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Gli insospettabili delitti della casa in fondo alla strada
Gli insospettabili delitti della casa in fondo alla strada
Gli insospettabili delitti della casa in fondo alla strada
E-book420 pagine6 ore

Gli insospettabili delitti della casa in fondo alla strada

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Info su questo ebook

«Un libro davvero inquietante con grandi personaggi.»
Stephen King

Un grande thriller

Tutti gli abitanti di Beulah Grove numero 23 hanno un segreto. Se non fosse così, non avrebbero affittato in contanti e senza contratto delle lerce stanze in un vecchio edificio malmesso. Quello è il tipo di posto in cui si può finire quando non si hanno alternative. I sei inquilini dello stabile fanno vite solitarie e non si può certo dire che curino i rapporti di buon vicinato, ma in un’afosa notte d’estate, un terribile incidente li costringe a stringere una strana alleanza. Quello che non sanno è che uno di loro è un assassino. Ha già scelto la prossima vittima, e farà di tutto per proteggere il suo segreto.

Conosci davvero i tuoi vicini?

«Un libro davvero inquietante con grandi personaggi.»
Stephen King

«Un thriller psicologico macabro e angosciante, che a suo modo è anche una storia d’amore e amicizia.» 
The New York Times

«Un racconto potente con un cast di personaggi memorabili e una tensione fortissima. Alex Marwood dimostra di saperci fare.»
Kirkus Reviews

«La Marwood sta emergendo come un vero maestro della suspense britannica contemporanea.»
Booklist
Alex Marwood
È lo pseudonimo di una giornalista inglese. Il suo libro di esordio, The Wicked Girls, ha vinto il premio Edgar come il miglior romanzo. Gli insospettabili delitti della casa in fondo alla strada, suo secondo lavoro, ha vinto il premio Macavity come Miglior Romanzo Mystery, ed è stato selezionato per i premi Anthony e Barry come miglior Paperback Originale. James Franco e Ahna O’Reilly hanno acquisito i diritti per realizzarne un film. Marwood vive a sud di Londra e sta lavorando al suo prossimo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita15 giu 2016
ISBN9788854196216
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    Anteprima del libro

    Gli insospettabili delitti della casa in fondo alla strada - Alex Marwood

    1331

    Titolo originale: The Killer Next Door

    Copyright © Alex Marwood 2013 All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Roberta Maresca

    Prima edizione ebook: settembre 2016

    © 1989, 2006, 2016 Newton Compton editori s.r.i.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9621-6

    Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    www.newtoncompton.com

    Alex Marwood

    Gli insospettabili delitti della casa in fondo alla strada

    Newton Compton editori

    A Cathy Fleming,

    sorella meravigliosa e fantastica amica

    Com’è la tua mente, così è la tua ricerca;

    troverai quello che desideri.

    Robert Browning

    Prologo

    Controlla l’orologio e manda giù gli ultimi sorsi di caffè. «Okay. La signorina Cheryl dovrebbe aver finito la sua pausa sigaretta. Andiamo».

    La conduce verso la stanza degli interrogatori e si specchia furtivamente nel vetro retinato di una porta. L’ispettore Cheyne è un po’ troppo vecchia per i suoi gusti, ma è una bella donna. Ha i lineamenti un pochino induriti, tuttavia una vita nella polizia investigativa non permette di conservare un’innocenza fanciullesca. Non è da scartare, comunque. Le donne che capiscono perché hai degli orari di lavoro non ortodossi sono pochissime; quelle attraenti sono ancora meno.

    «Le dico subito che è piuttosto stanca e nervosa, e ci sono ancora parecchie questioni da affrontare, perciò è meglio che faccia una cosa rapida», la informa.

    «Certo», risponde lei. «Non penso che ci vorrà molto, comunque. Che tipo è? Collabora?»

    «È incazzata», replica lui. «È sotto la custodia dei servizi sociali, perciò può immaginare. È un po’ scontrosa. E non è proprio una cima. A proposito: è inutile chiederle di leggere qualcosa».

    «Va bene. Sarà almeno capace di guardare una fotografia?»

    «Oh. Penso di sì. Tentar non nuoce, comunque».

    Cheryl Farrell è tornata nella stanza degli interrogatori dopo la pausa sigaretta, il gomito destro appoggiato sul tavolo e il viso rigato dalle lacrime adagiato in modo stanco sulla mano fasciata. È pallida e, dal sudore sulla sua fronte, l’ispettore Cheyne intuisce che sente ancora un po’ di dolore. Il rosa carne della fascia ortopedica che le tiene ferma la clavicola non s’intona alla sua carnagione. Sarebbe carina, pensa l’ispettore Cheyne, se non fosse per l’aria scontrosa. Pelle marrone dorata, capelli afro schiariti fino a diventare color bronzo ramato, sopracciglia iperdepilate, occhi castani a mandorla che si alzano al cielo non appena vedono la nuova arrivata.

