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La piccola casa dei ricordi perduti
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La piccola casa dei ricordi perduti
E-book428 pagine6 ore

La piccola casa dei ricordi perduti

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Info su questo ebook

Una deliziosa storia d’amore che ha conquistato l’Inghilterra

«Leggere questo libro è stato come fare un viaggio in un posto nel quale avevo sempre desiderato andare.»

Emmy Jamieson arriva a La Cour des Roses, una bella pensione nella campagna francese, con l’intenzione di trascorrere due settimane di relax in compagnia di Nathan, il suo fidanzato. Tra loro c’è qualche problema, ma Emmy è certa che questa vacanza risolverà tutto. Si sbaglia… Neanche il tempo di disfare le valigie e Nathan se l’è già svignata con Gloria, la moglie di Rupert, il proprietario della pensione. L’uomo è scioccato ed Emmy, sentendosi in parte responsabile dell’accaduto, si offre di aiutarlo a gestire la pensione. Emmy ha il cuore a pezzi, ma si trova all’improvviso in una dimensione nuova, circondata da tanti amici. E anche da qualche uomo interessante: Ryan, il provocante giardiniere, e Alain, il ragazzo che si occupa dell’amministrazione, irritante ma bellissimo. Mentre Emmy si riappropria del proprio tempo e del contatto con la natura comincia a sentirsi a casa. Ma sarebbe una follia lasciare amici, famiglia e tutto ciò per cui ha sempre lavorato… O no?

Arriva in Italia la serie dei Ricordi perduti 
Grande successo in Inghilterra

L’amore a volte prende strade inaspettate

«Come il sole in una giornata nuvolosa, questo è un libro che scalda il cuore.» 
Shellyback Books

«Sole, croissant e un buon bicchiere di vino. Sembra la ricetta per la vacanza perfetta, invece...»

«Non riuscivo a smettere di leggere questo libro favoloso, pieno di umorismo e personaggi sfaccettati. Una meravigliosa lettura estiva!»
Helen Pollard
Scrive sin da quando era bambina e da sempre preferisce le storie dei romanzi alla vita reale. Pensa che la chiave per un libro di successo sia creare buoni personaggi. Le piace tratteggiarli, attraverso la sua scrittura, in un modo ironico e che li renda cari al lettore. Helen è membro della Romantic Novelists’ Association e della Society of Authors. La piccola casa dei ricordi perduti è il primo della serie dei Ricordi perduti.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2017
ISBN9788822709479
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    Anteprima del libro

    La piccola casa dei ricordi perduti - Helen Pollard

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    1667

    Titolo originale: The Little French Guesthouse

    Copyright © Helen Pollard, 2016

    Helen Pollard has asserted her right to be identified as the author of this work.

    All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in any retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording or otherwise, without the prior written permission of the publishers.

    Traduzione dall’inglese di Tessa Bernardi

    Prima edizione ebook: giugno 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0947-9

    Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    www.newtoncompton.com

    Helen Pollard

    La piccola casa dei ricordi perduti

    Newton Compton editori

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Epilogo

    Nota dell’autrice

    Per David,

    il mio amore, il mio migliore amico, la mia roccia

    Capitolo 1

    Vorrei poterti dire che è andata come in un film. Conosci il genere. L’eroina si erge fiera di sé, trasudando tutta la propria furia repressa. La soddisfazione del pubblico quando spedisce un vibrante ceffone in faccia al compagno. La drammatica ma dignitosa uscita di scena.

    Credimi, non ci fu niente di dignitoso. L’unica cosa che feci fu restarmene lì a tremare, con la rabbia e l’adrenalina che mi scorrevano in corpo come cani rabbiosi, aprendo e chiudendo la bocca nel tentativo di trovare le parole. Anzi, una parola qualsiasi. Sarebbe bastato persino un banale sbuffo scandalizzato, invece tutto ciò che mi riuscì fu un patetico pigolio.

    «Emmy, non è come sembra», si affrettò a dire Nathan, ma era ovvio che non potesse esserci altra spiegazione. Quando incespicai oltre la porta, la scena a cui dovetti assistere fu di una vivida ovvietà. Provò di nuovo a parlare, annaspando alla ricerca della dignità e della cintura. «Stavamo… Cioè, non mi aspettavo che tu…».

    Mi lanciai in una perfetta invettiva da donna ferita, neanche mi avessero passato il copione di una pessima telenovela.

    «No, ci scommetto che non te l’aspettavi…». Nella mia mente risuonò un flebile campanello d’allarme. «Come hai potuto? Bastardo, traditore! Non riesco a credere che tu…». Il tintinnio divenne più forte, più insistente, e si spostò verso la parte cosciente della mia mente. «Merda!». Con un sussulto colpevole, ricordai perché avessi fatto tutta quella strada fin lassù. «Gloria, devi chiamare un’ambulanza. Penso che Rupert stia avendo un attacco cardiaco».

