ salì nella galleria che di solito rappresentava la sua ultima sosta e rimase ferma a lungo davanti a un piccolo studio di Tintoretto. Non avrebbe saputo dire quante volte aveva osservato quello schizzo, ma il credit le si era impresso nel cervello: Dono dalla collezione di Jackson e Daphne Parrish. Si girò con riluttanza per puntare verso la nuova mostra di Aelbert Cuyp. Aveva letto l’unico libro su Cuyp presente sugli scaffali della biblioteca di Bishops Harbor. Era un artista che non aveva mai sentito nominare ed era rimasta stupita scoprendo quanto fosse prolifico e famoso. Attraversò lo spazio espositivo e arrivò al dipinto che aveva tanto ammirato nel libro e aveva sperato fosse incluso nella mostra, Il Maas a Dordrecht in una tempesta. Era addirittura più splendido di quanto avesse creduto.

    Una coppia anziana era immobile accanto a lei, ipnotizzata dal quadro.

    «Magnifico, vero?» chiese la donna ad Amber.

    «Ancor più di quanto avessi immaginato» rispose.

    «È molto diverso dai suoi paesaggi» sottolineò l’uomo.

    Lei continuò a fissare l’opera mentre ribatteva: «Sì, ma lui ha dipinto molte splendide viste di porti olandesi. Sapevate che si è cimentato anche con scene bibliche e ritratti?»

    «Davvero? Non ne avevo idea.»

    Forse dovreste informarvi, prima di venire a una mostra, pensò Amber, ma si limitò a sorridere ai due e ad allontanarsi. Adorava riuscire a sfoggiare il suo alto livello di competenza. Ed era convinta che anche un uomo come Jackson Parrish, che si vantava del proprio senso estetico, lo avrebbe adorato.

    3

    Un’invidia biliosa serrò la gola di Amber quando vide l’elegante casa sul Long Island Sound. Il cancello bianco, spalancato all’ingresso della tenuta da vari milioni di dollari, lasciò il posto a una lussureggiante vegetazione e a rigogliosi cespugli di rose che traboccavano sopra il sobrio steccato, mentre la villa era un’immensa struttura a due piani in bianco e grigio. Le ricordò le lussuose residenze di villeggiatura a Nantucket e Martha’s Vineyard che aveva visto in fotografia. Si estendeva maestosa lungo la costa, splendidamente inserita sulla riva.

    Era il genere di villa gelosamente celata agli occhi di chi non si poteva permettere di vivere in quel modo. Ecco cosa ti consente la ricchezza, pensò. Ti fornisce i mezzi e il potere necessari per nasconderti al mondo, se scegli di farlo, o ne hai bisogno.

    Parcheggiò la sua Toyota Corolla vecchia di dieci anni che sarebbe parsa fuori posto fra gli ultimi modelli di Mercedes e BMW che presto avrebbero costellato il cortile. Per un attimo chiuse gli occhi e rimase lì seduta a trarre respiri lenti e profondi e a passare mentalmente in rassegna le informazioni memorizzate nel corso delle ultime settimane. Quella mattina si era vestita con cura, i lisci capelli castani tirati indietro con una fascia color tartaruga e il trucco essenziale: solo un vago accenno di blush sulle guance e un pizzico di lucidalabbra quasi trasparente. Portava una gonna di twill beige accuratamente stirata e una maglia di cotone bianca a maniche lunghe, entrambe ordinate da un catalogo economico. I sandali erano robusti e semplici, pratiche calzature adatte a camminare e prive di qualsiasi tocco di femminilità. I brutti occhiali dalla montatura massiccia trovati all’ultimo momento completavano il look a cui mirava. Quando, prima di uscire, si era guardata un’ultima volta allo specchio era rimasta soddisfatta: sembrava insulsa, persino scialba, qualcuno che nemmeno in un milione di anni avrebbe potuto rappresentare una minaccia per chicchessia, e soprattutto non per una donna come Daphne Parrish.

    Pur consapevole del rischio di apparire maleducata, si era presentata con un leggero anticipo che le avrebbe consentito di passare un po’ di tempo da sola con Daphne e di arrivare prima di tutte le altre donne, sempre sulle spine quando venivano fatte le presentazioni. Loro l’avrebbero giudicata giovane e insipida, una semplice ape operaia verso la quale Daphne si era degnata di tendere la mano per offrirle l’onore di aiutarla nei suoi sforzi caritatevoli.