    L’avvocato sembra incollato alla sedia da una decina d’anni. Scribacchia furiosamente. L’assistente sociale è seduta accanto alla ragazza, ha una pettinatura pratica, scarpe comode e l’ipocrisia tipica dei nuovi laburisti. «Fatto!», esclama in tono gaio. «Ha inalato la sua dose di veleno».

    «Oh, vaffanculo». La ragazza le rivolge uno sguardo che farebbe sciogliere anche il ghiaccio.

    Anche Merri Cheyne vorrebbe tanto farsi due tiri. Quelle pastiglie alla nicotina le danno un terribile mal di stomaco. Ignora l’assistente sociale – ha scoperto che il più delle volte è la cosa migliore da fare, se ci riesci – e si siede dall’altra parte del tavolo, accanto a Chris Burke. Cheryl si volta verso l’agente Barnard e lo guarda in cagnesco.

    «Allora, che volevate sapere?». L’accento di Liverpool è incredibilmente marcato per una che vive al sud da tanto tempo.

    «Il televisore», risponde l’agente Barnard.

    «Ah, già».

    Segue il silenzio. Si stravaccherebbe, se il sostegno che ha sulla spalla non glielo impedisse. È vero, non è una cima, pensa l’ispettore Cheyne. Mi aveva avvisata.

    L’agente Barnard si schiarisce la voce. «Allora, dicci del televisore, Cheryl. Com’è arrivato in tuo possesso?»

    «Come?»

    «Dove l’hai preso, Cheryl? Da dove arriva?»

    «Ah». La ragazza inspira rumorosamente e si asciuga il naso con il dorso della mano. «È stato lui a dirmi che non gli serviva», risponde. «Ne aveva comprato uno nuovo e mi ha chiesto se volevo quello».

    «E non ti sei chiesta come mai volesse regalarti un televisore?»

    «Sapevo benissimo perché voleva regalarmelo», ribatte, con un’occhiata di sfida.

    «E tu lo hai accettato?»

    «Non ci ho scopato per avere un televisore di seconda mano, se è questo che mi sta chiedendo. Ma la legge non vieta mica di accettare regali da uno che pensa di poter rimediare una scopata, giusto?»

    «Questo è vero».

    «Comunque mi serviva un televisore. Vi rendete conto di quanto sia palloso stare senza soldi e senza televisione? Non avevo intenzione di fargli un...». Guarda furtiva l’assistente sociale per capire se sta per perdere la pazienza. «...pompino, ma non volevo nemmeno mandarlo a quel paese».

    «Be’, era evidente che le cose si sarebbero messe male quando...».

    «Chissenefrega», lo interrompe Cheryl. «La maggior parte di voi», scruta di nuovo la sua sorvegliante, «pensa di poterci mettere le mani addosso in cambio di un pacchetto di patatine e una Fanta. Io almeno volevo un televisore».

    L’assistente sociale s’irrigidisce, offesa. Incredibile, pensa l’ispettore Cheyne. Anche dopo un diluvio di scandali, fanno ancora gli gnorri quando qualcuno insinua che neanche loro sono perfetti.

    «E quando è successo questo...?»

    «Non lo so. Due, tre settimane fa? Molto prima che il tempo cambiasse. Faceva ancora un caldo boia e lui continuava a guardarmi le tette perché portavo una canotta. Pensavo che fosse il solito vecchio porco. Ma dai. Nessun altro avrebbe mai pensato che stesse combinando qualcosa. Pensate che sarei rimasta in quella casa, se lo avessi saputo?»

    «Quindi secondo te neanche i tuoi vicini avevano dei sospetti?»

    «No! Ve l’ho detto! Quel posto puzzava di merda, ma non era la prima volta che mi capitava di stare in un posto che puzzava di merda. Comunque ognuno si faceva gli affari suoi. Non abbiamo mai scambiato due parole prima che succedesse quello che è successo. Non eravamo coinquilini o roba del genere. Non eravamo amici».

    L’ispettore Burke apre il fascicolo che l’ispettore Cheyne gli ha dato poco fa. In cima alla pila di documenti c’è la foto formato A4 di una donna: capelli biondi corti con mèche color caramello, tubino bianco scollato, décolleté bianche con il cinturino alla caviglia, borsa bianca, giacca di Versace, occhiali da sole maxi appoggiati sopra la testa. Il classico tipo da pube ingioiellato. Non guarda l’obiettivo, tiene in mano un bicchiere di champagne mezzo vuoto. Potrebbe essere stata scattata a un evento mondano, magari alle corse. La esamina per qualche secondo. Si domanda se la foto è abbinata ai documenti. Si schiarisce energicamente la voce, al che l’agente Barnard si ferma e si volta.