    «Cosa?». Aggiustandosi il vestito, Gloria accolse con sconcerto l’improvviso cambiamento di discorso.

    «Rupert. Tuo marito, ricordi? Attacco cardiaco. Ambulanza». Le diedi una gomitata al braccio coperto di braccialetti per capire se il suo cervello stesse funzionando ancora o se il sesso fatto col mio ragazzo fosse più stupefacente di quanto io potessi riconoscergli.

    «Ommioddio. Ommioddio». Alla fine, i suoi neuroni storditi dalla lussuria recepirono il messaggio.

    «In cucina». Mi incamminai verso le scale. Per fortuna, la mia mente era tornata a concentrarsi sull’imminente emergenza e aveva accantonato l’immagine di Nathan e Gloria che ci davano dentro sulla terrazza sopra il tetto. Per il momento, stranamente, c’erano cose più importanti di cui preoccuparsi.

    «Che vuol dire, un attacco cardiaco?», mi gridò dietro Gloria. «Perché diavolo non l’hai chiamata tu l’ambulanza?»

    «Ci ho provato, ma poi mi sono resa conto che non sapevo il numero e, inoltre, il mio francese non è abbastanza buono», risposi, dandole le spalle. «Pensavo che avremmo fatto prima se l’avessi chiamata tu. Non avevo idea che fossi tanto occupata».

    «Ommioddio, Emmy. A quest’ora potrebbe essere morto!».

    Aveva ragione – a quell’ora poteva essere morto – ma, per mio immenso sollievo, quando raggiungemmo la cucina, Rupert era ancora in sé e se ne stava accasciato contro la parete, proprio come l’avevo lasciato. Avevo fatto del mio meglio, ma non mi ero aspettata di perdere istanti preziosi a causa del melodramma che si sarebbe svolto al piano di sopra. Non riuscivo a immaginare come mi sarei potuta sentire se avesse smesso di respirare.

    Mentre io e Nathan osservavamo l’ambulanza che si allontanava, il senso di panico si placò e le immagini che avevo accantonato tornarono ad affollarmi la mente con dettagli vividi e sgraditi.

    La cena alla pensione, noi quattro che ridevamo. Gloria che si assenta per fare una telefonata. Nathan che fa «solo un salto al gabinetto. Scusatemi, ho lo stomaco un po’ sottosopra». Discutere i pregi dei miei film preferiti con Rupert davanti a un bicchiere di vino. Il suo viso che diventava pallido e cereo mentre si sforzava di respirare, le vene che gli si gonfiavano sul dorso della mano mentre si stringeva il petto. Il modo in cui si era piegato ed era caduto dall’alto sgabello sul pavimento in pietra della cucina. Il mio cuore che batteva all’impazzata mentre rastrellavo la memoria in cerca di qualche nozione di primo soccorso, sbuffando e ansimando mentre lo spostavo per metterlo in quella che speravo fosse la posizione corretta per una vittima di infarto.

    E poi l’attimo tremendo in cui avevo afferrato il telefono, solo per rendermi conto che non avevo la più pallida idea di quale fosse il numero da comporre per chiamare l’ambulanza e che il mio francese scolastico da tempo dimenticato non mi permetteva di sollecitarne l’intervento. Urlare all’indirizzo di Gloria. Il silenzio in risposta. Nessuna replica dalla sua stanza. Correre di sopra, superare il pianerottolo, uscire sulla terrazza sul tetto nell’eventualità stranamente intuitiva che potesse aver fatto la sua telefonata al fresco… E poi quella scena da incubo. Le gambe di Gloria allacciate attorno alla vita di Nathan. Il tradimento peggiore.

    Eravamo solo al quarto giorno di vacanza, il nostro anfitrione era stato portato via di corsa in ambulanza e io avevo sorpreso il mio ragazzo in sconveniente intimità con la padrona di casa.

    I fanalini di coda scomparvero, lasciando le gîtes al di là del cortile avvolte dalle tenebre e i terreni in un silenzio tombale. A cinque chilometri dal paese più vicino e con una sola manciata di cottage e fattorie come vicinato, durante il giorno La Cour des Roses offriva una pace idilliaca, con le api che ronzavano e le galline che chiocciavano, ma non ero ancora riuscita ad abituarmi all’assenza di rumori della notte. Niente traffico incessante, nessun gruppetto di giovani ubriachi che rincasavano lentamente dopo l’uscita al pub, i rumori di sottofondo della vita urbana al rientro a casa.

