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L'aquila della Decima Legione
L'aquila della Decima Legione
L'aquila della Decima Legione
E-book637 pagine9 ore

L'aquila della Decima Legione

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Info su questo ebook

Un grande romanzo storico

Dall'autore del bestseller Centurio

55 a.C. Quando le navi della flotta romana giungono sulla costa di una terra sconosciuta, si ritrovano a dover fronteggiare un’armata di guerrieri autoctoni, talmente feroci da intimorire le truppe di Cesare. Soltanto l’aquilifero della Decima Legione, Lucio Petrosidio ha il coraggio di lanciarsi nelle fredde acque dell’oceano, e l’aquila del suo vessillo guida la legione degli immortali nell’assalto. Lucio e i suoi compagni d’armi, Massimo, Quinto, Valerio sono gli eroi che si batteranno nella conquista della Britannia, nel nome di Roma e di Cesare, e che proteggeranno Gwynith, la schiava dai capelli rossi che ha fatto breccia nel cuore dell'aquilifero. Ma il destino, in agguato, li attende ad Atuatuca… 
35 a.C. Il passato e i suoi fantasmi, il ricordo dei compagni caduti, il fuoco che brucia la coscienza: è per trovare pace a tutto questo che un vecchio ma ancora impavido soldato torna in Britannia a concludere una battaglia iniziata vent’anni prima. Ma anche per ritrovare la donna che da tanto tempo lo aspetta. L’aquilifero della Decima Legione farà i conti con la propria storia.

Massimiliano Colombo è il Simon Scarrow italiano 

«La vicenda dell'aquilifero Lucio diventa il pretesto per raccontare la vita della Legione, delle sue battaglie e dei suoi costumi. Una lettura epica.»

«Si legge tutto in un fiato quindi.... respirate a fondo prima di ascoltare le urla dei centurioni che ci spingeranno all'attacco...»

Un grande romanziere e profondo conoscitore della storia dell'Antica Roma
Massimiliano Colombo
Nato a Bergamo nel 1966, vive a Como, dove da anni coltiva, con dedizione ed entusiasmo, la passione per gli eserciti del passato. Nel 2013 la casa editrice spagnola Ediciones B ha acquistato i diritti dei suoi libri per il mercato mondiale di lingua spagnola e il successo di pubblico e critica di La legión de los inmortales lo ha consacrato come una delle voci più interessanti nel panorama europeo del romanzo storico. Con la Newton Compton ha pubblicato Centurio e Stirpe di eroi.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2018
ISBN9788822724830
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    Anteprima del libro

    L'aquila della Decima Legione - Massimiliano Colombo

    EN2015.cover.jpglogo-EN.jpg

    2015

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Il libro è già stato pubblicato con il titolo L’aquilifero

    Prima edizione ebook: maggio 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2483-0

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica a cura di Corpotre, Roma

    Massimiliano Colombo

    L’aquila della

    Decima Legione

    marchio.tif

    Newton Compton editori

    Indice

    Premessa

    I. 718 AB URBE CONDITA

    II. CANTIUM

    III. OCEANUS

    IV. BRITANNIA

    V. VECCHIO LEGIONARIO

    VI. VENTI DEL NORD

    VII. TRADIMENTO

    VIII. MIGLIO ROMANO

    IX. MOLLATE GLI ORMEGGI

    X. GALLIA

    XI. GWYNITH

    XII. MASSILIA

    XIII. SOLSTIZIO

    XIV. MARCO ALFENO AVITANO

    XV. L’ULTIMA PRIMAVERA

    XVI. TREVERI

    XVII. PORTO IZIO

    XVIII. TAMENSIS

    XIX. QUINTO PLANCO

    XX. QUATTORDICESIMA

    XXI. EPAGATUS

    XXII. TERRAFERMA

    XXIII. LAGUNA

    XXIV. PESSIMA COMPAGNIA

    XXV. AMBIORIGE

    XXVI. UCHDRYD

    XXVII. ATUATUCA

    XXVIII. BRENNO

    XXIX. RACCONTATO DA GWYNITH

    XXX. VALERIO

    Si fece di tutto per mettersi nei guai

    Ringraziamenti

    Al mio Contubernium

    Andrea Giannetti

    Giovanni Saladino

    Angelo Pirocchi

    Filippo Crimi

    Cesare Rusalen

    Marco Lucchetti

    Angelo Guarracino

    Luca Cristini

    per tutto quello che è stato

    per tutto quello che è

    per tutto quello che sarà

    mappa.jpg

    I luoghi in cui si svolge il romanzo.

    Premessa

    Una flotta di novanta navi romane manovra in balìa del mare grosso ad un centinaio di metri dalla costa inglese. È un giorno tempestoso della fine di agosto del 55 avanti Cristo e a bordo, schiacciati gli uni sugli altri, sballottati dalla furia delle correnti, sono imbarcati dodicimila legionari della Settima e della Decima Legione di Gaio Giulio Cesare.

    Sulla spiaggia battuta dal vento, oltre al ruggito delle onde, migliaia di Britanni inferociti, ricoperti di disegni tribali, lanciano insulti e grida di sfida in attesa dello scontro.

    Dalle navi i centurioni ordinano agli uomini di gettarsi in acqua sotto il peso delle loro armi e maglie di ferro e guadagnare in qualche modo la battigia. Bisogna sbarcare, combattere e prendere posizione sulla costa prima del buio; bisogna lottare contro il mare, i barbari ed il tempo.

    Quei legionari, temprati a tutto e pronti a tutto, restano immobili di fronte a quello che vedono sulla spiaggia e a quello che non vedono sotto di loro, celato dai gorghi della risacca nella quale si devono gettare.

    La tempesta, che ha imperversato durante la notte, sparpagliando per tutta la Manica la flotta romana, ora tiene inchiodati i migliori legionari di Cesare sulle navi. Impossibile sbarcare e impensabile voltare le spalle a dei nemici pronti a combattere per riprendere il largo. Tutto sembra essere contro quella spedizione fino a quando Giove non dà un segno.

    L’aquilifero della Decima Legione, portatore dell’insegna sacra al padre di tutti gli dèi, si getta tra le onde, riemerge e avanza da solo contro i nemici. L’invasione della Britannia è cominciata.

    Potrebbe sembrare un film d’azione di Hollywood e invece è realtà. Questo episodio è documentato nel Libro Quarto del De Bello Gallico, al capitolo xxv. Il gesto di questo soldato rimane per sempre impresso su uno dei più importanti documenti militari e politici di tutti i tempi, ma il suo nome, omesso, si perde nella notte dei tempi.

    Nel Libro Quinto della stessa opera, al capitolo xxxvii, a circa un anno di distanza dallo sbarco in Britannia, Cesare racconta del gesto eroico di un altro portainsegna di una legione da poco costituita. Questa volta il suo nome viene scritto e attraversando duemila anni di storia arriva a noi; si chiama Lucio Petrosidio, la sua fama dura un paio di righe ma rimane impressa nella mia mente, tanto che più volte sono tornato a leggere quei passi chiedendomi chi fossero questi due uomini, cosa avessero fatto prima di finire nei Commentarii di Cesare e cosa ne fosse stato di loro dopo.

