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La ragazza perfetta
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La ragazza perfetta
E-book438 pagine5 ore

La ragazza perfetta

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Info su questo ebook

Ai primi posti delle classifiche inglesi e italiane
Un grande thriller

Agli occhi di tutti coloro che la conoscono, Zoe Maisey, prima bambina prodigio e poi genio della musica, è una ragazza perfetta. Eppure, diversi anni fa Zoe ha causato la morte di tre adolescenti. Ha scontato la sua pena, e ora potrebbe guardare al futuro. La sua storia e la sua nuova vita iniziano la sera in cui tiene il concerto più importante della sua carriera. Sei ore dopo, a mezzanotte, sua madre morirà...
La ragazza perfetta è un’esplorazione profonda della mente di un’adolescente talentuosa, con un’intelligenza fuori dal comune, ma anche con un passato che sembra impossibile lasciarsi alle spalle. Ancora una volta la scrittura di Gilly Macmillan guida il lettore per mano in una storia labirintica e avvincente, in cui il colpo di scena decisivo si nasconde dietro ogni pagina.

1 milione di copie vendute nel mondo
Tradotta in oltre 20 lingue

«Con personaggi perfettamente raccontati, una trama affascinante e una squisita narrazione, La ragazza perfetta tiene i lettori incollati alle sue pagine per tutta la notte. Gilly Macmillan dimostra ancora una volta di essere una maestra della parola scritta e sta rapidamente diventando uno dei miei autori preferiti. La suspense letteraria è al suo culmine.»
Mary Kubica, autrice di Una brava ragazza

«La Macmillan è un nome nuovo, ma sembra già, per il controllo totale sulla trama, una veterana del brivido.»
la Repubblica

«Una scrittrice pazzesca.»
Wall Street Journal
Gilly Macmillan
È cresciuta a Swindon e ha trascorso l’adolescenza nel Nord della California. Ha lavorato al «Burlington Magazine» e alla Hayward Gallery prima di mettere su famiglia. Da allora vive a Bristol con il marito e i tre figli. Il suo romanzo d’esordio, 9 giorni, è stato un successo internazionale, tradotto in 20 lingue. La Newton Compton ha pubblicato anche La ragazza perfetta, Cattivi amici e Una cattiva baby-sitter.
LinguaItaliano
Data di uscita11 lug 2016
ISBN9788854198357
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    Anteprima del libro

    La ragazza perfetta - Gilly Macmillan

    DOMENICA E LUNEDÌ


    Serata di musica d’estate

    Domenica 24 agosto 2014

    ore 19.00

    Chiesa di Holy Trinity, Westbury-on-Trym, Bristol

    Zoe Maisey e Lucas Kennedy

    suonano

    Brahms, Debussy, Chopin,

    Liszt e Scarlatti

    Non perdetevi il debutto a Bristol di questi due precoci

    e talentuosi adolescenti: si prospetta una serata molto speciale.

    «Bristol Evening Post», Eventi

    A favore dell’Associazione famiglie in lutto

    Biglietto: adulti 6£, bambini 3£.

    Biglietto famiglia: 15£.

    Per prenotazioni e informazioni sui prossimi spettacoli,

    contattare Maria all’indirizzo: maria.maiseykennedy@gmail.com


    Domenica sera

    Il concerto

    Zoe

    Prima dell’inizio del concerto sono in piedi in fondo alla chiesa, nei pressi dell’ingresso, e osservo la navata. Tra le volte del soffitto si annidano ombre, anche se all’esterno la luce non è ancora calata; e alle mie spalle il grande portale in legno è stato chiuso.

    Davanti a me, gli ultimi arrivati hanno appena preso posto. I banchi sono quasi tutti pieni, e le voci danno vita a un brontolio sommesso.

    Rabbrividisco. Con il caldo afoso del pomeriggio, sudata e stanca dopo le prove, ho dimenticato che in chiesa poteva fare freddo, anche se fuori era un forno. Per questa sera ho scelto di indossare un abitino nero con le spalline sottili, ma ora ho la pelle d’oca sulle braccia.