    «Scusa, Bob», dice Burke. «Cheryl, ti presento l’ispettore Cheyne. Di Scotland Yard».

    La solita indolenza bovina. Cheryl mette il broncio e alza di nuovo gli occhi al cielo.

    «La polizia investigativa?»

    «Crimine organizzato», interviene l’ispettore Cheyne. «Puoi chiamarmi Merri, se preferisci».

    Di solito quell’annuncio suscita un discreto interesse, ma la ragazza si limita ad alzare la spalla buona con aria indifferente.

    «L’ispettore Cheyne non si occupa di questo caso», spiega Burke, «ma pensiamo che possa esserci un legame con quello a cui sta lavorando».

    «D’accordo», dice Cheryl, sospettosa.

    L’ispettore Cheyne sorride a Burke e prende il fascicolo. Lo appoggia sul tavolo davanti alla ragazza. «Cheryl, il nome Lisa Dunne ti dice qualcosa?», le chiede.

    Cheryl scuote la testa, il volto inespressivo. L’ispettore Cheyne apre il fascicolo e fa scivolare la foto sul tavolo per fargliela vedere. «Posso chiederti una cosa, Cheryl? Conosci questa donna?».

    La ragazza avvicina la foto a sé, la bocca piegata all’ingiù. Alza lo sguardo, inarcando le sopracciglia filiformi. «Questa è Collette!», esclama. «Ma lei l’ha chiamata Lisa non so che, mi sembra».

    La Cheyne e Burke si scambiano uno sguardo. Vuol dire maledizione. Allora era proprio lei.

    «Collette?»

    «Abitava al numero due. Non aveva questo aspetto allora, ma è lei. Dove ha preso questa foto?»

    «Collette?»

    «Collette. Si è trasferita a... mmm, ai primi di giugno. Dopo che Nikki è...», all’improvviso sembra di nuovo sofferente e gli occhi le si riempiono di lacrime, «...scomparsa».

    «E l’hai vista di recente?»

    «No».

    «In che senso no? Puoi essere più specifica?».

    La ragazza la guarda con aria assente. L’ispettore Cheyne si spiega meglio. «Ti ricordi quando l’hai vista l’ultima volta?»

    «Diversi giorni fa», risponde Cheryl. «Ma non ci ho fatto molto caso. Non aveva in mente di trattenersi molto, comunque. Credo che l’appartamento le servisse solo per poco tempo, per sbrigare... alcune faccende. Qualcosa che aveva a che fare con la madre. Non lo so, in realtà. Non era molto socievole. Il tipo che non ti riconoscerebbe se la incontrassi per strada, diciamo. Ci siamo salutate per le scale qualche volta, niente di più. Perché?».

    Chris Burke fa una faccia che vuol dire: preparati. «Cheryl, purtroppo nell’appartamento c’erano alcune parti del corpo che non appartengono alle vittime già identificate. Quelle che sono state ritrovate in casa, per intenderci. Ce n’erano altre nei paraggi. Lungo la banchina della ferrovia. Nel vecchio focolare in fondo al giardino».

    Cheryl ha l’espressione di chi ha appena ricevuto un pugno in faccia. Afferra il tavolo come se stesse per svenire.

    «Stai bene, Cheryl?», le chiede l’assistente sociale. «Possiamo fare un’altra pausa, se ne hai bisogno».

    «Sta dicendo che ce n’erano altre

    «Ehm... Non lo abbiamo ancora appurato con certezza. Ma sì. Le indagini puntano in quella direzione, purtroppo».

    «Oh, Dio», esclama lei.

    «E fra i resti... sai che conservava della roba nel freezer, vero? Be’, abbiamo ritrovato un paio di dita, lì dentro. Così abbiamo analizzato le impronte e, be’, corrispondevano a quelle di questa donna. Lisa Dunne. È scomparsa da un po’. Da tre anni, per la precisione. La stiamo cercando».

    «Perché? Che cosa ha fatto?»

    «Non ha importanza adesso. È stata testimone di una cosa... non occorre che tu conosca i dettagli. Ma... ecco, vogliamo solo la conferma che si tratti di lei».

    «Oh, Dio», ripete la ragazza. È visibilmente scossa, la pelle marrone è diventata grigia e gli occhi sono grandi come due scodelle da zuppa. «Oh, no. Non può essere. Lei stava nella stanza di Nikki. Allora lui...».

    La polizia aspetta che la ragazza digerisca la notizia. Bene, pensa l’ispettore Cheyne. Un altro vicolo cieco, ed eravamo a pochi giorni dal rintracciarla. Tutto quel lavoro e Tony Stott è ancora a piede libero.

