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I conquistatori
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I conquistatori
E-book546 pagine7 ore

I conquistatori

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Info su questo ebook

L’autore di romanzi storici più venduto al mondo

Britannia, 44 d.C.

I barbari dell’isola non sono ancora stati del tutto sconfitti. Gli uomini della Seconda Legione hanno sofferto atroci perdite nella guerra di conquista, ma il peggio deve ancora arrivare. I soldati sono accerchiati, l’inverno incombe e una nuova minaccia si profila all’orizzonte. Il nuovo legato punta tutto su un’impresa rapida e disperata: sconfiggere la base nemica sull’isola di Vectis. Ma il centurione Orazio Figulo, che dispone di preziose informazioni sulle truppe barbare, teme che l’invasione possa rivelarsi più ardua del previsto. Tuttavia, ogni centurione sa che il nome e la gloria di Roma vanno difesi di fronte a ogni pericolo e a prezzo di qualsiasi sacrificio, anche della vita stessa. Comincia così l’inarrestabile, epica impresa della conquista romana della Britannia, egregiamente narrata dalla penna di Simon Scarrow.

L’autore di romanzi storici più venduto nel mondo

Oltre 1 milione di copie

Se non conosci Scarrow non conosci Roma

«Il miglior scrittore di romanzi storici? Simon Scarrow.»
Corriere della Sera

«Un romanzo storico ricco di vividi dettagli e di azione incalzante: un capolavoro di realismo militare.»
Adnkronos

«Una prosa incalzante e una profonda conoscenza della storia antica.»
Daily Mail
Simon Scarrow
È nato in Nigeria. Dopo aver vissuto in molti Paesi si è stabilito in Inghilterra. Per anni si è diviso tra la scrittura, sua vera e irrinunciabile passione, e l’insegnamento. È un grande esperto di storia romana. Il centurione, il primo dei suoi romanzi storici pubblicato in Italia, è stato per mesi ai primi posti nelle classifiche inglesi. Scarrow è autore dei romanzi Sotto l’aquila di Roma, Il gladiatore, Roma alla conquista del mondo, La spada di Roma, La legione, Roma o morte, Il pretoriano, La battaglia finale, Il sangue dell’impero, La profezia dell’aquila, L'aquila dell'impero, Sotto un unico impero, Roma sangue e arena. La saga e La spada e la scimitarra, oltre alla serie I conquistatori, solo in ebook, tutti pubblicati dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2016
ISBN9788854192195
I conquistatori
Autore

Simon Scarrow

Simon Scarrow teaches at City College in Norwich, England. He has in the past run a Roman history program, taking parties of students to a number of ruins and museums across Britain. He lives in Norfolk, England, and writes novels featuring Macro and Cato. His books include Under the Eagle and The Eagle's Conquest.

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    Anteprima del libro

    I conquistatori - Simon Scarrow

    en

    1182

    Tutti i personaggi di questo romanzo, tranne quelli chiaramente storici, sono immaginari e qualunque analogia con persone reali, esistenti o esistite, è puramente casuale.

    Titolo originale: Invader. Death Beach; Invader. Blood Enemy; Invader. Dark Blade; Invader. Imperial Agent; Invader. Sacrifice

    The right of Simon Scarrow to be identified as the Author of the Work han been asserted by him in accordance with the Copyright, Designs and Patents Act 1988.

    Copyright © 2014, 2015 Simon Scarrow

    I romanzi della Invader Saga qui raccolti sotto il titolo di I conquistatori sono stati già pubblicati in ebook.

    First published in English language in Great britain in 2014 by Headline Publishing Group

    Traduzione dall’inglese di Elena Papaleo, Francesca Noto, Maria Cristina Cesa

    Prima edizione ebook: aprile 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9219-5

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Simon Scarrow

    con T.J. Andrews

    I conquistatori

    La battaglia della morte - Il sangue del nemico - Il richiamo della spada - L'erede al trono - Muori per Roma

    omino

    Newton Compton editori

    L’organizzazione dell’esercito romano in Britannia, 44 d. c.

    Come ogni altra legione, i combattenti della Seconda Legione erano considerati i migliori soldati dell’antichità. Altamente qualificati, ben equipaggiati e disciplinati, erano soggetti a un severo regime di addestramento detto anche combattimento senza spargimento di sangue. Da loro, però, ci si aspettava anche altro: che fossero in grado di costruire forti e accampamenti, strade e ponti, e che svolgessero molti altri incarichi in tempo di pace nelle province conquistate. Spesso costretto a trascorrere più anni consecutivi alle frontiere più pericolose dell’impero, il legionario agiva allo stesso tempo da soldato, ingegnere e amministratore.

    Uno dei motivi del successo delle legioni sul campo risiedeva nella loro efficiente struttura. Ognuna di esse era composta da circa cinquemilacinquecento uomini. La centuria, costituita da ottanta legionari, era l’unità militare di base. Sei centurie formavano una coorte e dieci coorti una legione. La Prima Coorte contava un numero doppio di uomini rispetto alle altre. A comandare quell’impressionante esercito era il legato, solitamente un aristocratico in ascesa sulla scena politica di Roma, coadiuvato da sei tribuni e un tribuno militare, tutti di estrazione sociale elevata. Seguivano i centurioni, spina dorsale della legione, severi ufficiali che comandavano una centuria ciascuno. Subordinato a ciascun centurione c’era un vice, l’optio.

    12

    La Britannia nel 44 d.C. 

    3

    Vectis. 

    4

    La guarnigione romana a Lindinius nel 44 d.C.

    La battaglia della morte

    CAPITOLO UNO

    Calleva, 44 d.C.

    Una gelida folata attraversò il padiglione del quartier generale, quando il nuovo legato della Seconda legione varcò a passo svelto l’ingresso.