    Per trovare una risposta ho dovuto abbandonare il De Bello Gallico, con la sua fredda trascrizione cronologica degli avvenimenti, per cercare ulteriori testimonianze. Purtroppo la Storia non ci dice altro; l’aquilifero della Decima e Lucio Petrosidio appaiono e scompaiono nel giro di mezzo paragrafo, così come del resto molti altri valorosi soldati menzionati nell’opera.

    Ho tentato allora di arrivare con l’immaginazione là dove le fonti non potevano aiutarmi, ed è nata così l’idea di costruire intorno a quelle poche righe una storia, abbandonando la lettura straordinaria e nello stesso tempo distaccata dei Commentarii, per entrare con la fantasia tra i ranghi della Decima Legione. Lì, annullando i venti secoli che mi dividevano da lui, ho cercato Lucio Petrosidio tra gli uomini di Cesare e l’ho seguito provando sensazioni che i libri non potevano raccontarmi.

    Sotto le insegne di Roma ho visto quegli straordinari soldati marciare gomito a gomito carichi delle loro impedimenta, ne ho ascoltato i discorsi e le imprecazioni. Ho sentito l’odore del ferro delle loro armature ingrassate e quello del cuoio mescolarsi a quello del sudore. Ho visto la polvere alzata durante le massacranti marce colare dalle loro fronti, penetrare le piaghe sanguinanti delle reclute, attraversare le vesti, impastarsi al grasso che ricopriva metalli e pelli.

    Mi sono fermato e ho guardato quella lunga, immensa colonna perennemente in cammino, osservando i volti dei famosi legionari del primo secolo avanti Cristo. Ho visto i figli di quell’epoca, uomini diversi da noi; selezionati dalla natura e dalla vita stessa. Duri, temprati, forti, a volte ignoranti e rozzi, alcuni arruolati per propria volontà in cerca di bottino, altri costretti dalla leva con una ferma che poteva raggiungere i venti anni di servizio. Erano abituati alle privazioni e alle fatiche della guerra, alla semplicità di costumi, alla loro incurante povertà, ai loro codici d’onore, ai loro riti.

    Quanti di loro avranno assassinato, depredato, rubato, torturato e violentato, quanti avranno visto l’amico di sempre cadere trafitto da una lancia sul campo di battaglia, quanti si saranno ubriacati in cerca di avventura come i ragazzi di ogni tempo e quanti avranno tremato vedendo i giganti del nord correre verso le loro schiere. Questo mi sono chiesto immaginando i loro volti, mentre sulle cicatrici violacee di ferite mal curate e sui tagli profondi nel legno degli scudi ho intravisto il risultato di feroci battaglie sostenute, di città prese e saccheggiate, di vinti passati al filo di spada senza il minimo rimorso o resi schiavi per tutta la vita, marchiati con il fuoco prima di essere costretti a combattere nelle arene.

    Eppure, mi sono detto, dietro a questi soldati brutali, dietro al sangue che imbrattava le loro vesti dovevano pur esserci degli uomini e forse non così diversi da noi. Uomini con le loro paure e i loro sogni. Tormentati dal mistero della morte, angosciati dal dolore di una ferita o di una mutilazione, afflitti dalla perdita di un compagno.

    Contro le orde barbariche, che da sempre turbavano i confini settentrionali dell’Italia, Cesare oppose, all’inizio della campagna di Gallia, cinque legioni e la concluse con undici, sette delle quali, per un totale di quarantamila uomini circa, arruolate senza il consenso del Senato.

    Non è tutto, al comando di queste legioni fuorilegge, Cesare non mette comandanti nominati tramite elezioni popolari, come consuetudine, ma vi colloca, di volta in volta, uomini di sua fiducia, scelti da lui e che a lui solo devono rispondere. Quello della campagna di Gallia non è l’esercito di Roma, è quello di Cesare. Una enorme organizzazione militare costituita da combattenti che si trasformano in continuazione a seconda della bisogna in genieri, boscaioli, carpentieri, falegnami, costruttori di ponti, fortilizi e macchine d’assedio, ma anche di strade, acquedotti, fognature e terme. L’esercito che Cesare ci descrive meticolosamente si plasma di volta in volta, si adatta e raggiunge il suo scopo, qualunque esso sia, con una capacità di progettazione ed una pianificazione logistica impensabile per quel tempo. Tuttora restiamo stupiti da come sia stato possibile erigere tanto velocemente opere così geniali e imponenti che spesso hanno risolto l’esito delle battaglie al posto della spada.

    Alla luce di tutto ciò, non posso pensare che quegli uomini tanto organizzati siano stati un ammasso di zotici e insensibili assassini con il gusto del bottino e nessuna preoccupazione per il futuro. Il legionario che aveva marciato duramente dall’alba, aveva sostenuto un combattimento, poi scavato un fossato, eretto una palizzata, piazzato una tenda oltre i confini del mondo conosciuto e che, dopo tutto questo, si apprestava da solo, nel silenzio della notte, a fare il suo turno di guardia, avrà pur lanciato tramite le stelle un pensiero al destino dei propri cari; ma questo Cesare non ce lo ha detto.

    Il mio intento è stato allora quello di attraversare il tessuto di nozioni fornitomi dal grande generale romano per toccare l’animo dei suoi soldati, sentirne il cuore, le piccole gioie e le grandi paure. Lo scenario nel quale agiscono questi uomini è la legione del primo secolo avanti Cristo, un periodo che vede i primi elementi non romani entrare a far parte permanente dell’esercito, tra i quali appunto, ali di cavalleria di cobelligeranti galli e germani, che si affiancano a particolari corpi di arcieri e frombolieri, efficacissimi tiratori arruolati un po’ ovunque nel bacino del Mediterraneo. La legione di Cesare è molto più cosmopolita di quanto potremmo pensare ed è seguita inoltre da un imprecisato numero di civili, addetti a varie mansioni, e schiavi, ai quali si aggiungono, non appena questa si ferma a svernare, famigliari, concubine, mercanti di ogni razza, faccendieri e chissà chi ancora. Tutti seguono il simbolo della potenza di Roma, un’aquila argentata, alla quale i militari rendono culto e che posta sopra un’asta è portata in battaglia e nelle marce dall’aquilifero, personaggio intorno al quale è stato costruito questo racconto, un graduato di grande responsabilità che appartiene alla Prima Centuria della Prima Coorte, riconoscibile immediatamente per via della pelle d’orso o di lupo che indossa sulle spalle.

    Le pagine che seguono raccontano le gesta di un gruppo di questi uomini, l’impareggiabile De Bello Gallico fa da sfondo alla vicenda ma qui i protagonisti non sono i grandi nomi che hanno fatto la Storia, bensì gli ignoti e straordinari milites caduti per sempre nell’oblio. Le loro vite sono in balia delle decisioni di uno dei più grandi geni militari di tutti i tempi, le loro azioni incastonate tra avvenimenti realmente accaduti e i loro nomi di fantasia si affiancano a quelli storicamente riconosciuti.