    «Mi dispiace», dice. «So che è uno shock. Ma abbiamo bisogno che tu ci dica cosa ti ricordi di lei».

    «Che volete sapere? Oh, Dio. Non ce la faccio».

    «Lo capisco», dice l’ispettore Cheyne con dolcezza. «Deve essere un colpo terribile. Ma devi concentrarti, Cheryl. Fallo per Lisa».

    Cher Farrell si asciuga gli occhi con un braccio e si pulisce il naso. Guarda torva i poliziotti, l’avvocato, l’assistente sociale. «Collette», insiste. «Si chiamava Collette».

    Capitolo 1

    Tre anni prima

    Si sveglia con il collo indolenzito, piegata sulla scrivania. Il riscaldamento si è spento e la sua circolazione è rallentata, si è svegliata per il freddo. Se non ce ne fosse stato così tanto, probabilmente avrebbe dormito fino all’ora di pranzo. Non sarebbe stata la prima volta...

    Si tira su, ha la mente offuscata e la bocca secca. Controlla l’orologio, sono quasi le sei. È stanca. È sempre stanca in questi giorni. Lavorare di notte va bene solo per i giovanissimi, e Lisa ha trentaquattro anni – non è certo di primo pelo nel mondo dei locali notturni. Quanto all’età, alcune delle ragazze che lavorano lì potrebbero letteralmente essere sue figlie, e lei se ne rende conto. Di solito il sabato per le quattro e mezzo di mattina ha finito di contare l’incasso, ma ieri sera neanche il quadruplo espresso che si è portata su in ufficio è riuscita a tenerla sveglia.

    Si alza a fatica dalla sedia e si stiracchia. Almeno ha finito. Adesso ricorda, aveva deciso di chiudere gli occhi per una decina di minuti prima di mettere i soldi in cassaforte, giusto per essere sicura di non andare a schiantarsi con la macchina sulla strada di casa. Devo mollare questo lavoro, pensa. Non voglio passare le mie serate a guardare gli uomini che danno il peggio di sé, che sbavano tutti libidinosi ed escono dal bagno con gli occhi strabuzzati dopo aver fatto chissà cosa, e sono troppo vecchia per fare questi orari. Per fare questi orari, per sopportare lo stress e per vivere con l’ansia di finire in galera.

    I conti non tornano. Non tornano mai. Lei sa quante bottiglie di champagne rimangono nella cantina e quante ce ne sarebbero se le avessero vendute nelle quantità che risultano dai conti del bar. Ogni settimana la stessa storia. Duecento persone nel locale se la serata va bene e, anche se a volte in mezzo alle puttane e i teppisti ci sono calciatori e moderni predoni della City, o giovani attori tanto stupidi da credere che il ruolo che interpretano nella loro soap durerà per sempre, 998 sterline per una bottiglia di champagne sono ancora una cifra esorbitante che obbliga i clienti a scegliere fra l’alcol e il ballo; e quasi tutti optano per una bottiglia di Absolut da quattrocento sterline e cinquanta, più qualche ballo privato a cinquanta sterline a botta, esclusa la mancia. Ma ogni sabato, stando ai conti del bar, vendono cento o centocinquanta bottiglie di bollicine. Tutte pagate in contanti.

    Si dà qualche schiaffetto sul viso per svegliarsi. Forza, Lisa. Primi finisci, prima comincia la tua giornata libera. Potrai pensarci dopo aver dormito. Potrai decidere se licenziarti prima che questo posto si riempia di polizia. La sacca dell’Adidas è di nuovo vicino alla scrivania, dove Malik la lascia sempre la mattina quando torna dalla banca. La raccoglie e comincia a contare le mazzette di banconote, una alla volta. Santo cielo, pensa, alcune hanno ancora la fascetta. Ormai Malik non cerca neanche più di farle sembrare usate.

    Ovviamente lei sa cosa sta combinando Tony. Un tizio qualsiasi di Basildon evidentemente privo di capitali propri non può diventare proprietario di un locale notturno a ventisei anni, senza l’aiuto di investitori esterni. Ma un posto come il Nefertiti – sì, esatto; bel nome per un locale di lap dance tutto flash, riflettori e paparazzi sulla porta – è un pozzo di soldi. O, se non un pozzo da cui ricavarli, quanto meno un ottimo luogo per riciclarli. Ecco perché Tony fa in modo di essere sempre sui giornali, perché corrompe i puttanieri dello sport, del pop e della televisione per farli andare lì a intrattenersi tutta la notte con drink gratuiti e ragazze nel salottino vip. Fai vedere che il tuo locale è frequentato dagli spendaccioni e nessuno metterà in dubbio quello che affermi che spendono, perché tutti leggono dei loro sperperi sul «Sun» e tutti sanno che i calciatori sono stupidi. In città, i locali del genere, quelli grandi, arrivano a guadagnare anche mezzo milione di sterline in un sabato sera, e fanno risultare di averne incassate ventimila vendendo alcolici, ma ovviamente offrono dei servizi speciali in cambio dei soldi.