    «Attenti!», tuonò il prefetto dell’accampamento agli ufficiali seduti all’interno. «Ecco il legato». Gli ufficiali si zittirono e balzarono in piedi all’istante restando sull’attenti, mentre il legato gli marciava davanti. Lucio Eliano Celere annuì al prefetto. L’aria frizzante della notte gli aveva intorpidito mani e faccia. Era arrivato solo di recente da Roma per assumere il comando della legione e le condizioni penose dell’isola lo avevano quasi scioccato. Ogni giorno che passava si ritrovava ad agognare il delizioso calore della sua terra natia, la Campania. Superato il senso di freddo, Celere si avvicinò a una mappa su cartapecora, fissata a una cornice di legno davanti alla fila degli ufficiali radunati. Un giovane tribuno angusticlavio avanzò di un passo dal lato della mappa e gli porse un’asticella di legno. Celere lanciò un’occhiata al prefetto e drizzò le spalle.

    «Grazie, Quinto Silano». Il prefetto annuì. Voltandosi verso di ufficiali, Celere gli parlò con voce melliflua da aristocratico. «Riposo, signori».

    Mentre gli uomini riuniti si sedevano, nella tenda incombeva un silenzio inquietante. Persino al pallido bagliore delle lampade a olio Celere notò l’ansia impressa sui loro volti. Non era trascorso neppure un mese da quando la Seconda legione, sotto la guida del suo predecessore Vespasiano, aveva sconfitto Carataco, re dei Catuvellauni e capo di quelle tribù locali che avevano scelto di resistere agli invasori romani. Dopo una lunga e sanguinosa campagna, alla fine Vespasiano aveva sbaragliato l’esercito di Carataco in una violenta battaglia campale. La vittoria però era costata cara: la Seconda legione aveva subito gravi perdite e Carataco era fuggito. La stagione delle campagne militari era giunta al termine, l’inverno era alle porte e i soldati avrebbero trascorso i pochi mesi successivi imbottigliati nel forte legionario fino a primavera. Celere si schiarì la gola.

    «È una notte fredda, signori, perciò sarò breve», dichiarò. «Nelle ultime settimane abbiamo ricevuto numerosi resoconti di attacchi alle nostre postazioni a sud. Le pattuglie in ricognizione sono cadute in un’imboscata, i fortini rasi al suolo e i depositi delle forniture navali saccheggiati. E non si tratta di occasionali assalti di fortuna ma di una vera campagna di attacchi coordinati. La situazione è così grave che, per quanto ne so, al momento i mercanti greci si rifiutano persino di condurre affari fuori dai nostri accampamenti legionari». Quest’ultima costatazione causò un riso soffocato tra i presenti. Celere tacque e accennò un sorriso prima di continuare. «So che alcuni di noi hanno sperato che la sconfitta di Carataco portasse la pace in questo paese arretrato, eppure dopo la sua fuga sembra che i nostri nemici abbiano ritrovato coraggio. I Durotrigi si sono impegnati a raddoppiare la resistenza al nostro inevitabile dominio. Il mio illustre predecessore, Vespasiano, può aver conquistato questo territorio, ma non è riuscito a domarlo – un errore che intendo correggere».

    Celere si voltò verso la mappa raffigurante la vasta area della Britannia del sud, in teoria sotto il controllo dei Romani, che si estendeva a est dalla base navale di Rutupiae lungo tutto il corso del fiume Tamesis passando per Calleva fino ai margini della regione montuosa a ovest. Celere annuì, guardando la mappa.

    «Le nostre fonti di spionaggio rivelano che gli attacchi sono opera dei guerrieri durotrigi attivi dall’isola di Vectis». Con l’asticella indicò un’isola cuneiforme situata poche miglia a sud dalla terraferma. «La scorsa estate durante la campagna lampo di Vespasiano sul loro territorio, un numero consistente di nemici è riuscito a fuggire dalle fortezze di collina. Nella fretta di avanzare a ovest, tuttavia, Vespasiano si è dimenticato di tornare indietro e occuparsi di quella plebaglia, consentendogli dunque di ritirarsi con successo a Vectis».

    Celere si voltò di nuovo verso gli ufficiali stringendo l’asticella così forte che le sue nocche sbiancarono. Proseguì.

    «Dalla loro base a Vectis, onda dopo onda, il nemico è stato in grado di lanciare attacchi sulla terraferma ritirandosi sull’isola prima che le nostre truppe fossero davvero pronte al contrattacco. Signori, è di vitale importanza conquistare quell’isola una volta per tutte e impedire che i Durotrigi continuino a usarla come base per attaccare la nostra catena di approvvigionamenti lungo la costa. Di conseguenza, domani all’alba la Quinta, la Sesta, la Settima e la Nona coorte marceranno fino al porto navale a ovest di Noviomagus Regnorum. Mentre noi parliamo, una dozzina di galee e navi sussidiarie della flotta britannica sta già salpando verso il porto da Rutupiae. Una volta arrivati, ci imbarcheremo, caricheremo le scorte e faremo rotta per Vectis».

    Alla prospettiva di combattere di nuovo, nonostante il freddo pungente dei mesi invernali ormai prossimi, tra gli uomini si levò qualche mormorio. Molti ufficiali si scambiarono occhiate diffidenti. Un gruppetto nelle file posteriori bofonchiò qualcosa. Celere rimase impassibile, poi sollevò una mano per richiamare in fretta il silenzio.

    «Grazie al cielo, la Fortuna splende su di noi. Nelle ultime settimane, le nostre venti guide locali stanno raccogliendo in segreto notizie sul nemico sull’isola di Vectis. Hanno riferito che i Durotrigi non hanno fortificazioni difensive degne di questo nome». Celere ridacchiò sotto i baffi. «In verità, stanno cercando di costruire una fortezza di collina prima dell’inverno. Se agiamo ora, possiamo prendere il fortino prima che i Durotrigi abbiano l’opportunità di completarlo, sgominare i nemici e tornare all’accampamento prima dell’arrivo delle tempeste». Osservò gli uomini con un sorriso compiaciuto. «Il vantaggio è dalla nostra. Siamo più forti in termini numerici. Il nemico non avrà scampo. Inoltre, una flotta di navi in avanscoperta si è posizionata lungo la costa bloccandogli le forniture dai loro sostenitori sulla terraferma. A queste condizioni, la caduta di Vectis sarà una passeggiata. Certo, non mancheranno sacche di resistenza da stroncare. Ma una volta piegate, inizieremo a spartirci il bottino».