    Aprì la portiera e scese sul vialetto di pietrisco. Sembrava che i frammenti di sasso che attutivano i suoi passi fossero stati misurati a uno a uno per verificarne uniformità e purezza, e rastrellati e lucidati alla perfezione. Mentre si avvicinava alla casa si concesse il tempo di esaminare la tenuta e la villa. Si rese conto che sarebbe entrata dal retro – il davanti, naturalmente, affacciava sull’acqua – che era comunque incantevole. Alla sua sinistra spiccava un pergolato bianco ornato dall’ultimo glicine dell’estate dietro cui erano sistemate due panchine. Aveva letto di quel tipo di ricchezza, aveva osservato innumerevoli foto sulle riviste e nei tour online nelle ville delle star del cinema e dei super-ricchi, ma era la prima volta che la toccava con mano.

    Salì gli ampi gradini di pietra antistanti l’ingresso e suonò il campanello. La porta era enorme, con grandi pannelli di vetro molato che le consentirono di intravedere il lungo corridoio che si spingeva fino alla facciata anteriore della villa. Riuscì a distinguere l’azzurro abbagliante dell’acqua e poi, di colpo, Daphne comparve sulla soglia, sorridendole.

    «È un piacere vederti. Sono così felice che tu sia potuta venire» disse, prendendole la mano nelle sue e accompagnandola dentro.

    Amber le rivolse il sorriso timido che si era esercitata a fare davanti allo specchio del bagno. «Grazie di avermi invitato, Daphne. Sono davvero eccitata all’idea di rendermi utile.»

    «E io sono entusiasta che tu collabori con noi. Seguimi, ci riuniremo nella veranda» replicò l’altra mentre raggiungevano una grande stanza ottagonale con finestre a tutta parete e chintz estivi dai colori accesi. Le portefinestre erano aperte e Amber inspirò l’inebriante profumo di aria marina salmastra.

    «Prego, accomodati. Abbiamo pochi minuti prima che arrivino le altre» aggiunse Daphne.

    Amber si abbandonò sul lussuoso divano mentre la padrona di casa accomodò di fronte a lei su una delle poltrone gialle in perfetta armonia con l’arredo semplice ed elegante. Amber trovava irritante l’agio nei confronti della ricchezza e del privilegio che Daphne trasudava, come se fosse un suo diritto di nascita. Sembrava uscita da Town & Country con i suoi pantaloni grigi e la camicetta di seta dal taglio impeccabile, e unici gioielli i grossi orecchini di perla a lobo. I lucenti capelli biondi formavano morbide onde che le incorniciavano il viso aristocratico. Amber immaginò che abiti e orecchini valessero almeno tremila dollari, senza contare l’enorme solitario al dito o il Tank di Cartier; probabilmente ne aveva un’altra dozzina nel portagioielli al piano di sopra. Guardò il proprio orologio – un economico modello da grande magazzino – e si accorse che sarebbero rimaste sole per altri dieci minuti.

    «Grazie ancora per avermi permesso di aiutarti, Daphne.»

    «Sono io a dover ringraziare te. Non ci sono mai troppe mani. Insomma, tutte le donne sono fantastiche e lavorano sodo, ma tu capisci la situazione perché ci sei passata.» Daphne si spostò sulla poltrona. «L’altro giorno abbiamo parlato molto delle nostre sorelle, ma poco di noi. So che non sei di queste parti, mi sembra di ricordare che sei nata nel Nebraska, giusto?»

    Amber aveva provato e riprovato con cura la propria storia. «Sì, esatto. Sono originaria del Nebraska, ma me ne sono andata dopo la morte di mia sorella. Una mia cara amica ed ex compagna di scuola frequentava il college qui. Quando è tornata a casa per il funerale di Charlene ha detto che forse mi avrebbe giovato cambiare vita, ricominciare da capo, e naturalmente avremmo potuto contare l’una sull’altra. Aveva ragione, tutto ciò mi è stato di enorme aiuto. Abito a Bishops Harbor da quasi un anno, ma penso a Charlene ogni giorno.»

    Daphne la stava osservando attentamente. «Mi dispiace tantissimo, e ti capisco. Chi non l’ha provato non può immaginare quanto sia doloroso perdere una sorella. Anch’io penso a Julie ogni giorno, e a volte mi sento sopraffatta. Ecco perché il mio lavoro con la fibrosi cistica è così importante per me. Ho la fortuna di avere due figlie sane, ma ci sono moltissime famiglie afflitte da questa terribile malattia.»