    Nonostante le ricerche fatte e le documentazioni ritrovate riguardanti il pensiero e l’atteggiamento dei combattenti di ogni epoca e nonostante gli scenari descritti siano storicamente corretti, concludo ammettendo che, il comportamento di questi uomini resta comunque soltanto una mia ipotesi e la loro vicenda un frutto della mia fantasia. Nessuno di loro potrà confermare o smentire ciò che ho scritto, ma nel mio animo, sono sicuro di aver reso onore a quei legionari che tanto ho ammirato fin dalla mia infanzia.

    i. 718 Ab Urbe Condita

    35 a.C.

    Ho il dono, spesso doloroso, di una memoria che il tempo non riesce ad offuscare. Tutte le persone incontrate nella mia lunga esistenza sono sempre presenti e vive in me, nonostante il colore argenteo dei capelli mi separi da fatti accaduti ormai in un lontano passato.

    Non posso che essere grato al destino che mi ha concesso di incontrare grandi uomini e di prendere parte ad eventi eccezionali che saranno tramandati nei secoli a venire, ma il prezzo pagato è stato alto, perché se da un lato il fato mi ha dato tanto da ricordare e il tempo per farlo, dall’altro ha cinicamente portato via uno dopo l’altro tutti quelli che ha messo sul mio cammino, lasciandomi una tristezza profonda, anche se piena di grandezza.

    Ho creduto, con il tempo, di essermi rassegnato a questa malinconica situazione, racchiudendo nel mio cuore volti e sensazioni per custodirli gelosamente come tesori preziosi. Una corazza dura e compatta li ha protetti, ma è rimasta indelebilmente segnata dai sacrifici sopportati e dalle lotte sostenute, che ora, a distanza di tempo, mi appaiono ancora più nobili. Non potrebbe essere altrimenti, perché io appartengo alla generazione che ha reso Roma padrona del mondo conosciuto e poi l’ha trascinata in una sanguinosa guerra civile al seguito di un uomo straordinario, nel bene o nel male, che la Storia ricorderà con il nome di Gaio Giulio Cesare.

    La saggezza acquisita in anni di battaglie e pericoli scampati mi consiglierebbe adesso di godere finalmente di un meritato periodo di pace, anche perché non so se la mia vita sarà ancora lunga, ma la mia coscienza mi pungola costantemente alle spalle obbligandomi ad andare avanti. C’è una battaglia cominciata vent’anni fa, il cui eco assordante rimbomba ancora nei miei timpani, che aspetta me per concludersi definitivamente. Così, da buon soldato qual ero, e quale mi sono sempre sentito, mi accingo a intraprendere questo viaggio per raggiungere il luogo che è stato testimone dell’intreccio dei destini delle persone a me più care.

    Il rumore delle vele spiegate al vento e lo scricchiolio dell’albero maestro mi riporta indietro negli anni. Chiudendo gli occhi sembra quasi di udire, insieme allo sciabordio delle onde, il vociare dei miei compagni che tornano dal passato. Non è così, il tempo è trascorso, il mare è lo stesso, così come il suo odore, ma io sono cambiato e quando apro gli occhi mi rendo conto di essere solo, vecchio ed unico testimone rimasto di un mondo che non esiste più, ultimo di una gigantesca razza che si è estinta per sempre, uomo dopo uomo.

    «Entro sera sbarcheremo, il tempo non è dei migliori ma il vento tiene».

    La voce del proprietario dell’imbarcazione mi riportò al presente. Lo guardai, era intento a scrutare il cielo mentre addentava una mela a grossi bocconi. Era il classico commerciante strozzino e pitocco, come ne avevo incontrati parecchi nella mia vita. Era basso, grassottello, capelli lunghi ma molto radi e due occhietti furbi e scuri incastonati in un viso appesantito da una vita godereccia che nulla aveva dell’uomo di mare. Le sue mani erano rosa e carnose, molto ben curate, sul dorso delle quali si intravedevano a malapena le nocche che finivano in dita tozze, pronte ad afferrare qualsiasi cosa potesse fruttargli del denaro. Le avevo osservate molto bene al momento del mio imbarco, mentre contava le monete d’argento necessarie per il passaggio, una somma esosa, al limite del furto, che raggiungeva quasi l’intero ammontare del ricavato dalla vendita del mio magnifico stallone al mercato del porto il giorno avanti. Una cessione obbligata in quanto il proprietario dell’imbarcazione si era rifiutato di trasportare il cavallo. Avevo più volte provato a patteggiare inutilmente ma infine avevo accettato, più che altro per mancanza di altre imbarcazioni pronte a salpare in quei giorni da Porto Izio¹.

    «E quando mai il tempo è buono da queste parti», borbottai aggrappandomi al parapetto, con lo sguardo perso nella schiuma dei flutti.

    «Sei un uomo molto particolare oltreché silenzioso, posso sapere dove sei diretto a concludere i tuoi affari?».

    Lo guardai chiedendomi se fosse uno sbaglio cominciare una conversazione evitata fino a quel momento. Ero risentito con lui per via del denaro che mi aveva estorto e per la vendita del cavallo, ma nonostante questo non riusciva a starmi antipatico, dovevo proprio essere invecchiato. Avevo sentito i suoi occhi addosso per tutta la traversata e da come si comportava capivo che la sua curiosità era già stata soppressa per troppe ore durante il tragitto. Avevo notato a più riprese che quell’uomo stava solo aspettando l’occasione giusta per cominciare a indagare, forse per spillarmi altri soldi. Del resto io ero l’unico con il quale potesse scambiare qualche parola su quella imbarcazione, se si escludevano chiaramente i servi alle vele, quello al timone e il giovane figlio con la faccia da arrogante che si portava appresso. «Da cosa deriverebbe questa mia particolarità?».

    «Oh, da molte cose», disse masticando rumorosamente, «dal tuo accento, dal tuo abbigliamento, da tutto insomma».

    «E cosa hanno di strano il mio abbigliamento e il mio accento?».

    L’uomo rise con la bocca ancora piena e gettò il torsolo in mare asciugandosi le labbra con la manica. «Be’, tanto per cominciare sei un romano, o al massimo uno della Narbonense², sei in viaggio da parecchio tempo e viste le condizioni dei tuoi abiti, sei anche di fretta». Mi fissò con un mezzo sorriso e vedendo che non ribattevo continuò con le sue deduzioni: «Forse sei un mercante, di certo non sei un uomo di mare, si vede da come ti muovi, ma la cosa che mi lascia più perplesso di te è quell’anello».

    Mi guardai la mano.

    «Amico mio, hai al dito un anello che da solo vale una fortuna, è uno smeraldo quello, vero? Come se non bastasse hai anche un torques³ d’oro massiccio. Sono gioielli di ottima fattura, anzi se permetti…».

    Prese la mia mano per guardare da vicino l’anello che aveva attirato la sua attenzione. «Accidenti, sembreresti molto ricco ma…».