    Le porte della chiesa sono state chiuse bloccando fuori il caldo, perché non vogliamo essere disturbati dai rumori esterni. Questo sobborgo di Bristol non è certo rinomato per i suoi abitanti festosi, eppure gli spettatori hanno sborsato un bel gruzzolo per i biglietti.

    E non si tratta solo di questo. Il concerto di stasera è la mia prima apparizione in pubblico da quando ho lasciato il carcere: la prima della mia nuova vita, la mia seconda occasione.

    Come ha detto la mamma circa un centinaio di volte, oggi: «Questo concerto deve essere il più perfetto possibile».

    Getto un’occhiata a Lucas, accanto a me: ci separano solo un millimetro o due.

    Indossa dei pantaloni neri a cui mia madre questo pomeriggio ha fatto la piega, e una camicia anch’essa nera. Sta bene. I capelli castano scuro sono quasi addomesticati, quasi in ordine, ma non proprio; e credo che, se volesse, potrebbe fare restare di sasso tutte quelle ragazze ancora così goffe e noiose da leggere i romanzi d’amore con i vampiri.

    Sto bene anch’io, o starò bene non appena mi sarà passata la pelle d’oca. Sono esile, ho la carnagione pallida, chiara, e i capelli lunghi e molto biondi, ma sottili come fili di una ragnatela colpiti dalla luce del sole: risaltano in modo incredibile sul mio vestito nero. Con la luce giusta, sembrano quasi bianchi, e mi conferiscono un’aria innocente.

    «Come un cerbiatto. Fragile e delicato», mi descrisse il procuratore. All’epoca mi era sembrata un’immagine carina, anche se ancora mi ferisce ricordare che quello stesso procuratore poi aggiunse: «Ma non fatevi ingannare».

    Fletto le dita e le intreccio, per assicurarmi che i guanti che indosso mi stiano superaderenti, come piace a me, e poi lascio andare le braccia lungo i fianchi e le scuoto, per far muovere le mani. Voglio che le dita siano calde e flessibili. Le voglio pulsanti di sangue.

    Vicino a me, Lucas scuote a sua volta le mani, lentamente e una alla volta. Tra pianisti, è un gesto contagioso, come uno sbadiglio.

    All’estremità opposta della navata, davanti all’altare, su una bassa pedana, c’è il pianoforte a coda: le interiora di martelli e corde sono riflesse sul lato inferiore del coperchio nero lucido, rialzato. Ci sta aspettando. Lucas lo fissa, assolutamente concentrato, come se rappresentasse un ghiacciaio verticale sul quale debba arrampicarsi a mani nude.

    Ci comportiamo in modo diverso, quando siamo nervosi. Lui rimane il più immobile possibile, inizia a respirare lentamente dal naso e non risponde a nessuno.

    Io, al contrario, mi agito e la mia mente non trova riposo, perché deve ripercorrere le cose che devo fare prima di iniziare a suonare, nell’ordine in cui le devo fare. È solo quando suono la prima nota che la concentrazione di cui ho bisogno, e la musica stessa, mi avvolgono completamente, pure e bianche come un sudario, e tutto il resto scompare.

    Fino a quel momento, sono così tesa da avere la nausea, proprio come Lucas.

    Accanto al pianoforte, una donna sta presentando il concerto e ora indica nella nostra direzione, per poi abbandonare il palco con una strana andatura, strascicata e curva.

    È il momento di andare.

    Mi tolgo in fretta i guanti, lasciandoli cadere su un tavolo lì vicino, dove sono appoggiati il caffè e i volantini del catechismo, e Lucas e io percorriamo insieme la navata, come se stessimo recitando la scena di un matrimonio. Mentre avanziamo, gli spettatori si girano a guardarci, una fila dopo l’altra.