    L’umore si sollevò in fretta solo accennando al guadagno delle spoglie di guerra. Ogni ufficiale, Celere lo sapeva, era pronto a ricevere una somma ragguardevole grazie ai nativi catturati, che sarebbero stati imbarcati alla volta della Gallia e venduti come schiavi, per non parlare poi del bottino delle armi riccamente decorate e dei gioielli accumulati dall’aristocrazia locale.

    «Sbarcheremo qua», con l’asticella indicò un lembo di terra sulla costa est dell’isola. «Il nemico non si aspetterà un attacco da est. In base ai miei ordini, gli esploratori hanno divulgato informazioni false ai Durotrigi: credono che ci avvicineremo dalla via più ovvia: da nord». Spostò l’asticella fino al centro dell’isola, a un’insenatura che si allungava verso la costa nord. «La parte est di Vectis sarà per lo più indifesa, tranne forse per qualche presenza di poco conto.»

    Celere colse una smorfia nella fila anteriore. L’uomo aveva occhi azzurro intenso, un naso aquilino e indossava un mantello importante. «Tribuno Palino?»

    «Sissignore». L’uomo sollevò lo sguardo e sbatté le palpebre.

    «Sarai a capo della Quinta coorte. I tuoi uomini sbarcheranno per primi e metteranno al sicuro la spiaggia prima dell’arrivo della truppa principale. Pensi di riuscirci?».

    Pieno d’orgoglio Palino gonfiò il petto e rispose: «Sissignore, conta su di me. Non ti deluderò».

    «Bene». Celere gli regalò un lieve sorriso prima di guardare il resto degli uomini. «Orbene, domande?»

    Un centurione dal fondo alzò la mano. Era un uomo basso e pallido, con ricci scuri e senza le cicatrici di molti dei suoi commilitoni. Celere l’osservò con freddezza.

    «Prego. Centurione Ocella, giusto?»

    «Sissignore». Ocella iniziò con cautela: «Quante milizie affronteremo?»

    «Secondo gli esploratori, al massimo diverse centinaia», rispose Celere con noncuranza per non rovinare il buonumore della folla. «Una ragione in più per muoversi adesso, prima di dargli il tempo di trincerarsi e aumentare di numero. Certo, preferirei attaccare con più uomini ma, come ben sapete, dopo il recente scontro con Carataco la legione è alla stregua delle forze. Alcune delle vostre stesse unità hanno subito ingenti perdite. Saranno rimpiazzate dalle riserve arrivate di recente da Gesoriacum». Il legato piegò la testa in direzione del prefetto. «Silano sta sovrintendendo al loro addestramento e mi assicura che gli uomini sono pronti alla battaglia. Vero, Silano?»

    «Sissignore. Pronti, ora e per sempre», replicò il prefetto con prudenza.

    «D’accordo». Celere annuì di colpo, poi restituì l’asticella all’attendente e drizzò le spalle. «Signori, se nella prossima campagna primaverile vogliamo progredire con l’avanzata, la conquista di Vectis è di vitale importanza. Il generale Plauzio ci ha ordinato di conquistare il territorio oltre i Durotrigi. Alcune tribù di quella regione lontana hanno già inviato dei messi a Calleva per sollecitare la pace». Il legato sorrise. «Sembra proprio che la nostra strategia di guerra totale contro i Durotrigi abbia scosso i loro vicini. Il che è un bene, giacché l’imperatore è molto impaziente che questa terra selvaggia sia pacificata e cominci a pagare tributo». All’improvviso indurì lo sguardo. «Tuttavia non potremo avanzare a ovest fintanto che la nostra catena di supporto sulle retrovie resterà esposta alle incursioni. Altre domande?».

    Si guardò intorno nel padiglione. Nessuno rispose e Celere annuì soddisfatto. «Bene». Poi fece un cenno all’ufficiale seduto al centro della fila anteriore vicino al tribuno Palino. Tutti gli occhi si voltarono verso un uomo corpulento, quasi sovrappeso, con una carnagione scura che tradiva le sue radici dell’Italia meridionale.

    «In mia assenza, l’anziano tribuno laticlavio Aulo Vitellio assumerà il comando del resto della Seconda legione», disse Celere. «Alcuni di voi lo conoscono già dagli inizi dell’invasione. Di recente è tornato da Roma per unirsi alla Seconda. Il prefetto Silano lo sta riaggiornando sulla situazione».

    Vitellio rivolse un garbato sorriso al legato. «E io non vedo l’ora di adempiere ai miei doveri, signore», replicò con voce ferma, prima di voltarsi verso gli ufficiali e fissarli con sguardo glaciale. «Roma ha i suoi pregi. Ma devo ammettere che è un piacere tornare tra veri commilitoni».

    Sulle labbra di Celere apparve un sorriso forzato. «Sono convinto che nel frattempo il comando del tribuno Vitellio sarà eccellente».

    Un breve cenno del capo a Silano, poi il legato si diresse verso l’uscita del padiglione. Gli ufficiali si alzarono in simultanea e scattarono sull’attenti, mentre il legato usciva a passo deciso dalla tenda. Vitellio e gli attendenti del legato seguirono dappresso. Una volta che Celere e il suo entourage ebbero lasciato il quartier generale, Silano ordinò agli ufficiali di rompere le righe ricordandogli in tono aspro di raccogliere gli ordini scritti dai segretari del legato prima di tornare alle loro unità e dare istruzioni ai proprio uomini.

    Gli ufficiali uscirono in fila dal padiglione e si ritrovarono nel gelo della sera. Benché non fosse ancora inverno, il tempo stava peggiorando: un severo annuncio dei lunghi e duri mesi a venire. Mentre i militari si sparpagliavano verso le loro caserme, il centurione Ocella sbuffò con rabbia.

    «Magnifico», borbottò al suo optio, «assolutamente magnifico».

    «Cosa, signore?».