    «Ma?»

    «Ma questi gioielli sono per gente di un certo rango, l’esatto contrario di quanto mi faccia pensare il tuo abbigliamento. Di sicuro non puoi essere un mercante, non haimercanzie, non hai servi e viaggi senza scorta. No dico, alla tua età è pericoloso, in Britannia poi lo sarebbe a qualsiasi età e con qualsiasi scorta. L’unica cosa che ti porti appresso è quel sacco che ti carichi sulla schiena, sembra pesante ma non può certo essere pieno di gioielli. O sbaglio?».

    Osservai una striscia cupa all’orizzonte assottigliando lo sguardo prima di rispondere. Eccola la costa della Britannia, sempre circondata dalle sue nebbie. Finalmente quella tappa di viaggio via mare stava volgendo al termine, presto mi sarei sbarazzato di quel tarchiato impiccione. «C’è dentro buona parte della mia vita in quel sacco, hai ragione, pesa, ma non posso permettere di farlo portare ad altri, come la vita devo sentirmelo addosso».

    Il mercante mi si avvicinò abbassando il tono di voce, come se volesse assumere un’aria confidenziale: «Conosco una persona molto importante proprio qui nel Canzio che ti potrebbe dare un bel gruzzolo per quei gioielli, potrei condurti da lui e…».

    «Ti ringrazio, ma non sono in vendita!».

    L’uomo si mise a ridere ancora una volta battendomi la sua mano molliccia sul braccio. «Amico mio, questo non è vero, a questo mondo tutto è in vendita, è solo una questione di prezzo».

    Il suo sorriso si smorzò di colpo non appena si accorse che a quelle parole lo fissai con durezza.

    «Non volevo offenderti, forse è un anello di famiglia oppure ha un valore affettivo che io non conosco…».

    Aveva ragione. Non poteva sapere la lunga storia di quell’anello che sembrava scottarmi tra le dita. «Sì, ha un enorme valore affettivo».

    «Capisco».

    Mi avvicinai di nuovo al parapetto a guardare la costa, dopo tanti anni le grandi scogliere mi apparivano di nuovo, sorgendo dalla foschia come allora.

    «Posso sapere dove sei diretto?».

    Ormai ero entrato nel vortice della conversazione e l’unica maniera per uscirne era quella di dare poche risposte decise per soddisfare la sua curiosità. «A nord, nelle terre dei Trinovanti».

    Il suo viso si illuminò. «Ma guarda, io dopo aver scaricato parte della merce mi dirigerò a settentrione e risalirò la foce del Tamesim⁴, li è già territorio dei Trinovanti, se vuoi ti posso dare un passaggio».

    «Ti ringrazio ma non amo molto stare per mare», risposi senza staccare gli occhi dalla costa, «inoltre non credo di avere abbastanza soldi per pagare una nuova tratta; è molto caro questo traghetto».

    «Andiamo, su quello ci possiamo mettere d’accordo, poi non vorrai camminare da solo per tutta quella strada. Ti ci vorrà un sacco di tempo e con quel carico ti dovresti comprare un cavallo».

    «Se non mi avessi obbligato a vendere il mio non ce ne sarebbe stato bisogno», gli dissi con un’occhiata torva, «comunque mi resta ancora di che comprarmi un ronzino e sopravvivere per tutto il tempo del viaggio una volta sceso a terra. Grazie per l’interessamento».

    Fu un errore, mi sarei ricacciato le parole in gola, ora sapeva che avevo altro denaro.

    «Bah, mio figlio deve scendere domani, si fermerà nel Canzio per comprare le pellicce da rivendere poi a Novalo⁵».

    Aggrottai la fronte a quel nome, mi ricordava qualcosa. Mi venne in mente una baia, e poco a poco tornarono alla memoria i fatti; rividi la nostra flotta cozzare contro quella dei Veneti. Navi enormi, gigantesche che si scontrarono con le nostre triremi che in confronto sembravano minuscole. Lo ripetei tra me e me a bassa voce mentre le immagini scorrevano nella mia memoria.

    «Sì, Novalo, la conosci?»

    «Ci sono stato parecchio tempo fa, i capelli erano di un altro colore».

    Il mercante si fermò un istante e mi squadrò da cima a fondo prima di continuare il discorso. «Comunque io dovrei proseguire da solo e ritornare nel giro di una ventina di giorni. Costeggeremo il litorale, niente di pericoloso».

    «Niente di pericoloso?», chiesi prima di scoppiare in una risata. «In queste acque ho visto onde tanto alte da scaraventare grosse barche contro gli scogli, come se fossero scagliate da Nettuno in persona».

    Il mercante scosse il capo ridendo, poi batté la mano sul bordo dell’imbarcazione per dimostrare la solidità del suo battello. «Guarda qui, legno di quercia capace di resistere ai colpi più violenti, caviglie in ferro grosse un pollice e vele in cuoio. Dico, io sono veneto, e noi navighiamo dalla notte dei tempi per questo mare con le migliori navi che siano mai state costruite».

    Inspirai profondamente l’aria carica di salsedine, poi guardai a nord verso la costa ormai vicina. «Sì, conosco le vostre navi. Ne ho viste parecchie, si manovrano solo con il vento».

    «Cosa vuoi dire?»

    «Quello che ho detto, che si manovrano solo con il vento, non hanno remi».

    La sua voce si fece nervosa. «Tu hai detto che conosci Novalo e ci sei stato tanto tempo fa, hai visto parecchie delle nostre navi e l’unica cosa che hai ricordato sul loro conto è che si muovono solo con il vento», disse additandomi. «Non è che per caso tu eri alla battaglia della baia venti anni fa e che, a giudicare dal fatto che menzioni Nettuno, facevi parte della flotta romana?»

    «Non ero sulle navi, ho visto la battaglia dalla costa con il resto delle legioni».

    L’uomo si girò verso il mare aperto prima di abbassare il capo. «Mio padre era su una di quelle navi, è stato colpito da quelle lunghe falci che usavate per tagliare le funi delle vele. Non l’ho più rivisto».

    Questa volta fui io ad avvicinarmi a lui, gli misi la mano sulla spalla. «Ho combattuto per più di trent’anni e non ho ancora finito. Mi spiace, so cosa si prova, credimi ho anche io una lunga fila di amici da piangere».

    Mi tolse la mano con un gesto di stizza e mi fissò con durezza. «Foste rimasti in Italia non saremmo qui a piangere i nostri morti».

    Mi allontanai da lui e mi misi a sedere su dei sacchi che contenevano le fini pelli da vela per le quali i Veneti erano famosi. «Questo non è vero, e tu lo sai. Vi scannavate fra voi prima del nostro arrivo e continuate a farlo anche adesso. Siete sempre stati divisi e in conflitto fra voi, anzi, si può dire che l’unico momento nel quale vi siete coalizzati è stato proprio per combattere noi».