    Amber prese la foto con la cornice in argento che raffigurava due bambine bionde e abbronzate che indossavano costumi da bagno coordinati ed erano sedute a gambe incrociate su un pontile, una accanto all’altra. «Sono le tue figlie?»

    Daphne lanciò un’occhiata alla fotografia e sorrise, indicando. «Sì, quella è Tallulah e questa è Bella. È stata scattata l’anno scorso, al lago.»

    «Sono adorabili. Quanti anni hanno?»

    «Tallulah dieci e Bella sette. Sono felice che possano contare l’una sull’altra» disse, lo sguardo che si velava. «Prego che sia sempre così.»

    Amber ricordava di aver letto che per riuscire a piangere a comando gli attori pensano alla cosa più triste possibile. Stava cercando di evocare un ricordo adatto, ma la cosa più deprimente a cui riusciva a pensare era di non essere lei a sedere sulla poltrona di Daphne e di non possedere quella villa incredibile. Fece comunque del proprio meglio per sembrare abbattuta mentre rimetteva la foto sul tavolino.

    In quel momento il campanello suonò e Daphne andò ad aprire. Uscendo dalla stanza disse: «Serviti pure di caffè o tè. E ci sono anche dei dolcetti. È tutto sul buffet».

    Amber si alzò e sistemò la borsa sulla sedia accanto a quella di Daphne, contrassegnandola come sua. Mentre si versava una tazza di caffè le altre cominciarono a entrare alla spicciolata, fra saluti calorosi e abbracci. Odiava il chiocciare dei gruppetti di donne, simili a galline schiamazzanti.

    «Ciao a tutte.» La voce di Daphne si levò al di sopra del chiacchiericcio e quelle si zittirono. Raggiunse Amber e la cinse con un braccio. «Voglio presentarvi un nuovo membro del comitato, Amber Patterson, che rappresenterà una magnifica aggiunta alla nostra squadra. Purtroppo è un’esperta, in questo campo: sua sorella è morta di fibrosi cistica.»

    Lei abbassò gli occhi e nella veranda si levò un mormorio di solidarietà.

    «Perché non ci sediamo in modo che ognuna di voi possa presentarsi?» propose Daphne. Con tazza e piattino in mano si accomodò, guardò la foto delle figlie e la girò appena. Amber spostò lo sguardo da una donna all’altra mentre, a turno, sorridevano e dicevano il proprio nome, Lois, Bunny, Faith, Meredith, Irene e Neve. Erano tutte in tiro, ma due in particolare attirarono la sua attenzione. Bunny, una taglia 38, aveva lunghi capelli biondi e grandi occhi verdi truccati in modo da farne risaltare la bellezza. Era perfetta sotto ogni punto di vista, e lo sapeva. Amber l’aveva osservata allenarsi come un’ossessa in palestra, in calzoncini minuscoli e reggiseno sportivo, ma Bunny la fissò con sguardo vitreo, come se non l’avesse mai vista in vita sua. Lei avrebbe voluto dirle: Oh, sì, ti conosco. Sei quella che si vanta con le amiche di mettere le corna al marito.

    E poi c’era Meredith, che stonava con le altre. Indossava vestiti costosi ma poco appariscenti. Portava piccoli orecchini d’oro e un unico filo di perle ingiallite sopra il maglioncino marrone. La sua gonna di tweed appariva poco elegante, non abbastanza lunga né abbastanza corta per essere alla moda. Con il procedere della riunione divenne chiaro che lei non si distingueva solo per l’aspetto. Sedeva ben eretta sulla sedia, tenendo le spalle all’indietro e la testa alta, una postura che denotava ricchezza e alta estrazione sociale. E quando parlava rivelava giusto un lieve accento da scuola privata, sufficiente per far suonare le sue parole molto più sagaci di quelle delle altre mentre discutevano dell’asta silenziosa e dei premi che si erano assicurate fino a quel momento: vacanze in località esotiche, gioielli di diamanti, vini d’annata. L’elenco sembrava interminabile, ogni articolo più costoso del precedente.

    Quando l’incontro volgeva ormai al termine Meredith andò a sedersi accanto a lei. «Benvenuta alla Julie’s Smile, Amber. Mi dispiace tanto per tua sorella.»

    «Grazie» replicò semplicemente lei.