    Ocella si fermò sorpreso e guardò di traverso il suo nuovo subalterno. Era un uomo dal fisico imponente, spalle larghe con muscoli forti e tesi che quasi minacciavano di scoppiare sotto la tunica, e una cicatrice rosea sopra l’occhio destro. Ocella ritenne che con quei capelli arruffati e quelle guance dalla barba corta e ispida aveva semplicemente le sembianze di un bravo soldato qualunque. Eppure era diventato un optio, seppur mediocre. Era un disastro con le scartoffie quotidiane e i compiti amministrativi che spettavano a un ufficiale subalterno. Chi lo aveva promosso a quella carica doveva essere davvero disperato, sentenziò Ocella, o completamente pazzo. E ora lui non poteva sbarazzarsi di quell’uomo imponente proveniente dalla Gallia. Il suo ultimo optio era morto per l’infezione di una ferita alla gamba riportata nella battaglia contro l’esercito di Carataco e il legato aveva preso l’insolita decisione di affibbiargli quell’optio, impedendo al centurione l’usuale promozione di grado di uno dei suoi uomini. Un fatto che aumentava il suo sdegno nei confronti dell’uomo che aveva di fronte.

    «Tu a cosa diavolo pensi, Figulo?», ribatté Ocella in tono seccato, opponendosi al vento impetuoso. «A questa missione. Attraversare il mare con questo tempo schifoso, sarà un bel rischio. E per cosa? Per affrontare un gruppetto di patetici sbandati su una qualche isola sperduta». Imprecò sottovoce, poi distolse lo sguardo. «E nel frattempo la Quattordicesima e la Nona legione avranno un assaggio della vera azione a nord-ovest». Guardò di sfuggita il suo vice comandante. «E scommetto che ci saranno anche altre spoglie di guerra».

    Orazio Figulo si mostrò perplesso. Malgrado le parole forti del suo ufficiale in comando, l’optio percepì un barlume di paura nello sguardo del centurione ed era evidente che gli tremava la voce nel parlare. Figulo era stato abbastanza a lungo soldato a Roma per riconoscere Ocella come un soldato di forma, un tipo di ufficiale che preferiva le ispezioni dell’equipaggiamento e le serate a bere, giocare d’azzardo e andare a puttane piuttosto che fare il vero soldato sul campo di battaglia. E come con tutti i comandanti del genere, Figulo intuì che Ocella era spinto dal bisogno di dare prova del proprio valore davanti ai suoi commilitoni, a qualunque costo.

    Figulo si strinse nelle spalle. «Immagino che avremo cose ben peggiori di cui preoccuparci rispetto alla grandezza del bottino, signore».

    «Ah sì?», Ocella sollevò un sopracciglio. «Cosa intendi?».

    Figulo si grattò la barba. «I guerrieri durotrigi sono i più accaniti di tutta la Britannia, signore. Se a Vectis ce ne sono molti accampati, non cederanno senza prima combattere. Con o senza una fortezza di collina».

    «E da quando in qua sei diventato un esperto di Durotrigi?». Prima che Figulo potesse replicare, Ocella si accarezzò il mento e aggiunse: «Forse essere mezzo gallo ti fa immedesimare in quei selvaggi».

    A quell’insulto Figulo si inalberò ma tenne a freno la rabbia. Benché suo padre avesse prestato servizio nella coorte ausiliaria abbastanza a lungo da guadagnarsi la cittadinanza romana, crescendo suo figlio a fare altrettanto, Figulo andava piuttosto fiero delle sue radici galliche. Aveva trascorso l’infanzia nella città di Lutetia, nella sua Gallia natia, come nipote di un eduo degno di nota, prima di arruolarsi nella Seconda legione all’età di diciotto anni. Se qualcuno nella legione lo accusava di tradimento, Figulo era pronto a replicare che si considerava più romano della maggior parte dei Romani. Ma sebbene la sua devozione ai commilitoni fosse fuori discussione, sapeva che la verità era leggermente più torpida. In fondo al cuore avvertiva la sua ascendenza gallica e manteneva viva la memoria delle sue radici imparando la lingua locale, che era simile al gallico. Nelle ultime settimane a Calleva, aveva imparato a parlare in maniera fluente il dialetto del posto. Alcuni dei soldati semplici lo stuzzicavano e lo canzonavano in modo benevolo per i suoi antenati galli; Ocella preferiva lanciargli stoccate mal celate. Figulo rifiutava di abboccare all’esca e rispondeva in maniera educata.

    «Non solo, signore. Ci ho lottato contro, la scorsa estate, con Vespasiano. Li abbiamo costretti a lasciare le fortezze di collina, una dopo l’altra. Hanno condotto un’accanita resistenza, te lo assicuro. Persino le donne e i bambini. Avrebbero preferito morire piuttosto che arrendersi».

    «Davvero? Hai sentito le istruzioni del legato: la fortezza di collina è incompiuta, il loro rifornimenti sono stati interrotti e non si aspetteranno un attacco da est. Cosa mai potrebbe andare storto?».

    Nessuna risposta. Figulo guardò verso il perimetro difensivo del fortino di legno. Al di là si estendeva la città di Calleva, una massa disordinata di tetti di paglia che spuntavano oltre il bastione di terra. La Seconda legione era tornata al forte vicino Calleva solo dopo la recente campagna militare, eppure la città aveva già iniziato a seguire le usanze romane: erano state tracciate nuove strade intersecate ad angolo retto, secondo lo stile romano; erano stati aperti numerose taverne e postriboli per gli affari; e alcuni aristocratici locali si vestivano persino alla romana. Agli occhi di Figulo, il ritmo del cambiamento in quella parte della provincia era incalzante.

    Eppure, provava una certa ansia. Si voltò a guardare Ocella. «Spero di poterti dare ragione, signore. Ma credimi, la conquista di Vectis sarà molto più dura di quanto pensi…».

    CAPITOLO DUE

    Isola di Vectis, cinque giorni dopo

    Un grido lacerante squarciò l’aria quando una freccia sfiorò Figulo, conficcandosi nella gola di un soldato vicino. L’uomo sobbalzò e reclinò il capo indietro, il sangue gli zampillò fuori dalla bocca quando cadde nell’acqua con un tonfo.