    Non rispose, sapeva che quella guerra l’avevano cominciata loro con un tradimento, ma era un gallo e non lo avrebbe mai ammesso. Cominciò a borbottare fra sé frasi incomprensibili nel suo stretto dialetto, sicuramente stava inveendo contro me o i Romani in genere. Poi mentre sistemava una gomena mi guardò. «Cos’è? Il bottino di una vita quello che ti porti addosso? L’hai sfilato a un morto quell’anello? Stai di sicuro scappando da qualcuno, le tue vesti da straccione e quella barba sfatta stridono con il cavallo che avevi al porto e l’oro che ti porti addosso».

    «No, non era ancora morto quando glielo ho sfilato».

    Il mercante si fermò di colpo a bocca aperta non appena udì quelle parole, poi deglutì e cominciò a fissarmi con diffidenza tenendosi nervosamente alla larga.

    «Bene…», disse fra sé, «ho imbarcato un assassino, un assassino romano che ha fatto parte della legione che ha sterminato la gente della mia città».

    Era visibilmente scosso, ma devo ammettere che cominciava ad essermi simpatico adesso che lo vedevo in difficoltà. Tutto a un tratto mi sentii a mio agio, avevo preso l’iniziativa, fatto molto importante per un soldato. Quella figura sgraziata che non sapeva più dove girarsi faceva quasi tenerezza, in fondo non mi aveva fatto nulla di male, era solo un curioso pettegolo e non volevo che si facesse una cattiva idea di me. «Andiamo, hai imbarcato un vecchio, un vecchio e stanco soldato che non ha più intenzione di imbracciare una spada, ma un bastone per reggersi. E poi a Novalo abbiamo…», non mi veniva la parola, «…prelevato ecco, prelevato solo il Senato e alcune autorità politiche».

    Il suo volto diventò paonazzo e si mise ad urlare: «Li avete crocifissi lungo tutta la costa della baia!».

    «Avevate trattenuto i nostri ambasciatori a tradimento, questo non te lo ricordi?».

    Non rispose, continuava a camminare nervosamente avanti e indietro inframmezzando gli sguardi all’approdo, ormai prossimo, con quelli rivolti minacciosamente a me. Borbottava continuamente in modo da farsi sentire. «Un vecchio, già, un vecchio ladro e assassino… romano».

    «Senti», dissi mettendomi comodo sui sacchi con le mani dietro la nuca, «ho pagato profumatamente per la traversata, non certo per farmi fare la morale da un mercante brontolone. Dove eri tu in quei giorni? Sentiamo».

    Si fermò con gli occhi sgranati. «Io? Vuoi sapere dove ero io?». Fece una risata forzata alzando la testa al cielo. «Io ero sulle mura della mia città a spaccare le teste dei romani che osavano arrampicarsi».

    Scoppiai a ridere battendo le mani, senza riuscire a fermarmi.

    «Be’, cosa ci trovi di tanto divertente? I tuoi commilitoni non si sono per niente divertiti».

    «Tu menti!», lo interruppi. Mi alzai e andai verso di lui. «Tu menti, non ci furono assedi in quei giorni», dissi punzecchiandogli il petto con l’indice. «Fuggivate come lepri, per questo abbiamo dovuto usare la flotta, per incastrarvi sui vostri scogli».

    «Padre, questo vecchio ti sta importunando?», disse il giovane figlio del mercante vedendo che tra noi la discussione si stava facendo animata. «Ci penso io a insegnargli le buone maniere», continuò con tutta la stupidità della sua età prima di scostare il mantello di pelliccia e mettere in vista il pugnale che portava alla cintola.

    Voltai loro le spalle e mi diressi verso il mio sacco, lo aprii e cominciai a rovistare davanti allo sguardo curioso del padre e a quello insolente del figlio. Estrassi dal mio bagaglio un’enorme spada completa di fodero e la gettai ai piedi del giovane, dove cadde con un forte tonfo.

    Con un balzo i due indietreggiarono.

    «L’uomo che brandiva quella spada pesava almeno il doppio di te», affermai rivolto al giovane. «Cavalcava un enorme cavallo nero che lo rendeva ancor più gigantesco», dissi mimandone la sagoma con le mani, «quindi dai retta a me, segui la strada di tuo padre e diventa un mercante».

    Mi avvicinai gelando il ragazzo con uno sguardo. «Abituati all’oro, è meglio, il ferro non fa per te».

    Scostai a mia volta il mantello come aveva fatto lui e mostrai il cingulum⁶ con il marchio della Decima Legione dal quale pendevano una daga ed un gladio⁷.

    «Non fidarti mai di chi ti si para davanti, figliolo, anche un povero vecchio come me può riservare delle brutte sorprese».

    I due restarono immobili mentre uno degli inservienti, poco più che un ragazzo, si avvicinò reggendo un arpione. Restammo qualche istante a fissarci negli occhi.

    «Credimi», gli dissi dopo aver indietreggiato di un passo ed aver estratto il gladio con un movimento lento ma deciso, «non ci vuole una gran forza ad usare questo».

    Il rumore metallico dello sfrigolio della lama che usciva dal fodero gli aveva fatto sbattere nervosamente le palpebre, chiaro segno che quell’uomo non era un combattente. Gli mostrai la lama luccicante che terminava con una punta talmente acuminata che provocava dolore solo a guardarla. «Entra da solo senza grandi sforzi, è stato forgiato appositamente per uccidere grandi quantità di uomini senza troppa fatica. Basta un solo colpo».

    La sua fronte si imperlò di sudore, deglutì e sbatté ancora le palpebre. Feci roteare l’arma fra le dita e la rimisi nel fodero con un rumore secco. L’istinto mi diceva che non mi avrebbe colpito e raramente il mio istinto fallisce.

    Il ragazzo abbassò l’arpione tirando un respiro di sollievo prima di passarsi la mano sulla fronte. Andai allora verso la spada che giaceva ai piedi del figlio del mercante e la raccolsi. «Il tuo servo merita un premio, ha fegato», gli dissi. «A tuo figlio invece farebbe bene una lezione».

    Mi accorsi solo allora che il pover’uomo era pallido come la luna e aveva gli occhi cerchiati di rosso. Gli sorrisi mettendogli la mano sulla spalla. «Andiamo, non staremo qui a litigare per cose di vent’anni fa». Tornai al mio sacco dove avvolsi in uno straccio di lino la spada con il fodero e poi dopo aver chiuso il tutto mi riavvicinai a lui porgendogli la mano che lui non strinse.

    «Non hai molti anni meno di me, alla nostra età si dovrebbe essere meno cocciuti e più saggi. In fondo siamo due vecchi combattenti, la cosa dovrebbe accomunarci invece che allontanarci. Sarebbe meglio raccontarci come l’abbiamo scampata piuttosto che ostinarci a ricordare chi abbiamo combattuto».

    Non rispose, capii allora che non era mai stato un combattente.

    1 Località citata da Cesare nel De Bello Gallico. Non è ancora chiaro se Porto Izio corrispondesse all’attuale Boulogne, in Piccardia, oppure a Calais, sullo stretto di Dover.