    Ecco qua: finisce di contare il denaro e ha la conferma di quello che già sapeva. La sacca contiene centottantacinquemila sterline, centone in più centone in meno, tutti in pezzi da cinquanta e da venti. Lunedì mattina queste banconote finiranno in banca, e da lì nell’economia bianca.

    Dà un’ultima controllata all’ufficio. Ora deve solo mettere i soldi nella cassaforte incassata nel muro del magazzino nel seminterrato, fare un’ultima panoramica del bar e poi chiudere per lasciare tutto alla ditta delle pulizie. Quel momento le piace, malgrado la puzza di bevande rovesciate, sudore e popper, e il triste odore di sperma che arriva dai privé. Le piace quando le luci sono accese e si vede come quel posto, che per i clienti è il regno delle fate, in realtà sia fatto di fumo e specchi. I divanetti di velluto in puro nylon idrorepellente, la pista da ballo ricoperta da un’appiccicosa patina nera di sporco, gli sfarzosi specchi in stile Luigi xv con cornici di finissimo polistirolo. La stessa Nefertiti, che troneggia nell’ingresso con la sua frangetta nera e il suo bastone dorato, le tette di fuori per la gioia dei maschietti, è stata realizzata in resina con effetto pietra da una ditta di Guiyang. Spegne le luci dell’ufficio, gira la chiave nella toppa e scende le scale.

    I pali per la lap dance sono disposti lungo un corridoio di mattoni bianchi fiancheggiato da tende di velluto, blu reale con frange dorate sui bordi, che pendono da lunghe aste e possono essere chiuse dai membri dello staff per offrire privacy alle varie salette, per ampliare o rimpicciolire il salottino vip a seconda del numero dei presenti e addirittura per chiudere completamente alcune zone. La reputazione di tutti i nightclub dipende da quanto i clienti si sentono circondati dalla folla, e lo staff del Nefertiti può far sembrare una folla anche un gruppo di venti persone, se serve. Percorre il corridoio controllando ogni saletta, per assicurarsi che qualche cliente non sia rimasto chiuso dentro o si sia nascosto dietro un divano, e spegne le luci a mano a mano che avanza. Solo quando arriva a metà strada si rende conto che non è sola.

    Sta succedendo qualcosa nella saletta Luxor. Qualcosa di fisico, ripetitivo, energico. Sesso? Qualcuno sta scopando lì dentro? Chi è? Qualche ritardatario? Qualche ragazza del suo staff che si fa scopare dal capo?

    Rallenta il passo, cerca di fare piano. Nel corridoio c’è una spessa moquette nera con bordi e stelline color oro. Un motivo semplice, adatto a nascondere una vasta gamma di peccati. Più si avvicina e più le sembra che quei rumori non siano legati al sesso. Sono grugniti e sospiri, ma anche lamenti, ne è certa; e in sottofondo si sentono risate e chiacchiere soffocate, come se chi sta emettendo quei suoni fosse l’intrattenimento di una festicciola aziendale. Si avvicina in punta di piedi alla tenda tirata, si schiaccia contro la parete e sbircia attraverso uno spiraglio.

    Il salottino Luxor è nero e rosso, colori scuri che mascherano lo sporco. Per fortuna, perché quello che sta uscendo dalla bocca dell’uomo sdraiato sul pavimento non andrebbe via nemmeno con olio di gomito.

    Ci sono sei persone nel salottino Luxor. L’uomo prostrato a terra, immobile come se avesse rinunciato da tempo a proteggere le sue parti più vulnerabili, la faccia talmente gonfia che sua madre non lo riconoscerebbe; Tony Stott, il suo capo, il pezzo grosso, il ragazzo prodigio, quattro anni e svariati milioni più di lei, con il completo firmato e i gemelli d’oro, perfettamente rasato malgrado l’ora, i capelli ricci e fitti tagliati cortissimi; una donna che non ha mai visto prima, con un sobrio tailleur grigio che dalla fattura non sembra certo uscito dai grandi magazzini; un uomo molto più vecchio, sulla sessantina, forse, che indossa un cappotto di lana scuro, come se fosse a un funerale. I tre sono in piedi al bancone con una bottiglia di Remy aperta, si fanno un cicchetto di cognac mentre guardano Malik Otaran e Burim Sadiraj tirare calci a non finire. A un tratto lei vede la testa dell’uomo fare uno scatto all’indietro. Un fiotto di sangue schizza fuori dal naso accartocciato, bello nella sua eleganza. Malik porta un piede all’altezza del ginocchio e assesta un colpo.