    Rabbrividendo, chiusi la porta e tornai a voltarmi verso la grande cucina della fattoria. Sul tavolo di pino c’erano i bicchieri di vino semivuoti accanto agli avanzi del nostro pasto serale che si stavano congelando. Lo sgabello da cui era caduto Rupert era ancora adagiato su un fianco. Lo raddrizzai.

    Rilasciando il fiato che avevo trattenuto in qualche angolo recondito dei polmoni, valutai le alternative a mia disposizione. Avrei dovuto gridare e urlare? Oppure avrei dovuto mostrarmi calma e comprensiva?

    Quando mi girai, non aveva più importanza. Nathan attraversò la cucina e si incamminò su per le scale senza dire una parola. Caparbia, lo seguii fino in camera nostra, dove cominciò a spogliarsi dandomi le spalle, affinché non potessi incrociare il suo sguardo. Quando si tolse i jeans, che si era di recente calato per altri scopi, persi la pazienza.

    «Nathan, tutto questo è ridicolo. Dobbiamo parlare».

    «Em…».

    Ho sempre odiato che mi chiamasse così. Em. Come se non fossi altro che un’iniziale, una singola lettera.

    «Per l’amor del cielo, puoi almeno guardarmi?».

    Si voltò lentamente, con riluttanza, ma il suo sguardo non si posò veramente sui miei occhi, si soffermò piuttosto su un punto in prossimità del mio orecchio sinistro.

    «Cosa?», chiese in tono cupo.

    «Come puoi chiedermi cosa? Non pensi che dovremmo parlare di quello che è accaduto?»

    «No, non stasera». Incrociò il mio sguardo, ma fu ancora più sconcertante di quando l’aveva evitato. Nei suoi occhi non riuscivo a scorgere alcunché. Rimorso, amore, sofferenza. Niente.

    «Perché no?», insistetti.

    «Perché è tardi e sono esausto, ecco perché».

    «Sì, ci scommetto. Sia tu che Gloria sarete esausti!».

    «Oh, per l’amor del cielo, Emmy, piantala di essere così infantile».

    «Io? Infantile?». Lo fissai a bocca aperta. «Come puoi dirmi una cosa simile? Sono io quella che vuole affrontare il discorso da adulti. Sei tu quello che si sta comportando in modo infantile!».

    Si passò una mano tra i capelli con fare impaziente. «Non c’è niente di infantile nel riconoscere che mezzanotte e mezza non è l’orario migliore per affrontare una discussione seria».

    «Non parlarmi come se stessi organizzando una stramaledetta riunione d’affari! Voglio sapere cos’hai da dire in tua discolpa!».

    Nei suoi occhi apparve un’espressione impaurita, e io titubai. Non avrebbe dovuto provare paura, pensai. Avrebbe dovuto sentire la necessità di spiegarsi, di scusarsi, preferibilmente di strisciare. Quella sua natura calma e placida, così poco virile e gradita quando ci eravamo conosciuti, mi dava improvvisamente sui nervi.

    «Mi hai sentito, Nathan?».

    Si accigliò. «Non c’è bisogno di usare quel tono di voce, Em. Non sei mia madre».

    Feci un respiro affannoso, furibonda per tanti motivi diversi. Il fatto che avesse usato di nuovo quel maledetto monosillabo al posto del mio nome. L’insinuazione che sarebbe stato normale se sua madre lo avesse interrogato, mentre non stava bene che lo facessi io. L’idea insopportabile che potesse paragonarmi a quella strega pomposa, onnipresente e dispettosa. L’accenno al fatto che non mi fossi rivelata poi così simile a sua madre come avrebbe sperato.

    «No, non sono tua madre, grazie al cielo. Ma, dato che abbiamo passato insieme gli ultimi cinque anni della nostra vita, penso di avere il diritto di chiederti perché diavolo hai fatto sesso con quella… quella ninfomane! Deve avere almeno dieci anni più di te!».

    Si impermalosì. «Ne dubito. E poi, non capisco cosa c’entri l’età. Rupert deve andare per la sessantina, perciò, tanto per cominciare, c’è una bella differenza d’età anche tra loro».

    «Sì, e guarda come se la stanno passando bene», replicai. Al che, Nathan ebbe almeno la decenza di sembrare imbarazzato. «E comunque, non stiamo parlando dei perché e dei percome del matrimonio di Rupert e Gloria. Stiamo discutendo del perché hai fatto sesso con metà di quella coppia».

    Nathan fece una smorfia. «Senti, io… io ho bevuto troppo». Scrollò le spalle, come se con quelle parole avesse messo fine alla questione in modo perfettamente accettabile.

    Scrutai il suo viso in cerca di tracce del ragazzo divertente, gentile e di una bellezza dimessa con cui avevo vissuto, ma non vidi altro che un adolescente recalcitrante nel corpo di un uomo di trentatré anni, che doveva sapere di essere nel torto ma non riusciva a tirare fuori le palle per ammetterlo.