    «Tu e Daphne vi conoscete da molto?»

    «Oh, no. In realtà ci siamo appena conosciute in palestra.»

    «Che fortuna» commentò Meredith, con un tono difficile da decifrare. Stava fissando Amber e dava l’impressione di riuscire a leggerle dentro.

    «Un giorno fortunato per entrambe.»

    «Sì, direi.» Abbozzò un sorriso e si alzò dalla sedia. «È stato un vero piacere fare la tua conoscenza. Non vedo l’ora di approfondirla.»

    Amber percepì il pericolo, non nelle parole di Meredith bensì nel suo tono, ma forse se lo stava solo immaginando. Posò sul buffet la tazza di caffè ormai vuota e raggiunse le portefinestre che sembravano invitarla a uscire sul patio. Una volta fuori ammirò la vasta distesa del Long Island Sound. In lontananza intravide una barca con le vele gonfiate dal vento, uno spettacolo magnifico. Si spostò all’estremità opposta del patio, da dove si godeva di una visuale migliore sulla spiaggia sabbiosa sottostante. Quando si voltò per tornare dentro sentì arrivare dalla veranda la voce inconfondibile di Meredith.

    «Sul serio, Daphne, fino a che punto conosci questa ragazza? L’hai incontrata in palestra? Sai qualcosa del suo background?»

    Rimase immobile in silenzio.

    «Meredith, insomma, tutto quello che mi serve sapere è che sua sorella è morta di fibrosi cistica. Di cos’altro hai bisogno? Ha un interesse personale nel raccogliere soldi per la fondazione.»

    «Hai fatto qualche controllo su di lei?» chiese Meredith, sempre scettica. «Sai, famiglia, istruzione, quel genere di cose.»

    «Questo è un lavoro volontario, non una nomina alla Corte Suprema. La voglio nel comitato. Vedrai, si rivelerà un acquisto prezioso.»

    Amber colse l’irritazione nel tono di Daphne.

    «D’accordo, si tratta del tuo comitato. Non solleverò più la questione.»

    Sentì dei passi sul pavimento di piastrelle mentre le due donne lasciavano la stanza, poi entrò e spinse rapidamente il suo portafoglio sotto un cuscino del divano per dare l’impressione di averlo dimenticato. Conteneva gli appunti per la riunione e una fotografia infilata in una delle taschine. L’assenza di qualsiasi documento identificativo avrebbe costretto Daphne a frugare all’interno fino a trovare la foto. Ritraeva Amber a tredici anni durante una bella giornata, una delle poche in cui la madre era riuscita a lasciare la lavanderia per portarle al parco. Lei stava spingendo la sorella minore sull’altalena. Dietro aveva scritto Amber e Charlene, benché nella foto comparisse la sorella Trudy.

    Meredith sarebbe stata un problema. Si era detta ansiosa di conoscere meglio Amber. Be’, lei avrebbe fatto in modo che scoprisse il meno possibile. Non intendeva certo lasciarsi fregare da una snob dell’alta società. Si era assicurata che l’ultima persona che ci aveva provato avesse quel che meritava.

    4

    Amber stappò la bottiglia di Josh che aveva tenuto da parte. Era patetico essere costretta a razionare un Cabernet da dodici dollari, ma il misero stipendio che guadagnava nell’impresa immobiliare copriva a malapena il canone d’affitto. Prima di trasferirsi nel Connecticut aveva svolto le debite ricerche e scelto il suo bersaglio, Jackson Parrish; ecco com’era finita a Bishops Harbor. Certo, avrebbe potuto affittare un appartamento in una cittadina limitrofa per molto meno, ma abitare lì le forniva numerose occasioni di incontrare per caso Daphne Parrish, oltre all’accesso a tutte le fantastiche attrattive locali. E poi adorava essere così vicina a New York.

    Un sorriso le si aprì sul volto. Ripensò a quando aveva indagato su Jackson Parrish, inserendone il nome su Google per ore dopo aver letto un articolo sulla società di sviluppo immobiliare internazionale da lui fondata. Era rimasta senza fiato appena la sua fotografia aveva riempito lo schermo. Con i folti capelli neri, le labbra carnose e gli occhi blu cobalto, avrebbe potuto benissimo fare l’attore. Amber aveva cliccato su un articolo della rivista Forbes che parlava di lui e di come aveva messo in piedi la sua compagnia che compariva nella lista delle cinquecento principali società degli Stati Uniti, mentre il link seguente, un articolo su Vanity Fair, era dedicato al suo matrimonio con la bellissima Daphne, di dieci anni più giovane. Amber aveva fissato la fotografia delle loro adorabili figlie, scattata sulla spiaggia davanti a una sontuosa villa a scandole grigia e bianca. Aveva letto tutto quello che era riuscita a trovare sui Parrish, e quando aveva scoperto della Julie’s Smile aveva avuto l’idea. La prima fase del piano consisteva nel trasferirsi a Bishops Harbor.