    2 Attuale Costa Azzurra e Provenza.

    3 Tipico collare celtico con una lavorazione ad intreccio.

    4 Tamigi.

    5 Capitale dei Veneti, popolo di esperti marinai padroni a quel tempo del mare tra il continente e la Britannia. Era ubicata nella baia di Quiberon, attuale costa sud della Bretagna.

    6 Cinturone portato dai legionari, costituito da parti in cuoio e placche bronzee ornamentali che oltre a sostenere l’arma alleggeriva e distribuiva sulla vita il peso della cotta di maglia. Aveva inoltre la funzione simbolica di identificare la persona che lo indossava come un militare ed era motivo di orgoglio per i combattenti, disposti a spendere ingenti cifre per impreziosirlo.

    7 La daga era il tipico pugnale corto e tozzo a doppio taglio in dotazione ai legionari. Il gladio era la corta spada di origine ispanica, pesante e lunga, circa 50 cm. La lama era larga, saldata a strati in ferro acciaioso, aveva doppio taglio e una punta aguzza e affilatissima che, usata alla maniera dei militari, produceva ferite profonde e nella maggior parte dei casi letali.

    II. Cantium

    Quando molti anni sono trascorsi dallo svolgimento dei fatti e la coscienza ti permette di analizzarli a mente fredda ci si rende conto che i pericoli, quando sono passati, sembrano meno rischiosi. Volgendo lo sguardo indietro nel tempo, ci si compiace per non esserci fatti prendere da alcuna debolezza, ma nello stesso tempo non si sente più il peso dell’angoscia provata durante l’azione.

    È con questa sensazione che, una volta lasciata l’imbarcazione, mi sono avviato verso la spiaggia. Sentivo addosso ancora il rollio del mare anche se i piedi erano finalmente ben piantati a terra. Dal molo mi voltai ed alzai la mano in segno di saluto al mercante che mi stava osservando appoggiato all’albero maestro. Non rispose ma continuò a seguirmi a lungo con lo sguardo.

    Osservai attentamente la striscia di sabbia che si perdeva tra gli scogli che delimitavano la rada e di tanto in tanto mi giungevano alle orecchie le urla del passato portate dal rumore della risacca. Riscoprii scorci di paesaggio che erano rimasti sepolti da anni nella mia memoria. Sulla spiaggia erano state tirate in secca alcune imbarcazioni da pesca e i loro equipaggi erano intenti a svolgere delle grosse reti. Lo scambio di merci con il continente doveva essere cresciuto nel corso degli anni perché vi era parecchio movimento di persone che si spostavano dai moli verso l’entroterra. Guardai allora in direzione della rupe dove avevamo posizionato un tempo il nostro campo e vidi una torre d’avvistamento che si elevava sui tetti di paglia fumanti di alcune abitazioni.

    Mi avviai verso il promontorio e, non appena iniziai a salire, mi accorsi con una punta di orgoglio che i Britanni continuavano ad usare il sentiero che avevamo costruito noi durante la prima spedizione e che tuttora resisteva tenacemente agli anni di usura e incuria.

    Arrivato alla sommità del colle vidi che, nel luogo dove avevamo costruito il nostro campo fortificato, sorgeva un piccolo villaggio, circondato da una rudimentale palizzata a ridosso della torre d’avvistamento. Mi ci diressi a capo chino contrastando il vento, fermandomi di tanto in tanto a guardare la rada dall’alto. Non l’avevo mai vista così sgombra di navi. La salita cominciava a farsi sentire e lungo la strada che conduceva al villaggio scorsi sulla sinistra, in lontananza, una roccia chiara che sbucava dal terreno. Mi diressi in quella direzione deviando dal sentiero di terra battuta, camminando controvento fra l’erba alta e lo stridio dei grossi gabbiani che volteggiavano sopra la scogliera.

    Arrivato sul posto mi chinai lasciando scivolare il sacco a terra. L’iscrizione scolpita nella roccia era rimasta leggibile, vi passai la mano e mi sedetti per prendere fiato.

    venio baculo – leg x.

    La Decima Legione, la mia vita. Una morsa mi strinse lo stomaco e mentre fissavo quella roccia battuta dal vento rividi i volti dei miei ragazzi. In quella solitudine avrei potuto anche permettermi di commuovermi, in fondo avevo represso le lacrime per una vita intera.

    «Sono fuggito».

    Mi voltai di scatto, credevo di essere solo con i fantasmi del mio passato, invece il mercante veneto mi aveva raggiunto sulla sommità del promontorio. Lo guardai in silenzio mentre il vento scompigliava i miei capelli e con la mano spostai quelli che si attaccavano al volto. Mi fissava accigliato mentre riprendeva fiato, aspettava in piedi una mia parola che non arrivò. Battei semplicemente il palmo della mano lentamente sulla roccia per invitarlo a sedersi.

    «Sono fuggito da Novalo», disse guardando il sole che sbucava da dietro le nubi facendo scintillare l’acqua. «Quando ho visto le vostre legioni costruire le dighe per fermare le maree e raggiungere le nostre città, mi sono chiesto cosa potevamo fare contro uomini che avevano la forza di fermare il mare». Inspirò profondamente e poi sbuffò. «Non ebbi più il coraggio di ritornare se non dopo molti anni per fugaci scambi di merce, quando l’età mi aveva reso ormai irriconoscibile». Ritornò a fissare il mare. «Hai ragione tu, sono un bugiardo, e più passa il tempo più mi sento vile e solo».

    Presi dal sacco una forma di pane e del formaggio che tagliai con la daga offrendone un pezzo al mercante.

    «Il fatto che tu lo ammetta ti conferisce comunque una dignità», dissi dopo aver masticato il mio boccone.

    «Forse, ma il mio comportamento non è stato per nulla dignitoso».

    Misi un altro pezzo di pane in bocca prima di rivolgergli nuovamente la parola: «Vedo che hai una nave, un equipaggio, un figlio, della merce. Forse senza rendertene conto la tua decisione di allora ti ha portato a fare delle cose che altrimenti non avresti mai fatto».

    «Be’, sì, mi sono rifatto una vita».

    «Sai», ribattei aggrottando la fronte, «forse siamo tutti parte di un libro già scritto e le nostre azioni seguono un percorso voluto dagli dèi. Io stesso non dovrei essere qui, anzi, mi chiedo in continuazione cosa ci faccio dentro a questi stracci, lontano dalla mia famiglia».

    «Stai fuggendo da qualcosa?».

    Tagliai un altro pezzo di pane che gli porsi. «Sono qui per rendere onore ad un uomo, che ho seppellito pochi giorni fa. L’ultimo di un gruppo di uomini con i quali ho vissuto, combattuto, sofferto. Un uomo che ha sacrificato la propria esistenza all’onore e che è andato incontro alla morte per vendicare la memoria dei suoi vecchi compagni». Restai un attimo in silenzio a guardare la lapide con l’iscrizione, vi passai sopra i polpastrelli. «Il destino ha voluto che fossi io a seppellirli tutti, uno ad uno».

    «E cosa dovresti fare per rendergli l’onore che merita?»