    «Non è sufficiente». Scossi la testa con talmente tanta violenza da farmi male da sola. «La gente non fa sesso con chicchessia solo perché ha bevuto un bicchiere di troppo. Se avessi voluto, avresti potuto tenerlo chiuso nei pantaloni».

    Nathan aprì la bocca per replicare, poi la richiuse. Senza dubbio si era reso conto di non avere giustificazioni. Così si voltò verso il bagno. Quel suo continuare a darmi le spalle stava davvero cominciando a stufarmi.

    «Non te ne andare, Nathan», lo ammonii. «Questa conversazione non è finita».

    Si lanciò un’occhiata oltre la spalla. «Forse tu non hai finito, Emmy, ma io sì. Per stanotte, almeno. Se tu non l’avessi notato, ci vogliono due persone per tenere una conversazione».

    Ciò detto, entrò in bagno e chiuse la porta. Neanche una parola in più in merito alla sua scappatella, solo il rumore dell’acqua corrente e del dentifricio sputato.

    Furiosa, cominciai a spogliarmi, ma ero talmente arrabbiata che alla mia maglietta preferita si ruppe una cucitura mentre me la sfilavo dalla testa. Fantastico. In piedi al centro della stanza, solo con l’intimo, mi imposi di calmarmi prima che mi venisse una qualche crisi e cercai di concentrarmi e di respirare in modo regolare. Quando fui certa di non essere sul punto di seguire l’esempio di Rupert, finii di svestirmi, mi misi una maglietta da notte sformata e osservai il letto con disgusto. Immagini di Nathan e Gloria avvinghiati invasero la mia mente stanca.

    Cosa diavolo stavo facendo? Non era proprio possibile che potessi infilarmi nel letto accanto a Nathan come se non fosse successo niente. A quel punto, non sapevo neanche se avrei mai più voluto condividere un letto con lui.

    Magari avrei potuto spostarmi in un’altra stanza; al momento non c’erano altri ospiti nella pensione. O magari avrei dovuto far spostare Nathan. Date le circostanze, Gloria non avrebbe proprio potuto trovare niente da ridire.

    Uscita sul pianerottolo, aprii con cautela la porta della camera accanto alla nostra. Sul letto non c’erano lenzuola. L’esplorazione delle altre due stanze portò alla stessa rivelazione. Presi in considerazione l’idea di localizzare la biancheria per rifare il letto e di trasferire tutta la mia roba. Su una cosa, però, Nathan aveva ragione. Era tardi.

    Doveva essere lui a spostarsi.

    Quando tornai in camera nostra, era ancora in bagno. Forse si stava nascondendo. O stava sbollendo la rabbia. O entrambe le cose. Cominciai a disfare il letto. Uno dei due poteva prendere le lenzuola, l’altro il piumone.

    Quando alla fine riapparve, osservò con sgomento tutta quella confusione. «Cosa diavolo stai facendo?»

    «Io non sto facendo niente. Tu, invece, ti trasferisci in un’altra stanza».

    «A quest’ora della notte? Stai scherzando!».

    Il sangue mi ribolliva in modo sgradevole. «Io direi che non c’è proprio niente da scherzare, no?».

    Provavo talmente tanta frustrazione nei suoi confronti che avrei potuto pestare i piedi a terra come una bambina di due anni. Io e Nathan litigavamo di rado, ma, nelle rare occasioni in cui capitava, riusciva a dimostrarsi abbastanza caparbio e non voleva prendere parte alla discussione. Laddove il mio carattere aveva la tendenza a infiammarsi, grazie ai geni del rutilismo di mia madre, Nathan era abilissimo a evitare i confronti e ad aspettare che i miei sbalzi d’umore andassero e venissero senza lasciarsi coinvolgere troppo. Avevo sempre pensato che fosse una delle sue qualità, restava calmo e pacato dinnanzi alle mie emozioni oscillanti. In quel momento, sapevo che stava soltanto nascondendo la testa sotto la sabbia, nella speranza che di lì all’indomani sarebbe passato tutto.

    «Se stanotte non hai intenzione di parlarne, va benissimo. Ma non dormirai nel mio letto». Gli gettai il cuscino e un lenzuolo, poi sfilai una coperta di scorta dall’ultimo ripiano dell’armadio e gli tirai anche quella.

    Mentre se ne stava lì a tentennare, le braccia cariche di biancheria per il letto, quasi mi aspettavo che chiedesse perché dovesse essere proprio lui a spostarsi. Saggiamente, non lo fece. Scosse la testa, aprì la porta, uscì caracollando e la richiuse sbattendosela alle spalle, un gesto che perse il proprio impatto drammatico quando il lenzuolo ci rimase incastrato dentro.