    Le sfugge un gemito.

    Nel salottino Luxor cala il silenzio. Cinque teste, i sorrisi congelati sui volti, le pupille ancora dilatate dall’eccitazione, si voltano e guardano verso di lei.

    Lisa corre verso l’uscita. Sa che sta correndo per salvarsi la vita.

    Capitolo 2

    È un gatto magnifico. Nero, slanciato e spavaldo, con lunghi incisivi acuminati che arrivano quasi fin sotto la mascella. Occhi verdi e coda sinuosa che rivela sangue orientale, e una cicatrice sull’orecchio sinistro a dimostrare che non ha paura di combattere.

    Oggi è venuto a fargli visita per affermare la propria autorità sul territorio. Fa parte della casa da così tanto tempo che nessuno si ricorda più chi ce lo abbia portato originariamente, sempre se ce l’ha portato qualcuno. Alcuni inquilini lo scacciano con sibili rabbiosi, intimoriti dalla sua grazia da pantera e dal suo sguardo imperturbabile, alcuni lo prendono in braccio e lo coccolano sussurrandogli parole amorevoli, gli danno un posto caldo per dormire e piangono quando devono abbandonarlo, perché alla fine lo abbandonano tutti. Da quando ci si è stabilito, sono passati ventisei inquilini per quel condominio di Beulah Grove e lui non ha mai sofferto la fame abbastanza da cambiare zona. Ha avuto parecchi nomi, ma al momento si chiama Psycho.

    È sul davanzale della finestra – l’Amante l’ha aperta perché il caldo dentro è talmente afoso che la stanza rischia di diventare una sauna – e scruta il posto, poi salta sullo schienale della poltrona occupata dalla ragazza. Si sporge in avanti e le annusa i capelli rossi, le sfiora un orecchio con il naso umido. Oltraggiato dalla mancata reazione, alza il muso e guarda l’uomo. Sbatte le palpebre.

    L’Amante sta piangendo. È seduto su una sedia pieghevole contro la parete opposta e si dondola avanti a indietro con il volto nascosto tra le mani. Le lacrime iniziano a scorrere sempre prima. Un tempo aveva qualche ora – magari anche un giorno o due – per godersi la compagnia, per gustarsi l’atmosfera romantica, prima che lo cogliesse la disperazione; per tenerle la mano, accarezzarle la guancia e gioire della vicinanza. Ma ogni volta sembra provare meno piacere rispetto a quella precedente, finisce tutto così in fretta che il desiderio lo riassale quasi subito, che la solitudine lo travolge come un’onda.

    Si sta scusando, come sempre. «Mi dispiace», dice, e le parole salate gli si bloccano in gola. «Oh, Nikki, scusa. Mi dispiace tanto. Non volevo».

    Lei non risponde. Fissa con aria assente un punto dietro di lui, la bocca mezza aperta, l’espressione stupita.

    «È solo che tu...», continua. «Avevo paura che te ne andassi di nuovo. Non posso sopportarlo, capisci? Non posso. Sono così solo».

    Continua a piangere. È logorato dal vittimismo, consumato dal vuoto che domina la sua esistenza. La mia vita è un continuo tran tran, pensa. "Faccio, sbrigo, aiuto e organizzo, ma alla fine è sempre la stessa storia. Ci sono solo io. Sono solo, e il mondo va avanti come se non fossi mai esistito. Se scomparissi, nessuno – nessuno – se ne accorgerebbe per mesi. Le famiglie come la mia, senza soldi, con matrimoni falliti, fratelli imparentati solo per metà e case piene come uova, vanno a rotoli quando qualcuno se ne va. Parlo con i miei fratellastri o sorellastre soltanto una volta l’anno, ogni tanto li incontro per caso quando torno a casa per Natale. La cosa peggiore è che mia madre sembra sempre sorpresa di sentire la mia voce al telefono, anche se la sente, puntuale come un orologio, ogni prima domenica del mese, mentre guarda Songs of Praise alla tivù. Loro non se ne accorgerebbero. Nessuno se ne accorgerebbe. Svanirei in una nuvola di fumo e lascerei a qualcun altro il fastidioso compito di sistemare tutto".

    Alza gli occhi e guarda Nikki, la fonte della sua sofferenza. Una ragazza carina. Non spettacolare, non una che sarebbe stata ritenuta proprio fuori dalla sua portata, anche se la differenza d’età è notevole. È tutto ciò che ho sempre desiderato, pensa. Una bella ragazza. Senza grandi ambizioni, senza la passione travolgente che si vede nei film, senza rose e champagne. Solo qualcuno che stia con me, qualcuno che non vada via.