    «Da qualche parte, oltre quelle selve», dissi additando l’entroterra con i capelli che, mossi dal vento, mi coprivano parte del volto, «il fato ha una risposta da darmi, una spiegazione che giustifichi questa scelta di combattere fino in fondo e morire. Io devo andare a questo appuntamento con il destino per vedere e raccontare quello che so».

    «Sei sicuro che troverai una risposta? È davvero molto importante per te sapere? Perché a volte le cose vanno così, senza una ragione».

    Mi alzai in piedi sistemando la daga nel fodero e guardai la rada mentre il mio mantello veniva strattonato dal vento. «È molto importante, deve esserci una risposta, ne sono sicuro».

    Ci fu un attimo di silenzio prima che lui riprendesse a parlare: «Forse allora il destino ha voluto metterti di proposito sulla mia barca e vuole che noi facciamo insieme l’ultima parte del tuo viaggio».

    «Gli dèi non mi hanno dato abbastanza soldi per pagare un’altra tratta sulla tua nave».

    Il mercante si mise a ridere e si alzò in piedi. «Questa volta sarai mio ospite, servito e riverito, prometto».

    Gli porsi la mano, ero già stanco della solitudine e quell’uomo, per quanto estraneo avrebbe potuto alleggerirmi non solo il carico che portavo nel sacco, ma anche quello che albergava in fondo alla mia anima.

    «In tal caso… quando si salpa?».

    Il suo volto si illuminò con un gran sorriso e mi strinse la mano con entrambe le sue. «Non appena i venti ci saranno favorevoli; quello che si è alzato ora è contrario alla nostra rotta».

    «Ecco… lo dovevo immaginare».

    Rise ancora di gusto mentre si apprestava ad aiutarmi con il sacco. «Stanno scaricando l’imbarcazione, domani devo sistemare alcune cose qui e poi si parte. Male che vada in un paio di giorni togliamo gli ormeggi. Ce ne staremo comodi sulla barca ad aspettare il momento propizio».

    «Avrei dovuto immaginare anche questo».

    Ritornammo verso il sentiero, il cielo si stava annuvolando e l’aria diventava pungente. Guardai in direzione del villaggio. «Dici che questi barbari avranno qualcosa che assomigli ad una locanda per mangiare un boccone sulla terraferma questa sera?»

    «Barbari? Gli abitanti del Canzio sono i più civilizzati di tutta la Britannia, amico mio».

    «Siamo a posto allora».

    Questa volta le nostre risate si alzarono al cielo all’unisono. «Non mi hai detto il tuo nome romano».

    Avevo seppellito da poco l’ultima persona che mi aveva chiamato per nome e avevo giurato a me stesso che sarei ritornato ad essere quello che ero solo dopo aver reso onore a quell’uomo. «Romano. Se non ti dispiace chiamami pure Romano, non è il mio nome ma mi fa piacere essere chiamato così, mi ricorderà chi sono durante il viaggio in queste terre ai confini del mondo».

    «E sia: Romano», ripeté il mercante battendomi la mano sulla spalla. «Il mio nome è Brenno», disse porgendomi la mano da stringere. «Lascia perdere la locanda, uno dei miei servi fa un pesce fantastico, anzi a quest’ora le braci saranno già pronte». Si avvicinò al mio orecchio e abbassò la voce prima di continuare. «Ho anche del buon vino».

    «Voi mercanti vi trattate sempre molto bene».

    «Qualche vizio ogni tanto».

    Raggiungemmo l’imbarcazione all’imbrunire, proprio mentre l’aria cominciava ad essere pungente. Fortunatamente la nave si trovava in una insenatura riparata dal vento e così, dopo aver preso posto sotto la tenda dove era situato l’alloggio di Brenno, cominciammo a cenare. Il figlio del mercante sedeva con noi ed era chiaramente infastidito dalla confidenza che davo a suo padre. Effettivamente mangiammo dell’ottimo pesce abbondantemente innaffiato da un eccellente Falerno che portò presto il buonumore in quell’angolo di mondo.

    «Insomma, Romano», disse Brenno comodamente sprofondato nei suoi grandi cuscini provenienti dal lontano oriente, «non me lo vuoi proprio dire cosa ci vai a fare nelle terre dei Trinovanti?»

    «Oh, è una storia lunga e andrebbe raccontata dal principio, non capiresti il perché di un simile viaggio se ti dicessi che sto semplicemente cercando una persona che non so neppure se sia ancora viva».

    Il mercante alzò il calice in segno di brindisi guardandomi. «Amico mio, abbiamo cibo, vino e tempo a volontà, potresti parlare per dieci giorni senza essere interrotto e poi…», si sollevò quel tanto che bastava per farsi versare dell’altro vino. «Sono maledettamente curioso. Ho vissuto una vita per mare chiedendomi cosa stesse succedendo sulla terraferma».

    Allungai a mia volta il calice verso l’inserviente e appoggiai la coppa sul ventre, osservando il colore rubino del vino che luccicava alla luce dalla lampada ad olio. «Bisogna tornare indietro negli anni Brenno, molti anni». Inspirai profondamente annusando il contenuto del calice. «Non so se in questo momento la mia memoria ha ancora la capacità di assistermi tanto lucidamente».

    «Siamo in buona compagnia allora, perché non so se la mia sarà tanto lucida da ascoltare tutto ciò che mi dirai».

    Mi guardai intorno con la testa che dondolava leggermente per il vino e per il movimento dolce del mare. Cominciai a tornare indietro nei solchi della mia memoria fino a che non mi apparvero delle immagini nitide.

    «Che anno memorabile, il seicentonovantottesimo dalla costruzione dell’Urbe…».

    III. Oceanus

    698 Ab Urbe Condita – 55 a.C.

    L’ancora era stata levata da poco tempo e già i fuochi di Porto Izio scomparivano lentamente alle nostre spalle tra il vociare dei legionari e gli ordini di manovra dei nocchieri.

    Voci che si perdevano tra il rumore della risacca e il buio della notte, trasportate da una leggera brezza che cominciava ad essere pungente in quel periodo dell’anno. L’estate stava volgendo al termine e in quelle terre rivolte a settentrione il freddo non avrebbe tardato a farsi sentire.

    Sulla grande nave da trasporto, bottino della guerra ai Veneti dell’anno precedente, c’era tutta la mia centuria al completo, e una parte della Seconda. Per una volta tanto non avremmo dovuto camminare per raggiungere la nostra destinazione ma gli uomini avrebbero preferito marciare con le proprie gambe a tappe forzate, piuttosto che ciondolare su quel legno che puzzava di pesce. Lo si capiva dal silenzio che era calato su tutti noi non appena guadagnammo il largo.