    Mi appollaiai sullo sgabello davanti alla toeletta. Detergere, tonificare, idratare. La circostanza che il mio ragazzo avesse fatto sesso con una donna che a malapena conosceva non significava che io dovessi diventare sciatta. Quando finii di strofinare, valutai i risultati. Ero rossa e piena di chiazze. Delizioso.

    Mi osservai con una sorta di affascinato distacco. Ignorando il rossore che mi ero procurata da sola, non pensai di essere così male per avere trentun anni. Magari alla mia freschezza giovanile serviva un piccolo aiutino cosmetico di tanto in tanto, e qualche sporadico colpo di sole poteva anche essere l’unica cosa grazie alla quale evitavo che i miei capelli apparissero spenti, ma non ero tanto diversa dalla donna accanto alla fotocopiatrice a cui cinque anni prima Nathan aveva chiesto di uscire. Da quanto mi era parso di capire, invece, la bellezza di Gloria era tutta artificiale, con i capelli biondo miele, le rughe sottili coperte dal fondotinta e dall’autoabbronzante. Perché andare a letto con lei quando aveva me?

    Dopo essermi lavata i denti con un po’ di forza in più rispetto a quella a cui le mie gengive erano abituate, mi infilai nel letto, sapendo già che non ci sarebbero state speranze di dormire. Non riuscivo a credere che Nathan si fosse lasciato sorprendere in quel modo e sembrasse pensare che fosse normale non parlarne. Ma, d’altro canto, era in linea con quello che eravamo diventati negli ultimi tempi.

    All’apparenza, la nostra vita era abbastanza normale. Ci svegliavamo, andavamo al lavoro, tornavamo a casa. Ci giravamo attorno fingendo di non essere affamati, nella speranza che l’altro si offrisse di preparare qualcosa al volo, finché uno dei due si arrendeva e infilava un piatto precotto nel microonde. Ce ne stavamo in panciolle davanti alla televisione. Il sabato, facevamo la spesa e le pulizie insieme. Vale a dire che io mi occupavo della spesa e delle pulizie, mentre Nathan trovava qualche commissione urgente da sbrigare che comportasse fare un salto nel negozio di computer più vicino e giocare con gli ultimi congegni usciti. La domenica, leggevamo il giornale a letto, cosa che mi piaceva, e ogni tanto andavamo a trovare i suoi genitori o i miei, un’odissea per la quale nessuno dei due impazziva e che avevamo l’abitudine di posticipare finché non venivamo rimproverati da una delle due coppie o da entrambe. Era diventata una specie di routine, ma persino io avevo cominciato a trovarla abbastanza noiosa.

    Peggio ancora, avevo notato che non stavamo più parlando davvero. Dopo cinque anni soltanto, ci stavamo già trasformando in una di quelle coppie che si vedevano giù al pub? Quelle che se ne stavano sedute per un po’ senza quasi scambiarsi una parola perché si erano già dette tutto nel corso degli anni e non gli era rimasto altro da dire?

    «Ti ho parlato della serra di Derek e del…?»

    «Sì».

    «Oh».

    «Marjorie mi ha raccontato che il veterinario ha detto a Doris che il suo gatto avrebbe dovuto…».

    «Lo so».

    «Giusto».

    Cenare davanti ai telefilm, un bacetto sulla guancia all’inizio e alla fine della giornata, i ligi tentativi di mostrare un interesse per ciò che entusiasmava uno dei due, anche se all’altro non gliene fregava niente.

    Non succedeva alle persone più avanti con gli anni? Molto più avanti con gli anni?

    Gloria tornò alle tre e venti. Ancora sveglissima, sentii il rumore delle ruote – presumibilmente di un taxi – sulla ghiaia, di una portiera sbattuta, una o due parole in francese al conducente. Lo scricchiolio dei passi, lo sbattere della porta d’ingresso. Il ticchettare delle scarpe nell’atrio. Niente indicava che Rupert fosse con lei, e mi chiesi se stesse bene. Doveva essere così, pensai, altrimenti non sarebbe di certo tornata a casa, no?

    Un paio di minuti dopo, sentii un altro rumore più sinistro. Lo scricchiolare delle assi di legno. Una porta che si apriva sul pianerottolo. Nathan.

    Schizzai fuori dal letto e aprii la porta di camera mia talmente in fretta che quasi mi feci venire un’ernia al disco.

    «Dove pensi di andare?».

    Girò su se stesso, un piede sul primo gradino della scala. «Io…».

    «Non venirmi a dire che ti andava uno spuntino di mezzanotte o un bicchiere di latte, Nathan, perché non regge. Ho sentito Gloria rientrare».