    Passiamo di fianco a mia zia Tessa, a cui è stata affidata la videocamera, che abbiamo portato per filmare le nostre performance. L’idea è quella di riguardarle in seguito, di analizzarle in cerca di imperfezioni e identificare i punti nei quali, spremendoci a dovere, è ancora possibile un miglioramento.

    Tessa sta scrutando l’aggeggio di traverso, con aria nervosa, come se la videocamera potesse girarsi e leccarle la faccia, ma alza il pollice, segnalandoci che va tutto bene. Adoro Tessa: è una versione molto più rilassata di mia madre. Non ha figli e sostiene che questo mi rende ancora più speciale, ai suoi occhi.

    Mentre Lucas e io passiamo tra le due file di banchi, gli altri volti nella chiesa sorridono, corrugandosi sempre di più in espressioni di incoraggiamento man mano che ci avviciniamo. Adesso ho diciassette anni, ma conosco quello sguardo da quando ero una bambinetta.

    La mamma definisce questo genere di persone i nostri sostenitori. Dice che, se suoneremo bene, si ripresenteranno per vederci ancora molte volte, e che parleranno di noi ai loro amici. A me, però, i sostenitori non piacciono. Non mi piace il modo in cui vengono da te, a fine concerto, a dire cose del tipo: «Hai un tale dono!», come se suonare il pianoforte non fosse un talento su cui devi lavorare giorno dopo giorno, se vuoi renderlo perfetto.

    Puoi quasi vedere la parola genio lampeggiargli in testa come un’insegna al neon, allettante e luminosa. Attenti all’insegna, direi loro, se me lo chiedessero. Fate attenzione a ciò che desiderate, perché tutto ha un prezzo.

    In prima fila nella chiesa, gli ultimi due volti su cui poso lo sguardo appartengono a mia madre e al padre di Lucas. O, per dirla in un altro modo, al mio patrigno e alla sua matrigna, perché Lucas e io siamo fratellastri. Come al solito, sfoggiano le espressioni fin troppo radiose di genitori che, sotto quelle maschere, celano un livello di ambizione per i propri figli tale da soffocarli.

    Quando arriviamo in fondo alla navata, mentre io salgo sulla pedana su cui è posizionato il pianoforte, Lucas è davanti a me e sta già prendendo posto.

    Inizieremo suonando un duetto. È un’idea dei nostri genitori, per accontentare il pubblico. Inoltre, pensano che suonare insieme, all’inizio, servirà a calmarci i nervi.

    Lucas e io preferiremmo entrambi suonare da soli, ma li assecondiamo: in parte perché non abbiamo altra scelta e in parte perché siamo musicisti fin nel midollo, e un musicista vuole esibirsi, ha bisogno di esibirsi. Ama esibirsi.

    Un musicista viene allenato per esibirsi.

    Così ci esibiremo, e lo faremo al meglio.

    Sedendomi al pianoforte, tengo la schiena dritta e sorrido a beneficio del pubblico, anche se ho le budella così compresse e attorcigliate che sembrano una palla di elastici. Ma non sorrido troppo. È importante anche apparire modesta, indossare il giusto volto da concerto.

    Lucas e io armeggiamo un po’ per sistemarci e regolare gli sgabelli. Sappiamo già che sono perfettamente posizionati, perché abbiamo provato il pianoforte prima che arrivasse la gente, ma traffichiamo ugualmente, correggendo la distanza tra loro, rettificandone in modo impercettibile l’altezza. Fa parte della performance. È il nervosismo. O un modo di dare spettacolo. O entrambe le cose.

    Quando siamo tutti e due pronti, appoggio le mani sui tasti. Devo impegnarmi a fondo per controllare il respiro, perché il cuore mi sta martellando nel petto, ma mi concentro sulla musica che mi aspetta, desiderando ora con tutta me stessa di sentire quelle prime note, come la pistola di uno starter all’inizio di una gara.

    Il pubblico è in silenzio: solo un colpo di tosse echeggia tra le volte e le colonne. Lucas aspetta che il rumore si dilegui, poi, nella quiete assoluta che segue, prima si asciuga i palmi sui pantaloni, quindi posiziona le mani sulla tastiera.