    «Schieratevi sulla spiaggia!», sbraitò Ocella ai suoi uomini mentre raggiungeva la linea di costa davanti a Figulo. «Schieratevi, per la miseria!».

    I soldati saltarono giù dai fianchi delle galee, con l’acqua gelida che gli avvolgeva il corpo, ritrovandosi subito sotto l’attacco degli arcieri appostati sulle scogliere di gesso ai lati della stretta spiaggia. Uno pioggia di frecce piombò sui soldati con un costante sibilo mortale. Alcuni furono colpiti appena toccata l’acqua e i loro corpi trafitti colarono a picco, con le aste delle frecce che gli sporgevano dal collo e dal tronco. Altri tentarono di comprimersi le ferite mentre avanzavano a stento nell’acqua bassa rosso sangue per raggiungere la riva.

    Figulo passò a guado vicino a morti e moribondi, con i muscoli del collo tesi dalla rabbia. Lo sbarco era stato un disastro. All’alba dodici galee erano partite dalla base navale di Noviomagus dirette verso la costa est di Vectis, con i ponti gremiti di soldati. Le quattro galee in testa si erano incagliate in un banco di sabbia a poca distanza dalla linea costiera, costringendo gli uomini a bordo a saltare giù dai ponti e passare per quell’acqua gelida che gli arrivava fino al collo. Il resto della flotta tardava al largo, mentre i trierarchi ordinavano alle navi di dirigere la rotta attorno ai vascelli arenati. Figulo lanciò un’occhiata alle sue spalle e vide i soldati accalcati sui ponti delle galee, costretti a guardare i commilitoni che annaspavano verso riva.

    Davanti a sé, invece, i superstiti della Sesta centuria cercavano di raggiungere la spiaggia, radunandosi intorno a Ocella. Una pioggia metallica crepitava con un frastuono ritmico sugli elmi degli uomini appesantiti da armature, spade corte e scudi. Le tuniche di lana erano fradice e si aggiungevano al peso. Mentre Figulo avanzava nell’acqua bassa sentì qualcosa di freddo sfiorargli la gamba robusta. Abbassò lo sguardo e vide le membra di un pallido corpo sotto la superficie. Dal petto gli sporgevano diverse frecce, aveva gli occhi spalancati e un’espressione che celava una tacita agonia. Con lo scudo scostò di lato il soldato morto e si affrettò verso riva, schivando frecce, mentre gli scarponi chiodati avanzavano facendo cic ciac sulla sabbia bagnata.

    Sulla spiaggia trovò una scena orripilante: ovunque guardasse c’erano soldati contorti a terra, mentre lo sciabordio delle onde lavava via i rivoli di sangue dalla sabbia umida. Uomini mutilati venivano trafitti da altre frecce mentre avanzavano facendosi largo a fatica verso i loro compagni più avanti sulla spiaggia. Bloccati dai dardi che piovevano dalle scogliere, i superstiti della prima ondata di sbarco non erano stati in grado di disporsi in formazione e costituire uno scudo efficace per le truppe appena sbarcate, subito abbattute in massa dagli arcieri nemici. Un manipolo di soldati era riuscito a schierarsi sulla spiaggia a mezzaluna. Mentre le frecce si conficcavano con un rumore sordo nella sabbia attorno a lui, l’optio avvertì una collera amara affliggergli il cuore. Ancora una volta, un’accozzaglia di militari britanni era riuscita a infliggere terribile perdite al nemico romano.

    «Quassù!», gridò Ocella a Figulo, mentre la centuria si disponeva in una sorta di cerchio, sollevando gli scudi sulla testa per proteggersi dalle frecce che cadevano a dirotto dalle scogliere. «Datti una mossa, optio Figulo!».

    Mentre il vice comandante continuava a correre, l’aria si riempì di un sibilo furioso, simile al vento, e una serie di frecce saettò nel cielo cupo, grandinando sugli uomini isolati della Quinta coorte, sollevando un coro di grida di dolore. Una freccia si conficcò nel braccio di un uomo di fronte a Figulo. Il legionario mollò la presa dello scudo e, mentre crollava in ginocchio disperato, portò la mano alla punta acuminata che gli sporgeva dalla carne. Il gallo si parò la testa con lo scudo. Sentì un clangore fragile, quando un proiettile batté contro la borchia del suo scudo. Inciampando su un cadavere steso, Figulo perse l’equilibrio e cadde a terra, finendo in una pozza di sangue rosso vivo vicina al corpo di un altro soldato ferito. Lacrime salate gli colarono dagli occhi, quando si alzò in tutta fretta per continuare l’avanzata. Guardò alle sue spalle proprio nel momento in cui uno sciame di frecce si conficcò nella sabbia pochi passi dietro di lui.

    Nell’istante successivo Figulo si schierò accanto al suo centurione, con il cuore in gola. Ocella gli lanciò un’occhiata di rimprovero.

    «Perché diamine c’hai messo tanto?», gli chiese in tono seccato.

    «Scusa, signore», grugnì Figulo. «Mi era caduto l’amuleto». Notando l’espressione perplessa del centurione, l’optio aprì il pugno sinistro per mostrargli un medaglione d’argento raffigurante la dea Fortuna. «L’ho quasi perso nella risacca».

    Per un po’ Ocella rimase senza parole. «E ti sei quasi fatto uccidere per questo?». Scosse la testa disgustato. «Maledetto gallo… Lasciamo perdere! Non c’è tempo. Siamo nella merda. Quegli arcieri ci hanno bloccati e la coorte è nel caos più totale. La maggior parte delle nostre navi è rimasta al largo. Solo la Quinta è riuscita ad approdare, assieme allo squadrone di cavalleria, e non ci sarà alcun supporto dalle navi da guerra finché non aggireranno quella maledetta secca».

    Figulo guardò il mare nella direzione indicata da Ocella. Un ammasso di nuvole scure incombeva sulle galee incagliate fra gli spuntoni di roccia. Dietro di loro molte altre navi dondolavano avanti e indietro fra i flutti del mare. Fra quelle navi individuò un vascello più grande, un quinquereme, con un lungo stendardo viola che sventolava all’albero maestro. Era la nave del legato.