    «Sì, be’, anch’io», replicò con spavalderia. «Perciò ho… ho pensato di fare un salto da basso e vedere come sta Rupert».

    Roteai gli occhi. «Una storiella credibile. Non puoi venirmi a dire che sei in pensiero per l’uomo che stava avendo un attacco cardiaco mentre tu eri occupato a fare sesso con sua moglie!».

    Nathan increspò le labbra. «Non è che le due cose siano collegate, Em. Si dà il caso che abbia avuto un crollo nello stesso momento in cui noi stavamo facendo sesso. L’una non ha provocato l’altra. Inoltre, ti ho già detto che stanotte non ne voglio parlare. Men che meno ora che è tornata Gloria».

    La curiosità ebbe la meglio, per un attimo, sulla rabbia. «Perché diavolo dovrebbe fare qualche differenza?»

    «Potrebbe sentirci», sibilò. «Non siamo a casa nostra. Non sarebbe decoroso».

    Non riuscivo a credere alla sua faccia tosta. Mi ribolliva il sangue. Probabilmente nelle mie arterie ci si sarebbero potute cuocere delle uova.

    «Decoroso! Credo che l’atteggiamento decoroso sia già stato messo da parte qualche ora fa. Non venirmi a parlare di decoro!».

    Spostò il peso del corpo da un piede all’altro, a disagio. «Emmy, stai alzando la voce. È proprio questo il motivo per cui non volevo parlarne».

    Alzai ancora un po’ il volume per il semplice gusto di far crescere di pari passo il suo livello di imbarazzo. «Che differenza fa? Non c’è nessuno a parte Gloria, e lei è al piano di sotto. E poi, nell’eventualità che quella donna abbia un udito supersonico, penso che riconoscerai che è già a conoscenza della nostra attuale situazione, visto che ha rivestito uno dei ruoli principali nell’accaduto».

    «Oh, insomma, Emmy, smettila di fare la melodrammatica».

    Tornò in camera sua sbattendo la porta, lasciandomi senza scuse, senza promesse, senza alcuna soddisfazione.

    Di nuovo nel mio letto, con entrambe le orecchie puntate in ascolto di altri eventuali movimenti sul pianerottolo, maledissi Gloria e la sua pensione di merda. Se non fossimo andati lì, non sarebbe mai successo niente del genere. Già che c’ero, maledissi anche me stessa, dato che era stata una mia brillante idea. Avevo pensato che una vacanza avrebbe risollevato il nostro morale a terra. Che ci avrebbe aiutato a rilassarci. Che avrebbe ravvivato le cose.

    Quando gliel’avevo proposto, Nathan non si era dimostrato entusiasta all’idea, ma io, nella mia ingenuità, l’avevo preso come un segnale della sua incapacità di allontanarsi dall’ufficio.

    «Oh, Emmy, no. Sai che è impossibile. Ho le consegne. Tu hai le consegne. Non combaciano mai. Ci siamo già passati».

    Io e Nathan ci eravamo conosciuti al lavoro. Con lui che lavorava come contabile e io come assistente del responsabile del reparto marketing nella stessa azienda, era quasi impossibile organizzare le vacanze, ma stavolta mi ero mostrata risoluta. Ne avevamo bisogno.

    «Nathan, è una vita che non ci facciamo una vera vacanza».

    Lui aveva aggrottato la fronte. «L’anno scorso siamo andati a Bath».

    «Era solo un weekend lungo».

    «E anche a Exeter», aveva aggiunto, infervorandosi per l’argomento.

    Io avevo sospirato, esasperata. «Anche quello è stato solo un weekend lungo». Gli impegni ci avevano da tempo portati a rinunciare a delle vere e proprie vacanze e a optare invece per dei piccoli ponti dai prezzi esorbitanti.

    «Be’, siamo stati bene, no?», aveva detto Nathan, quasi con lo stesso entusiasmo che mettevo io di fronte alla prospettiva di un fine settimana con i suoi genitori.

    «Sì, siamo stati bene, ma non facciamo una vera vacanza da quando siamo andati in Grecia». Tornai indietro con la mente. «Quasi due anni fa».

    Nathan aveva sbuffato. «Troppo caldo».

    Mi ero sforzata di essere paziente. «Non dobbiamo andare in un posto caldo, Nathan, ma abbiamo bisogno di una vera vacanza di due settimane da qualche parte».

    «Due settimane!», aveva strillato. «Prima che coordiniamo i nostri impegni e prenotiamo tutto, ci ammazziamo per finire tutto il lavoro prima di partire e poi ci ammazziamo per rimetterci in pari una volta tornati, dubito che ne valga la pena».