    Ora non esiste altro che l’armoniosa serie di neri e bianchi che si dispiega sotto le nostre dita, e osservo le mani di Lucas con l’intensità di un animale pronto a balzare sulla preda. Non devo perdere l’attacco. Ancora un istante o due di perfetto silenzio, quindi Lucas inarca i palmi, facendo dondolare su e giù le mani: una, due, tre volte.

    E poi partiamo, in perfetta sincronia.

    Quando facciamo così, siamo sbalorditivi: ce lo dicono tutti. L’energia prodotta da due musicisti può essere elettrizzante, quando è quella giusta. È come un numero sulla fune, si devono calibrare forza, tono e dinamica, perché deve essere tutto perfettamente bilanciato. Non ci è venuto così bene, questo pomeriggio, quando eravamo stanchi e irritati l’uno con l’altra, mentre ci esercitavamo al caldo, ma questa sera è magnifico. È simultaneo, bellissimo, e siamo entrambi rapiti dalla nostra musica; cosa che, devo ammettere, non succede sempre.

    In effetti, sono così rapita che non sento subito le urla, e questo significa che non mi rendo conto che ha appena avuto inizio la fine.

    Vorrei essermene resa conto.

    Perché?

    Perché, sei ore più tardi, mia madre era morta.

    Lunedì mattina

    Sam

    Sono le otto del mattino. Tessa ancora non si è mossa, ma io sono sveglio dall’alba.

    Sono un avvocato penalista, con un’imponente mole di lavoro. Sgobbo spesso fino a tardi e di solito dormo profondamente finché non suona la sveglia, ma oggi ho un appuntamento in ospedale che mi perseguita dalla pagina della mia agenda da più di una settimana, balzandomi in mente nell’istante stesso in cui apro gli occhi.

    Le tende chiuse in camera da letto oscurano la stanza, e, quando si muovono per la brezza proveniente dal fiume, la luce vi filtra ai lati in pigre e imprevedibili curve. Se le aprissi, vedrei l’ampia distesa del porto fuori, e il miscuglio colorato di moderni appartamenti, vecchi magazzini e rimesse per le barche raggruppati sulla banchina opposta.

    Ma non lo faccio.

    Rimango dove sono e noto che la brezza è così delicata da disturbare a malapena la quiete della stanza. Ci avevano promesso un temporale per la notte scorsa, ma non è mai arrivato. C’è stato solo un veloce, violento acquazzone, seguito da una spruzzatina di pioggerella fine che ha offerto una breve tregua dal caldo, ma solo breve, perché adesso sta già ritornando la calura.

    Tessa è arrivata sotto la pioggia, nel cuore della notte.

    Si è scusata per avermi disturbato, come se il suo arrivo non avesse risollevato la mia serata. Ha detto di aver provato a telefonare. Non me ne sono accorto perché mi ero addormentato sul divano davanti al televisore, con i resti di un piatto di spaghetti sulle gambe e la lettera dell’ospedale sul petto.

    Nell’aprirle la porta, ho notato scuri segni di stanchezza, sulla pelle bagnata sotto gli occhi, e quando l’ho abbracciata è rimasta assolutamente immobile, come se ogni muscolo del suo corpo fosse teso al massimo.

    Ha detto di non voler parlare, così non ho insistito. La nostra è una relazione riservata e rispettosa: non chiediamo e non ci aspettiamo un’apertura emotiva totale, l’uno dall’altra. Tendiamo piuttosto a fornirci un rifugio reciproco, e con questo intendo un luogo solido e sicuro in cui stare, un luogo nel quale siamo quasi certamente quello che due adulti meno riservati definirebbero innamorati, anche se noi non lo diremmo mai.

    Io sono una persona timida. Mi sono trasferito dal Devon a Bristol due anni fa, perché è quello che fa di solito chi vuole evitare di trascorrere tutta la vita nella regione in cui è cresciuto, circondato dalla stessa piccola cerchia di persone. Le opportunità a Bristol erano molto maggiori, e mi ero fatto le ossa sul caso di Zoe Guerin, quindi mi sentivo pronto a cambiare.