    Il gatto è vicino al guardaroba adesso, annusa la fessura tra le ante. L’Amante balza in piedi e lo scaccia, batte le mani e sibila per farlo impaurire; quello salta sul letto con un miagolio sinistro ed esce dalla finestra. Per un attimo pensa di chiuderla per non far rientrare il gatto, ma con quel caldo la stanza è diventata soffocante, opprimente, e poi teme che gli odori possano diffondersi in tutta la casa. Si asciuga con la manica il volto salato e cerca di ricomporsi. Possiamo passare una bella serata, almeno, pensa, mentre guarda la sua compagna silenziosa. Berrò un bicchiere di vino, le terrò la mano. Magari le va di guardare un film insieme, prima di cominciare.

    La mano destra della ragazza, che il gatto ha colpito passando, scivola a un tratto dal bracciolo della poltrona e penzola a mezz’aria, inerte e senza vigore. Che bella mano, pensa lui. Le unghie sempre pulite e limate scrupolosamente. Ho notato questo di lei la prima volta che l’ho vista; ho sempre desiderato tenere quella mano nella mia, stringere quella pelle liscia fra i miei palmi.

    Perché aspettare, allora? Prende la sedia pieghevole e la piazza accanto alla poltrona. Che buffo, pensa. Sembra più piccola di una volta. Più delicata, più fragile. Come se adesso avesse bisogno della mia protezione. Le rimette l’avambraccio sul bracciolo della poltrona e va a prendere le forbici nel cassetto della cucina. Taglia, con estrema lentezza ed estrema cura, il nastro adesivo intorno al collo della ragazza, poi le sfila il sacchetto di plastica trasparente, spesso e robusto, dalla testa stando attento a non scompigliarle troppo i capelli. Più tardi le farà il bagno. Le toglierà i vestiti macchiati e li metterà in lavatrice, le laverà i boccoli sudati e la pettinerà, la cospargerà di talco. Con quel caldo si asciugherà tutto in un attimo.

    «Ecco», dice con dolcezza, e le stampa un tenero bacio sulla tempia, dove ormai il sangue non pulsa più. Si siede e si porta la mano di lei sulle labbra, solo per un secondo. «Ecco», ripete, e la stringe fra i suoi palmi, più grandi e ruvidi, come ha sempre sognato di fare.

    «È bello, vero?», chiede, ma è una domanda retorica.

    Capitolo 3

    Malgrado il caldo appiccicoso, indossa un cardigan che puzza di tabacco, di frittura e di quelle pieghe nascoste del corpo che non prendono mai aria. La sua classica calvizie maschile è evidenziata da un riporto forforoso e gli occhi sono coperti da un paio di occhiali sudici. Ed è grasso, talmente grasso che ha la pancia sblusata sulla cintura. Ha l’affanno mentre sale i gradini che portano all’entrata, la sua mole fa sembrare stretta e misera una rampa di scale progettata come elegante elemento decorativo di una casa di valore.

    L’affanno, pensa lei. Non è solo per il sovrappeso. C’è dell’altro. È eccitato. Compiaciuto. C’è un che di... lascivo in quei respiri affannosi. Lo sento. Il modo in cui mi ha squadrata da capo a piedi; non stava solo cercando di capire se ero una persona rispettabile o meno; mi stava guardando le tette.

    Scaccia quel pensiero, spazientita. "Smettila, Collette. E anche se fosse? Un vecchio porco con le palpitazioni: non è proprio una novità per te, no?".

    Il Proprietario si ferma a riprendere fiato sul piccolo ballatoio davanti alla porta d’ingresso, tiene una mano appoggiata al muro e la fissa. Lei si tira sulla spalla la sacca dell’Adidas e ne approfitta per coprirsi furtivamente con la sciarpa lo scollo della camicetta. È piuttosto castigata per il caldo che fa, ma all’improvviso si sente a disagio perché si rende conto di avere i vestiti tutti appiccicati alla pelle per colpa del sudore.

    Lui fa un paio di respiri prima di parlare. «Non mi aspettavo che si presentasse già qualcuno», dice, chiaramente convinto di fornire una spiegazione.

    Lei resta impalata e aspetta, non sa bene cosa ribattere. La sacca è pesante e lei vuole solo arrivare a destinazione, per poterla posare a terra e sgranchire il braccio.

    «Di solito la gente comincia ad arrivare il giorno dopo», continua. «O perlomeno la sera. Dopo che ho affisso l’annuncio. Non un’ora dopo. Mi ha preso alla sprovvista».

    «Scusi», dice lei, senza neanche sapere di cosa si stia scusando.