    Certo, il senno di poi era una cosa meravigliosa. Ora potevo guardarmi indietro e chiedermi se la riluttanza di Nathan fosse soltanto dovuta alla dedizione al lavoro. Forse non gli andava l’idea di passare due intere settimane di vacanza con me.

    Avevo insistito. «Io penso che ne valga la pena». Ero irremovibile, e lui lo sapeva.

    «D’accordo, se è quello che desideri, ma dovrai sgobbare come un mulo». Il suo tono rassegnato era riuscito a deprimermi oltre ogni dire. «Vai, prenota qualcosa. Quello che preferisci». Aveva alzato gli occhi dal portatile giusto il tempo per rivolgermi un sorriso frettoloso che non gli aveva raggiunto gli occhi, poi era tornato nella terra dei fogli di calcolo.

    Alle parole quello che preferisci, molte donne avrebbero fatto i salti di gioia e prenotato un soggiorno di quindici giorni in un hotel cinque stelle ai Caraibi, e non posso certo dire che il pensiero non mi abbia attraversato la mente, ma in me si era insinuato il sospetto che un paradiso remoto potesse essere un’arma a doppio taglio. Sì, saremmo stati insieme, senza niente da fare se non rilassarci e parlare. Però, se avessimo scoperto che non avevamo niente da dirci, quelle due settimane di sole e sabbia, con la consapevolezza appena raggiunta che la nostra relazione non era altro che una palla piena delle solite vecchie cagate, sarebbero durate due settimane di troppo.

    No, quello di cui avevamo bisogno, avevo pensato, era un posticino tranquillo e rilassante dove avremmo avuto l’opportunità di aprirci l’uno con l’altra, di riscoprire perché ci eravamo innamorati, e se poi fosse andata male, dell’idea di conoscere qualche altro essere umano nei paraggi e di un sacco di cose da vedere su cui ripiegare.

    Perciò eccoci qui a La Cour des Roses, un’incantevole pensione nella famosa regione francese della Loira, dove sarete accolti e coccolati dai gioviali padroni di casa, Rupert e Gloria. Rilassatevi nel nostro splendido giardino o esplorate la tranquillità della campagna, i colorati paesini dei dintorni, gli imponenti châteaux….

    Sul sito sembrava fantastico.

    Capitolo 2

    La mattina dopo la caduta in disgrazia di Nathan, mi alzai al canto del gallo, o, per essere più precisi, al razzolare delle galline. Non avevo pensato di chiudere le persiane prima di andare a dormire e, mentre la luce dell’alba filtrava dalle tendine di veletta, capii che, se il sonno non era giunto durante la notte, era improbabile che sarebbe arrivato in quel momento.

    Penosamente consapevole del cuscino vuoto accanto a me, mi misi seduta e lanciai un’occhiata alla camicia e ai jeans di Nathan, piegati sulla piccola poltroncina imbottita nell’angolo della stanza, il portafogli e l’orologio disposti con cura sulla splendida superficie marmorizzata dell’antica toeletta. Un grosso armadio in coordinato dominava la parete ai piedi del letto, ma la camera era abbastanza spaziosa da ospitarlo. Le tinte azzurro pastello delle lenzuola e dei cuscini, nonché dei tappeti sul parquet lucido, aggiungevano una nota di piacevole e rilassante contrasto ai toni caldi e mielati del legno.

    Infilata una felpa, scesi con passo furtivo al piano di sotto e uscii sul patio, dove io e le galline potemmo unirci in raccoglimento in santa pace. L’aria mattutina era ancora pungente, perciò entrai a prendere un plaid e mi distesi su una sdraio bagnata di rugiada con la lana calda tirata su fino al mento, come un’anziana signora in crociera. Fissai la lunga striscia di prato, interrotta qua e là dalle aiuole colorate, dai piccoli alberelli ornamentali e da vecchie lastre di pietra sprofondate nell’erba che conducevano ad angoletti nascosti, ai pergolati in mezzo ai cespugli d’arbusti più fitti e agli alberi che delimitavano il giardino… ma trassi poco piacere da quella che avrebbe dovuto essere una vista bellissima.

    Non importava quanto fosse delizioso quel posto: mi era chiaro che trasferirci in una sistemazione diversa doveva essere la nostra priorità assoluta. Nathan aveva commesso un grosso errore. Avevo tutto il diritto di essere turbata, ma cose del genere capitavano di continuo alle coppie. Non era possibile che per lui Gloria significasse qualcosa. Stavamo insieme da troppo tempo per gettare via tutto a causa di un errore di valutazione. E non potevamo fare alcun progresso avendo sotto il naso la prova della sua infedeltà.