    La cosa però non ha funzionato granché. I miei casi sono più vari e il carico di lavoro più intenso, è vero, ma fare nuove amicizie non è stato facile, perché devo lavorare a tutte le ore, e non si incontrano molte potenziali partner durante le visite in prigione e le udienze in tribunale. Così, quando un giorno Tessa e io ci siamo incontrati per strada, mi è sembrato un dono del cielo. Era un volto familiare, avevamo condiviso un passato, per quanto difficile, e siamo presto scivolati in una routine fatta di momenti rubati: solo caffè e qualche bicchiere, all’inizio, poi di più. Tessa però è sposata, ed è per questa ragione che le cose sono giunte a un punto morto: a meno che lei non lasci il marito, non possiamo andare oltre.

    Ieri sera, dopo che è arrivata, si è buttata sul mio divano come un sacco vuoto, così le ho portato una birra fredda, facendo scivolare con discrezione la lettera dell’ospedale in un cassetto mentre andavo in cucina, in modo che non la vedesse. Non volevo che rovinasse le cose tra noi, non prima di avere certezze. Non prima di aver affrontato l’appuntamento di oggi. Dissimulare l’intorpidimento della mano sinistra è stato piuttosto facile. Non l’ha notato nessuno, nemmeno al lavoro.

    Tessa ha sorseggiato la sua birra e abbiamo guardato un film di Hitchcock, al buio, con le immagini in bianco e nero sullo schermo che facevano tremolare la stanza come se fosse animata. Accanto a me, Tessa fissava immobile e in silenzio lo schermo, facendosi rotolare solo una o due volte la birra fredda sulla fronte; e io le ho lanciato un paio di occhiate furtive, quando mi è stato possibile, chiedendomi che cosa non andasse.

    Tessa non ha gli stessi capelli biondi, quasi bianchi, la pelle chiara e i lineamenti fini della sorella o della nipote – nel suo aspetto non c’è traccia della loro alterigia – ma ha i loro stessi occhi di un azzurro intenso. Ha folti e setosi capelli ramati, che porta perlopiù legati all’indietro; e i tratti aperti, sul volto a forma di cuore e sulla pelle leggermente punteggiata di lentiggini, le danno un’aria alla mano e gentile; mentre i suoi occhi spesso brillano di umorismo. Ha un fisico atletico e un modo di fare pratico e senza fronzoli. Per me è bellissima.

    Mentre la guardo, nella calda oscurità della mia camera da letto, è sdraiata con le mani sul cuscino accanto al volto, le dita ripiegate davanti alle labbra. Ai miei occhi, solo la fede nuziale d’oro opaco rovina la scena.

    Dopo un po’, scendo piano dal letto, perché ho voglia di fare colazione. Sto cercando in una pila di vestiti da lavare, sul pavimento, qualcosa da indossare, quando il telefonino si mette a vibrare.

    Lo afferro in fretta, perché non voglio che la disturbi.

    Dal display vedo che la chiamata proviene da Jeanette, la mia segretaria: è sempre alla sua scrivania molto presto, specialmente di lunedì.

    Sono indeciso se rispondere o meno, ma la verità è che sono un tipo coscienzioso, quindi la battaglia, in realtà, era già persa quando il cellulare ha cominciato a vibrare. Rispondo alla chiamata.

    «Sam, mi dispiace, ma è venuta a cercarti una cliente, qui in ufficio».

    «Di chi si tratta?», chiedo, mentre mentalmente frugo nella lista delle mie clienti più illustri, cercando di indovinare chi di loro, questa volta, possa aver deviato dalla retta via per tornare a sguazzare nel fango.

    «È solo una ragazzina», mi risponde Jeanette in un sussurro.

    «Come si chiama?». Nel domandarlo, penso: Non può essere, o sì?, perché ho avuto un’unica cliente adolescente.