    Lui prende una chiave dalla tasca del cardigan, la fa girare intorno all’indice tenendola dall’etichetta. «Per fortuna ero in zona, comunque» dice. «Avevo un po’ di faccende da sistemare al piano di sotto. Il fatto è che la stanza non è pronta. Volevo chiamare qualcuno per farla pulire, ma pensavo di avere tutta la giornata a disposizione».

    «Oh, non fa niente», dice Collette. «Mi basta un flacone di detersivo. L’aspirapolvere c’è, vero?».

    Lui ha le labbra umide. Se le sfrega, facendole diventare di un brutto rosa bluastro. «Certo», risponde. «Ce n’è uno in casa. Ma non è quello il problema».

    Si gira per inserire la chiave nella toppa. È una porta robusta, due lastre di vetro decorate con foglie d’edera incise all’acquaforte lasciano filtrare un po’ di luce nell’ingresso della casa. Una porta graziosa, che rispecchia le ambizioni di un vittoriano in ascesa, ma non risponde alle esigenze di sicurezza di un condominio fatiscente. «È l’ultima inquilina, capisce. Non ha pagato l’affitto e ha lasciato tutta la sua roba qui».

    «Oh», esclama Collette.

    «Doveva avere parecchia fretta», commenta lui. «Perché ha lasciato quasi tutto. Io le ho tenuto la stanza così finché ho potuto... ma non sono mica un ente di beneficenza».

    «No», replicò Collette. «Certo che no».

    «Perciò bisogna sgombrarla. Giusto perché lo sappia».

    «Mmm», fa lei, dubbiosa. «Speravo di potermi trasferire oggi».

    «Be’, ma così non avrò neanche il tempo di controllare le sue referenze», ribatte lui, in tono compiaciuto. «Non trova?»

    «No», dice lei. Si pente di averlo seguito nell’ingresso. Manca l’aria lì dentro, anche se la porta è aperta. La puzza dei suoi vestiti la investe a raffiche mentre lui le gira intorno e la richiude. Lei sbircia nella penombra e vede una moquette grigia macchiata, un tavolino di servizio pieno di posta e un telefono a monete attaccato al muro. Sono anni che non ne vedo uno, pensa. Quanto ci ricaverà al mese con quello?.

    Una goccia di sudore le scivola da sotto la tracolla della sacca e le scende nel décolleté. Dalla porta alla sua sinistra arrivano inaspettatamente le note di un’aria classica suonata da un violino. Non è il genere di musica che immaginava di sentire in una casa come quella. Se avesse dovuto indovinare, avrebbe scommesso sull’hip hop. «Ma non mi va di spendere soldi per stare in albergo, se posso evitarlo», spiega.

    «Non ha nessuno a cui appoggiarsi nel frattempo?».

    Collette ha la storia bella e pronta. «No», risponde. «Negli ultimi anni ho abitato in Spagna. Ho perso i contatti con un sacco di gente. Ma ora mia madre è in ospedale e voglio starle vicino. E, sa com’è, quando torni e ti rendi conto di non conoscere più nessuno. La gente si sposta di continuo, a Londra. Ho perso di vista i miei compagni di scuola e non ho altri familiari. Eravamo solo io e mia madre...».

    S’interrompe e fa gli occhioni tristi, gli stessi che ha provato allo specchio infinite volte negli ultimi anni. Quello sguardo l’ha aiutata a superare molte situazioni difficili. «Scusi», conclude. «Non voglio annoiarla con i miei problemi».

    Mentire è facile. Anzi facilissimo, quando ci prendi la mano. Basta parlare con aria sicura, restare il più possibile vicini alla verità, poi mostrarsi vulnerabili e trovare una scusa per sviare in fretta la conversazione. Il novantanove per cento delle volte, la gente si beve tutto quello che le dici.

    Il Proprietario sembra un tantino compiaciuto. Crede di avermi in pugno, pensa lei. Crede di avermi scoperta. In questo momento si arriccerebbe i baffi, se li avesse. «Be’», dice l’uomo, la voce traboccante di curiosità, «mi dispiace».

    «Non è un problema suo», replica lei in tono umile. «Lo capisco. Ma significa che... sa... non ho nessuna referenza, perché ho sempre abitato con mia madre, prima di andare via».

    «Cosa faceva in Spagna?», le chiede.

    Lei gli racconta la storia che ha inventato, quella che nessuno vorrebbe sentire. «Mi sono sposata. Lui aveva un bar sulla Costa del Sol. Stupida io... Comunque, adesso sono qui, senza marito. È la vita, no?».

    Lui la scruta con aria pensierosa. Ha il simbolo della sterlina che gli brilla negli occhi. «Direi che possiamo trovare un accordo», dichiara.

    "Chi vuoi prendere in giro? Sei uno che affitta le stanze in nero affiggendo annunci sulle vetrine delle edicole. Credo che tu non abbia mai controllato una referenza in vita

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