    Tornò dal centurione e si schiarì la gola nervoso. «Dio solo sa quando Celere e il resto dei nostri compagni riuscirà a sbarcare».

    «Una resistenza di poco conto», borbottò sottovoce Ocella. «Ecco cosa aveva promesso il legato. Che cacchio di resistenza simbolica è mai questa?». Indicò gli arcieri ammucchiati sulle scogliere.

    Mentre scrutava la spiaggia, Figulo strinse l’impugnatura dello scudo.

    «E dove diavolo è il tribuno Palino?», sbraitò Ocella. «Dovrebbe essere lui il capo qui!».

    «Là, signore», gridò un soldato a destra di Figulo. «Palino ha portato la cavalleria su per quella via». Indicò l’ovest. La dolce pendenza della spiaggia portava in cima a un terrapieno di ghiaia al di là del quale si ergeva una falesia. Un serie di piccole gole fiancheggiate da alberi costituivano una sorta di punto di fuga naturale dalla spiaggia, essa stessa delimitata su entrambi i lati da scogli prominenti. La battigia incideva la costa come una tacca intagliata su una tavoletta di legno.

    Ocella sbuffò dalle narici dilatate. «Il solito maledetto Palino, che si pavoneggia. Quell’idiota si crede il nuovo Cesare».

    In quel momento l’aria esplose in una scarica di tonfi sordi e acuti sferragliamenti, quando una raffica di giavellotti prese il posto della tempesta di frecce. Un grido acuto risuonò per l’aria umida quando un giavellotto perforò la cotta di maglia di un soldato, trafiggendone le carni. Un altro soldato della fila più esterna dello schieramento gridò di dolore, quando un giavellotto andò a sbattere contro lo stivale proprio oltre il suo scudo. Il sangue colorò all’istante la sabbia intorno al suo piede. Il soldato mollò lo scudo e si piegò per premersi la ferita. Una manciata di frecce caddero con suono metallico sui ciottoli; una lo infilzò alla nuca e l’uomo crollò con un gemito proprio di fronte a Figulo.

    «Mettetevi al riparo!», urlò Ocella ai suoi uomini. «al riparo!».

    Gli uomini si accovacciarono sotto agli scudi mentre i proiettili continuavano a piombare dal cielo, schiantandosi sul bordo degli scudi come giganti chicchi di grandine su tetti di tegole. Poi Figulo sentì un altro ronzio: alla raffica di giavellotti si erano uniti anche i frombolieri, i cui colpi sferzavano gli scudi e gli elmi dei Romani con un tintinnio assordante. Le urla a seguire segnalavano che un giavellotto aveva perforato uno scudo infilzando il suo obiettivo, o che un pallino di piombo aveva fracassato le ossa di un soldato. Tuttavia gli scudi garantirono ai soldati un’efficace difesa contro quell’ondata convulsa di proiettili. Figulo sentì vibrare il suo scudo e udì il brusco schianto del legno, trafitto da un giavellotto celtico la cui punta si fermò a pochissima distanza dalla sua faccia. Digrignò i denti e i muscoli dell’avambraccio e del bicipite erano indolenziti a furia di tenere lo scudo sollevato sulla testa. Era madido di sudore nonostante il freddo, come se lo stress fisico e mentale della battaglia iniziasse a chiedere il conto.

    «Tenete duro!», li incitò Ocella. «Non continueranno a lungo!».

    Difatti nell’istante successivo la fiumana di frecce si arrestò all’improvviso e sulla spiaggia calò il silenzio. Rimasero solo il sibilo incessante della risacca e le grida d’aiuto degli uomini feriti. Figulo sbirciò oltre il bordo metallico dello scudo verso la cima della scogliera a nord osservando gli arcieri indietreggiare.

    «Forse Palino li ha messi in fuga», disse Ocella fra sé e sé. «Quello sciocco a caccia di onori si prenderà tutti i meriti, come al solito».

    Figulo borbottò qualcosa, mentre strappava via il giavellotto dallo scudo. «Peccato, e io che speravo di attaccarci briga».

    «Forse no», mormorò in tono inquietante un legionario.

    Figulo lanciò un’occhiata all’uomo che aveva parlato. Aveva una vistosa cicatrice su un lato della faccia e guance violacee da bevitore. Era stato uno dei primi uomini a presentarsi al gallo dopo il suo trasferimento qualche giorno prima. Tito Terenzio Rullo era uno dei veterani della Sesta centuria.

    «Eh?», chiese in tono seccato Ocella. «Cosa vorresti dire?».

    Con un cenno del capo Rullo indicò una gola più grande che si apriva nella falesia. Subito il centurione e il suo vice voltarono lo sguardo in quella direzione. Figulo scorse qualcosa muoversi verso di loro dal limite della vegetazione arborea in cima alla gola. Quando quell’oggetto balzò fuori dalla tetra oscurità giù per la parete della falesia, il gallo si rese conto che si trattava di un sorprendente cavallo bianco che galoppava a rotta di collo verso di loro. Poi notò qualcos’altro e avvertì una fitta di terrore alla nuca.

    «Merda!», ringhiò. «Quello è il cavallo del tribuno Palino, signore».

    Il cavallo si avvicinò e si impennò ai piedi del pendio. Figulo e gli altri videro che aveva i fianchi rigati di sangue.

    «Quei bastardi devono aver messo k.o. Palino», borbottò Rullo.

    Da qualche parte oltre gli alberi in cima alla falesia risuonò un grido di guerra minaccioso. Solo allora in cima alla gola principale si allineò una lunga schiera di figure nerborute, i cui corpi tinti di guado si intravedevano appena nell’ombra. Ogni guerriero brandiva una spada lunga percossa più volte sullo scudo in segno di sfida. Alcuni Durotrigi intonavano strani canti invocando l’aiuto degli dèi nativi per annientare il nemico giunto dal mare. Uno degli uomini sollevò al cielo la potente lancia e a Figulo si rivoltò lo stomaco nel vedere che in cima era conficcata la testa mozzata del tribuno. Poi i trombettieri nativi suonarono i corni per chiamare a battaglia le truppe. Quelle note stridenti sortirono l’effetto sperato e provocarono un brivido a Figulo e ai suoi commilitoni.