    Tanto per cambiare, passai a preoccuparmi per Rupert. Negli ultimi giorni avevo cominciato ad affezionarmi a lui, anche se sospettavo che fosse una persona che si imparava ad apprezzare col tempo. A Nathan non stava affatto simpatico. Se lui era taciturno (a volte addirittura scontroso, ora che ci pensavo), Rupert era l’esatto opposto: chiassoso e borioso, talvolta persino sfacciato. Se non fosse stato per l’inquietante conversazione che avevamo avuto la mattina successiva al nostro arrivo, avrei attribuito l’avversione di Nathan a un semplice scontro di personalità.

    Eravamo seduti in giardino a riprenderci dal viaggio e, mentre mi crogiolavo nella bellezza che ci circondava – i prati curati, i fiori della tarda primavera, gli alberi rigogliosi –, ero stata talmente sciocca da aprire bocca e dare voce ai miei pensieri.

    «Posto magnifico, vero?», avevo mormorato.

    Nathan si era guardato attorno, valutando in silenzio l’ambiente. «Mmm. Chissà quanto gli costa».

    Mi ero puntellata su un gomito e gli avevo lanciato un’occhiata. Sempre a fare calcoli. Se solo lo attribuissi alla curiosità professionale, potrei perdonargli commenti simili.

    «Non ne ho idea», avevo tagliato corto.

    «L’altra sera, a cena, ha detto che quando lo comprò era un rudere, quindi è probabile che l’abbia preso a poco. Risistemarlo, però, dev’essergli costato una fortuna». Nathan aveva allungato il collo per osservare la casa, dove il fogliame verde scuro si arrampicava sui muri di pietra grigia. In alcuni punti la pietra sembrava più antica, quasi prossima a sgretolarsi, mentre in altri era stata rattoppata, ma le tegole rosse del tetto davano colore alla facciata e le persiane verniciate di blu che facevano da sentinella a ogni finestra erano belle e invitanti. Nathan aveva accarezzato con gli occhi l’ala imbiancata di fresco che ospitava gli alloggi di Rupert e Gloria, costruita accanto alla casa, con ciò che restava di un vecchio frutteto a separarla dalla strada. «La ristrutturazione della fattoria. Quell’ampliamento», aveva mormorato. «Le gîtes al di là del vialetto. Non dev’essere costato poco convertire una vecchia stalla come quella. E pare che i terreni fossero incolti quando si trasferirono qui».

    Avevo lanciato un’occhiata alle siepi di lavanda che delimitavano il cortile tra la casa e le gîtes, una lunga costruzione con una facciata di pietra grezza, color crema e grigia, e tre portoni di legno, ciascuno circondato da viticci d’uva rampicante. «Be’, hanno fatto un ottimo lavoro», avevo commentato con ammirazione.

    Nathan aveva annuito frettolosamente. «Sì, ma dove ha preso i soldi, eh, Emmy? Non ci ha mai detto che lavoro facesse prima che si trasferissero qui».

    «Non sono affari nostri, non trovi?».

    Nathan aveva increspato le labbra in un ghigno sgradevole. «Accento da snob. Probabilmente è nato con la camicia. Non sembra il tipo che abbia mai dovuto lavorare per guadagnarsi da vivere».

    Avevo inarcato un sopracciglio, sorpresa. Quello era un lato di Nathan che non mi era familiare, e non ero del tutto sicura che mi piacesse.

    «Devono aver faticato parecchio per creare questo posto», li avevo difesi, abbracciando con un gesto della mano quella che per le due settimane successive sarebbe stata casa nostra.

    «Dubito che sappia cosa significhi faticare», aveva bofonchiato Nathan. «Scommetto che ha pagato qualcuno mentre lui si è limitato a gironzolare e a guardare. Che culo che ha».

    L’avevo guardato con aria perplessa. «Che importanza ha? Ci sarebbe da lamentarsi se avessimo pagato tutti quei soldi e non fosse un bel posto. Non possiamo godercelo e basta?».

    Nathan si era lasciato cadere di peso sulla sua sdraio, mettendo il broncio, e anch’io ero tornata a distendermi, ma il mio buonumore era svanito.

    Mi ero domandata se non saremmo stati meglio in una delle gîtes, riducendo in tal modo i contatti tra Nathan e Rupert, ma quel pensiero aveva avuto breve vita. Sapevo per esperienza che la sua idea di casa-vacanza dove potevamo cucinare in autonomia era aggirarsi per il supermercato tra brontolii e occhiatacce alle marche sconosciute, per poi starsene fuori dai piedi mentre io mi occupavo di cucinare e di pulire. Vitto escluso erano le parole chiave. La prima volta che era successo, in Spagna, ero talmente compiaciuta e soddisfatta per la recente conquista maschile che non avevo fatto caso alla disparità dell’organizzazione. Non potevo certo dire altrettanto per la Grecia, dove avevamo preso un monolocale talmente

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