    Se ripensava al modesto matrimonio che aveva cercato di organizzare nel Missouri le veniva da ridere. Quel tentativo era fallito miseramente, ma questa volta non avrebbe commesso gli stessi errori.

    Prese il bicchiere di vino e lo sollevò per brindare al suo riflesso sullo sportello del microonde. «Ad Amber.» Dopo aver bevuto un lungo sorso lo posò sul piano di lavoro.

    Aprì il laptop, digitò Meredith Stanton Connecticut nella barra di ricerca e la pagina si riempì di una serie di link sulle attività personali e filantropiche della donna. Meredith Bell Stanton era parte della famiglia Bell, che allevava purosangue da corsa. Stando agli articoli, l’ippica era la sua passione. Metteva in mostra i cavalli, li cavalcava, andava a caccia, saltava ostacoli e si dedicava a qualsiasi altra attività si potesse fare con quegli animali. Amber non ne rimase stupita. Meredith era la tipica amazzone appassionata.

    Fissò una fotografia che la immortalava insieme al marito, Randolph H. Stanton III, a una festa di beneficenza a New York. Decise che il vecchio Randolph dava l’impressione di avere un paletto infilato su per il culo, ma immaginava che il lavoro di banchiere fosse piuttosto arido. L’unico suo lato positivo erano i soldi, e sembrava che gli Stanton ne possedessero a vagonate.

    Poi cercò su Google Bunny Nichols, ma senza trovare granché. Quarta moglie di March Nichols, illustre avvocato newyorkese noto per la sua spietatezza, Bunny appariva straordinariamente simile alla seconda e alla terza. Amber intuì che per lui le ragazze bionde e festaiole fossero intercambiabili. Un articolo la definiva una ex modella. Davvero divertente. Aveva più l’aria di una ex spogliarellista.

    Bevve un ultimo sorso, tappò la bottiglia e si collegò a Facebook usando uno dei suoi profili falsi. Cercò l’unico profilo che controllava ogni sera per scoprire se c’erano nuove foto o eventuali aggiornamenti dello status. Trovò l’immagine di un bambino che con una mano stringeva una lunch box e con l’altra quella della ricca stronza. Primo giorno alla St. Andrew’s Academy e l’insulso commento: Mammina non è pronta, seguito da una faccina triste. La St. Andrew’s, la scuola che lei avrebbe tanto voluto frequentare. Fu tentata di scrivere: Mammina e papino sono dei luridi bugiardi, invece chiuse di scatto il computer.

    5

    Amber guardò il telefono che squillava e sorrise. Vedendo che si trattava di un numero privato immaginò che fosse Daphne e lasciò che rispondesse la segreteria telefonica. L’indomani lo sconosciuto chiamò di nuovo e lei ignorò la telefonata per la seconda volta. Probabilmente la donna aveva trovato il portafoglio. Quando ritelefonò, quella sera, finalmente Amber rispose.

    «Pronto» sussurrò.

    «Amber?»

    Un sospiro, poi un sommesso: «Sì?».

    «Sono Daphne. Stai bene? Sto cercando di contattarti già da un po’.»

    Lei emise un suono strozzato, poi parlò a voce più alta. «Ciao, Daphne. Sì, scusa. Ho avuto una giornata difficile.»

    «Cosa c’è? È successo qualcosa?» Amber colse la preoccupazione nella voce.

    «È l’anniversario.»

    «Oh, tesoro, mi dispiace. Ti andrebbe di venire qui? Jackson è fuori città. Potremmo stappare una bottiglia di vino.»

    «Davvero?»

    «Certo. Le bambine stanno già dormendo e se dovessero avere bisogno di qualcosa c’è una delle tate.»

    Certo che ha una delle tate anche di sera. Dio non voglia che debba alzare un dito. «Oh, Daphne, sarebbe magnifico. Posso portare qualcosa?»

    «No, soltanto te stessa. A

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1