    «Durotrigi», disse Rullo. «A quanto pare, alcune centinaia. Devono aver intrappolato Palino e i suoi uomini quando hanno raggiunto la cima delle scogliere. Poveri diavoli». Si rivolse al gallo. «Sembra che dovrai attaccarci briga davvero, signore».

    Figulo strinse le grosse dita attorno all’impugnatura della spada corta e ghignò in direzione dei britanni schierati in vetta alla collina, mentre gridava ai suoi uomini: «Se quei bastardi vogliono il gioco duro, troveranno pane per i loro denti!».

    CAPITOLO TRE

    Le selvagge grida di guerra dei Durotrigi cessarono all’istante. La quiete prima della tempesta. Poi i guerrieri si riversarono a frotte giù per la falesia verso la coorte radunata sulla spiaggia, brulicando tra l’erba alta che ricopriva la gola con fitti ciuffi, con i capelli lavati con acqua di calce che gli ricadevano sulle spalle larghe. Ricacciando indietro la paura, Ocella si voltò subito per rivolgersi alla centuria.

    «Forza, uomini! Allargatevi e formate una fila! ora!».

    Subito i soldati ruppero la solida formazione difensiva e calarono gli scudi all’unisono, mentre Ocella prendeva posizione in prima linea. Molti dei soldati avevano abbandonato i giavellotti nello sforzo per raggiungere la riva e Figulo radunò nei ranghi posteriori quelli ancora dotati di armi da lancio, affinché potessero scagliarle sopra le teste dei loro compagni. Dopodiché Ocella ordinò alla prima linea di estrarre le loro armi e nello sguainare le spade dai foderi, l’aria si riempì di un clangore metallico. Ordini simili furono impartiti dai centurioni su e giù per la spiaggia, mentre gli uomini della Quinta coorte si preparavano ad affrontare i guerrieri che puntavano con foga verso di loro.

    «Giavellotti… Pronti al lancio!», urlò Figulo.

    Gli uomini nella linea posteriore della centuria sollevarono le loro armi impugnandole orizzontalmente sopra le spalle.

    L’enorme massa scura dei Durotrigi aveva raggiunto i piedi della rupe ormai pronta a sferrare l’attacco sui Romani, a meno di cento passi, attraverso la spiaggia di ciottoli. Il loro schieramento si allungava in una formazione disgiunta, occupando quasi l’intera spiaggia, e da quella distanza Figulo riuscì a scorgere che alcuni indossavano cotte di maglia sopra le tuniche. Le loro barbe incolte sbucavano da sotto gli elmi e sugli scudi erano dipinti strani simboli. La maggior parte dei nemici era a torso nudo e un gruppetto non indossava alcunché, segno del loro disprezzo per gli avversari romani. Alcuni guerrieri erano armati di lance da guerra, benché la maggior parte di loro brandisse le pesantissime spade lunghe, tanto amate dai Celti.

    I Durotrigi avanzavano in massa sulla spiaggia di ciottoli, preceduti da alcuni dei loro uomini in corsa. In attesa di dare il segnale del lancio dei giavellotti, Figulo osservò quanto rapidamente diminuisse la distanza tra i Romani e i Britanni, che avanzavano impetuosi. Si doveva attendere il momento ideale: a lanciarli troppo presto, i giavellotti sarebbero caduti prima di colpire l’obiettivo. A lanciarli troppo tardi, i Durotrigi avrebbero raggiunto il loro schieramento, prima ancora che le punte di ferro avessero colpito nel segno. In quel momento i guerrieri erano così vicini che Figulo riuscì a vederne gli sguardi selvaggi e le bocche spalancate che lanciavano grida di guerra.

    «Scagliate i giavellotti!», tuonò Ocella.

    Gli uomini nella parte posteriore lanciarono in simultanea i loro proiettili verso i Durotrigi. I giavellotti disegnarono una parabola nel cielo grigio, piombando negli istanti successivi sulla massa di guerrieri ormai a poca distanza dalla centuria, le lunghe aste di ferro trafissero i loro scudi tondi e rozzi. La prima linea dei Britanni vacillò come se scivolasse sul ghiaccio. Alcuni crollarono all’istante, altri incespicarono, con le mani strette attorno alle aste che gli spuntavano dal tronco, prima di essere spinti da una parte dalla forza convulsa dei guerrieri infuriati alle loro spalle. Un britanno nudo strillò, quando fu colpito all’inguine da una lancia e il sangue gli schizzò su gambe e piedi.

    Ma nel momento stesso in cui i Durotrigi feriti caddero, la linea successiva di guerrieri soffiava già sul collo degli uomini in prima linea. Ocella sguainò la spada in direzione dell’orda nemica. «Avanti!», gridò.

    La Sesta centuria avanzò allineata con il resto della coorte, ogni centurione si attenne rigidamente alle tattiche risultate vincenti per Roma nelle numerose battaglie contro gli avversari barbari. Lo scontro spada contro spada risuonò nell’aria mentre le forze antagoniste si incresparono come onde. I legionari si paravano il tronco con gli scudi e miravano alle gole dei nemici con le spade corte secondo la tecnica perfezionata durante la battaglia senza spargimento di sangue sui campi di addestramento. Combattendo spalla a spalla, con gli scudi che formavano una solida parete difensiva contro il nemico, gli uomini assestavano colpi ai guerrieri selvaggi di fronte a loro con precise stoccate dritte ai punti del corpo più vulnerabili: la gola e il petto. Dal canto loro, i Durotrigi tentavano di brandire le spade lunghe, gesto che però li costringeva ad aprirsi ed esporre i propri corpi ai Romani.