    Ricordo che seguitavamo a guardare oltre la prua convinti di vedere qualcosa, in realtà non si scorgeva neppure l’orizzonte, tutto era nero e solo a tratti si riusciva a distinguere la sagoma della nave che ci precedeva. Eravamo giunti alla fine di un’estate molto intensa e la mia legione era arrivata nelle terre dei Morini direttamente dal Reno, dopo quindici giorni di marce e un odioso massacro da dimenticare. Eravamo convinti di goderci gli ultimi giorni di caldo prima di acquartierarsi negli alloggi invernali, nessuno sospettava di dover addirittura imbarcarsi per la Britannia, non sapevamo neppure che una flotta si fosse radunata a Porto Izio.

    Molti di noi non erano neppure a conoscenza di dove fosse la Britannia. Sapevamo che era un’isola nascosta da nebbie perenni e che doveva essere sicuramente un luogo dimenticato dagli dèi. Alcuni sostenevano ci fossero ricchi giacimenti d’oro ma nessuno lo poteva confermare con certezza, solo pochi mercanti si erano spinti tanto lontano ma i loro racconti non avevano alcuna utilità militare. Ricordavano solo le zone della costa rivolte verso la Gallia ma non erano a conoscenza di porti o di cittadine fortificate come gli oppida.

    Nessuno aveva cognizione di quanto potesse essere grande l’isola e cosa racchiudesse. Si pensava addirittura che i mercanti con le loro scarse informazioni cercassero di tenere Roma fuori da qualche lucroso commercio. A quel tempo pensai che lo scopo di quella spedizione fosse stato quello di mettere finalmente piede su quell’isola per vedere cosa vi si nascondesse e nello stesso tempo, vista la fine della stagione calda e i pochissimi giorni di tempo favorevole a disposizione, dare una semplice ma efficace dimostrazione di forza, come quella data oltre il Reno il mese prima. Questo sarebbe servito a scoraggiare i Britanni ed evitare che mandassero contingenti di rinforzo ai Galli in futuro.

    Due legioni però non erano certo sufficienti per una invasione permanente, nello stesso tempo portare più uomini su un terreno sconosciuto avrebbe potuto causare enormi problemi per il rifornimento di cibo.

    Qualunque fosse stato il motivo, sta di fatto che in quel momento, stavamo dondolando tra le braccia di Nettuno intenti a fissare il buio, consapevoli che oltre quel cielo nero a prua, da qualche parte alla fine del mare oscuro, la Britannia ci stava aspettando con tutti i suoi misteri.

    Nello spazio che ci separava dalla costa Cesare ci stava aspettando con una decina di navi da guerra che straboccavano di sagittari e scorpioni⁸ pronti ad aprirci la strada contro eventuali difensori barbari. Alle nostre spalle ottanta navi da trasporto stavano seguendo la nostra stessa rotta cariche di fanteria pesante e poco più a settentrione cinquecento cavalieri ausiliari imbarcati su diciotto onerarie⁹ come la nostra, si stavano dirigendo verso il punto d’incontro dell’intera flotta, fissato per l’alba, al largo della costa.

    Non credo che quel mare, né tanto meno i Britanni avessero mai visto un simile spiegamento di forze, ma malgrado questo non eravamo per niente tranquilli e la tensione era palpabile. C’era chi continuava a controllare l’equipaggiamento, chi non si era ancora tolto l’elmo e chi scrutava il cielo inebetito in cerca delle stelle, consapevole che, in quei luoghi, le tempeste erano improvvise e disastrose per i naviganti.

    La luna sbucava a tratti dalle nubi squarciando le tenebre con i suoi colori bianco azzurri che scintillavano come zampilli incandescenti sui nostri elmi. Di tanto in tanto il mare sceglieva una vittima, allora un legionario si alzava e di corsa raggiungeva il parapetto per dare di stomaco fuori bordo.

    Il rollio faceva muovere tutto, nemmeno le stelle sembravano sottrarsi a quel dondolio e solo una figura si ergeva tra tutti camminando come se fosse saldamente piantata sulla terraferma. Si spostava avanti e indietro per la nave con passo deciso. La sua corazza muscolata era talmente lucida che sembrava non riflettere il chiarore lunare, ma risplendere di luce propria e il suo mantello color porpora, frustato dal vento, proiettava un’ombra irrequieta sulla vela.

    Era il centurio prior della legione, il primipilo, in altre parole il migliore di tutti. Non era alto di statura ed era decisamente poco aggraziato nei movimenti e nei modi di fare. Dal suo volto smussato sprizzavano, sotto le sopracciglia sempre severe, due iridi incandescenti come tizzoni che rendevano il suo sguardo tagliente come una lama. La voce poi, che fuoriusciva dalle labbra perennemente nascoste da una barba fulva ma curata, era uno schiocco di frusta. A dispetto di questo però era un uomo giusto, la cui forza nasceva dall’animo per poi trasmettersi a chiunque fosse sotto il suo comando. Era il più anziano, aveva sudato sangue per arrivare a quel grado e lo aveva fatto senza grazie o particolari raccomandazioni di tribuni o legati. Chi, come me, ha avuto la fortuna di conoscerlo bene non può che ricordarlo con ammirazione e con un leggero senso di invidia.

    Si chiamava Gaio Emilio Rufo e aveva alle spalle una carriera che avrebbe fatto impallidire chiunque. Le reclute non credevano possibile che lui avesse combattuto sia per Lucio Cornelio Silla che per Gaio Mario, ma era così. Aveva servito ancora ragazzo nella legione del legato Gaio Annio, sotto Silla, durante la guerra civile nella Penisola Iberica. Aveva avuto il suo battesimo in battaglia tra le nevi dei Pirenei e poi aveva combattuto contro gli uomini del generale mariano Sertorio per mare e per terra. Per motivi che nessuno sapeva era poi andato in Africa ad arruolarsi proprio sotto le insegne di Sertorio, nemico mortale di Silla, ma allo stesso tempo uno dei più grandi generali che la Repubblica avesse mai avuto, forse il migliore. Sotto di lui Emilio aveva combattuto e vinto per tutta la Spagna diventando centurione. Accadde durante la battaglia del fiume Sucrone, dove evitò di uccidere un alto ufficiale silliano che era stato disarcionato proprio ai suoi piedi. Quell’ufficiale era niente meno che Gneo Pompeo Magno.

    Quando la guerra finì Gaio Emilio Rufo, che faceva parte delle legioni sconfitte, venne incarcerato ma fu riconosciuto proprio da Gneo Pompeo Magno che lo liberò, lasciandogli il comando delle unità reintegrate nella Gallia Narbonense.

    Quando il proconsole Gaio Giulio Cesare iniziò la Campagna di Gallia prese con sé gli uomini di quelle unità, e ritrovando tra loro quel centurione lo fece diventare il primus pilus della Decima, affidandogli la cura delle sue reclute.

    Gli uomini impararono a temerlo più degli stessi nemici, perché da loro si potevano difendere, da lui potevano solo subire. Le sue esercitazioni erano massacranti e il suo bastone era conosciuto dalle schiene di tutti gli uomini sotto il suo comando; gli stessi ufficiali gli portavano il massimo rispetto. Inutile dire che pretendeva una disciplina ferrea e una obbedienza cieca, tutti quelli che passarono sotto di lui lo odiarono fino al primo vero scontro in campo aperto

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