    Figulo gridò agli uomini della seconda fila di prepararsi con le spade, mentre attendevano il momento di prendere il posto dei soldati abbattuti di fronte a loro, tamponando in fretta ogni falla apertasi nella parete di scudi. Gli uomini cadevano a un ritmo allarmante. Gli assistenti dell’ufficiale medico correvano su e giù per la linea, portando i feriti più gravi a distanza di sicurezza giù nella spiaggia. Coloro che non potevano essere salvati venivano trascinati da una parte e poi lasciati sulla sabbia a contorcersi dal dolore, gridando i nomi delle loro madri mentre morivano dissanguati e portandosi le mani alle ferite nel vano tentativo di arginare il flusso di sangue.

    Mentre i legionari si spingevano avanti, qualcuno diede l’allarme e una nuova ondata di proiettili fu scagliata dalla falesia che incombeva sul fianco destro delle linee romane. Si udì un grido di agonia quando uno degli uomini della centuria di Figulo cadde a terra, trafitto da una freccia alla coscia.

    «Ultima fila! Sollevate gli scudi!», ruggì Figulo e su entrambe i lati gli uomini alzarono all’istante gli scudi per formare una solida copertura che proteggesse loro e in misura minore anche gli uomini della prima linea. Alcuni dei proiettili nemici caddero sui loro stessi guerrieri, che urlarono per le odiose ferite mentre i compagni si scagliavano con violenza contro il muro degli scudi romani. Sbirciando oltre le spalle degli uomini di fronte, Figulo vide uno dei Durotrigi con la spada sguainata che si muoveva in modo lento e pesante attraverso una falla dello schieramento. Fu abbattuto da uno dei suoi stessi giavellotti prima ancora che potesse attaccar briga con i legionari. Ocella, che si era ritirato dalla prima linea e si affannava a spingere avanti uomini per tamponare le falle, si rivolse a Figulo con orrore.

    «Perché diavolo continuano a tirare? Non vedono che stanno colpendo i loro stessi uomini?».

    Figulo sbuffò frustrato. Malgrado il rischio di colpire i loro compagni, le frecce e i giavellotti dei Durotrigi continuavano a ridurre il numero dei romani. Sempre più varchi iniziavano ad aprirsi nella prima fila, mentre la formazione cominciava a vacillare. Presto i guerrieri nemici avrebbero spinto indietro i romani per numero. L’attenzione di Ocella venne attirata da un gruppo sulla falesia.

    «Ci stanno massacrando, signore. Dobbiamo abbandonare la spiaggia».

    Ocella scosse il capo, il sudore gli colava sulla faccia arrossata. «I nostri ordini sono chiari. Dobbiamo mantenere la posizione fino allo sbarco delle altre coorti che verranno a darci manforte».

    «Ma se non ce ne andiamo, non ci sarà più alcuna posizione da mantenere».

    «Resteremo qui!», insistette Ocella. «Qui!». Si avvicinò di un passo al suo vice e aggiunse sottovoce: «Contesta di nuovo la mia autorità e ti solleverò dal tuo incarico».

    Figulo reagì con irritazione. La Sesta centuria era in grave pericolo e il suo ufficiale in comando, attanagliato dall’indecisione e dall’ansia nel fervore della battaglia, era più preoccupato di punire il suo subalterno per quella che considerava una mancanza di rispetto. Ocella si volse altrove con un ghigno. Nel mentre, il pallino di piombo di una frombola rimbalzò sul suo elmo. Barcollando indietro, a Ocella sfuggì un lieve gemito, roteò gli occhi all’indietro e crollò sulla sabbia. Figulo lanciò un’occhiata all’ufficiale svenuto. Sangue rosso vivo gli colava sulla faccia. Un attendente si chinò sul centurione e lo esaminò alla svelta prima di rivolgersi a Figulo.

    «È privo di sensi», disse l’attendente.

    Figulo esitò un istante ma fu Rullo a parlare per primo. «Sembra proprio che il comando spetti a te, optio… signore».

    «Bene, allora». Figulo annuì, stringendo l’impugnatura dello scudo preparandosi a prendere il posto in prima linea e a lottare contro i Durotrigi.

    «In un modo o nell’altro dobbiamo fermare quegli arcieri», disse Rullo accennando col capo agli uomini feriti dalle frecce stesi sulla ghiaia dietro di loro. «Solo allora avremo una possibilità di sopravvivere».

    Figulo esitò e i suoi occhi piansero lacrime e sangue. «E come?».

    Il veterano indicò un canale fangoso nella rupe che correva parallelo alle scogliere. «Se un gruppetto riesce a farsi strada in quella direzione, potremmo dare a quei bastardi una lezione che non dimenticheranno tanto facilmente».

    Sul volto severo del gallo spuntò un sorriso di apprezzamento. «Proprio quello che ci vuole. Avanti, Rullo». Poi chiamò con un cenno della mano i trenta uomini della seconda linea e sguainò la spada verso la rupe. «I primi tre plotoni! Con me!».

    Con il sangue che gli ribolliva, Figulo condusse i soldati attorno al fianco destro della centuria e puntò dritto verso la falesia. Alcuni Durotrigi si accorsero della manovra nemica e si distaccarono dai compagni nel tentativo di bloccarli, sferrando colpi con le lunghe spade. Figulo colpì con lo scudo uno dei guerrieri che gli si era scagliato addosso: la borchia di ferro lo prese in piena faccia con uno scricchiolio sordo. Mentre i Romani attraversavano la spiaggia di ciottoli e si precipitavano goffamente verso il canale, per lo sforzo il gallo sentì i muscoli dei polpacci dolergli e i polmoni prendergli fuoco.

    Avanzò deciso su per il ripido pendio e, raggiunta la cima, puntò in direzione dell’accozzaglia di nativi disposti sul bordo del precipizio. L’attenzione dei britanni era concentrata sulla battaglia in atto lungo la spiaggia mentre fioccavano frecce, giavellotti, colpi di frombola e persino piccole pietre sui Romani. Figulo sentì un brivido caldo mentre si preparava ad abbattere quei barbari ignari.

    «Restate con me!», ordinò ai suoi uomini. «Quando attacchiamo, colpite duro!».

    Quando i legionari si precipitarono verso il nemico, uno dei Britanni si voltò e li vide. Preso dal panico spalancò gli occhi e si rivolse ai suoi compagni per avvertirli dell’attacco furtivo.

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