    «Dice di chiamarsi Zoe Maisey, ma che tu la conosci come Zoe Guerin».

    Mi sposto dalla camera da letto nel bagno annesso e chiudo la porta, sedendomi sul bordo della vasca. La luce del mattino si riversa nella stanza attraverso le finestre smerigliate, inondandola di giallo e aggredendo le mie pupille dilatate dall’oscurità.

    «Stai scherzando?»

    «Temo proprio di no, Sam. Dice che sua madre è stata trovata morta questa notte».

    «Oddio».

    La mia esclamazione esprime solo minimamente la mia totale incredulità, perché Zoe è la nipote di Tessa, e la madre, Maria, è sua sorella.

    «Sam?».

    «Puoi passarmela?»

    «Insiste per vederti».

    Probabilmente ho tutto il tempo di occuparmi, almeno in parte, della faccenda, dato che il mio appuntamento è solo in tarda mattinata.

    «Dille che sto arrivando».

    Sto per riagganciare, quando Jeanette aggiunge: «È qui con suo zio», e io ho un altro tuffo al cuore, perché lo zio di Zoe è il marito di Tessa.

    Domenica sera

    Il concerto

    Tessa

    Quando non hai figli, la gente ha la tendenza a rifilarti delle cose di cui prenderti cura. Forse pensano addirittura che ti manchino delle valvole di sfogo per eventuali istinti materni.

    La sera del concerto di Zoe, mi hanno affidato la videocamera come surrogato di un figlio. Devo prendermene cura per tutta la durata dell’evento, così da poterlo filmare nella sua interezza. Con tono pedante, come se fossi mentalmente incapace, mia sorella mi ha ripetuto che si tratta di un incarico importante.

    Dobbiamo parlare subito delle ragioni per cui non ho avuto figli? Facciamolo. Nonostante io sia una professionista di successo e felice di ciò che sono, è sempre il particolare per cui la gente nutre più curiosità.

    Quindi eccovi la risposta: l’infertilità inspiegata è una condizione riconosciuta. Nonostante il nome suoni poco scientifico si tratta di una diagnosi ufficiale; e a me l’hanno fatta. Mio marito Richard e io l’abbiamo scoperto quando ormai avevamo superato i trent’anni: avevamo rimandato l’idea di avere dei figli finché non avessimo viaggiato a sufficienza e le nostre carriere non fossero state ben avviate.

    Dopo averlo scoperto, abbiamo provato con la fecondazione in vitro, per ben tre volte prima di arrenderci. La maternità surrogata non mi piaceva: non sono abbastanza coraggiosa. L’adozione: idem. E comunque adesso non passeremmo mai la valutazione, considerato che Richard beve.

    Quanto all’essere una persona priva dell’istinto di accudire gli altri, potrei farci sopra una grossa risata, perché sono un veterinario.

    Il mio studio si trova in centro, in una zona in cui confinano alcuni dei quartieri più contrastanti di Bristol. In una giornata media vedo probabilmente tra i venti e i venticinque pazienti, che tasto, sondo, accarezzo, rassicuro; pazienti a cui, a volte, devo mettere la museruola prima di poterne curare i problemi di salute e, di tanto in tanto, quelli psicologici. Poi, se ci sono cattive notizie, posso trovarmi a dover rassicurare, o consigliare, e solo occasionalmente accarezzare, i loro padroni.

    In breve, non faccio altro che accudire gli uni o gli altri per tutto il giorno, quasi tutti i giorni della settimana.

    Ma c’è una certa ironia, nella mia situazione, che non mi sfugge mai, quando sono con la mia sorellina: specialmente quando mi coinvolge per aiutare la sua famiglia, come questa sera.

    Vedete, durante la nostra infanzia, Maria era una sorta di Pierino la Peste, mentre io ero quella brava. Da bambina lei aveva un grande potenziale, specialmente nel campo della musica, e la cosa aveva elettrizzato i miei genitori, però la mia sorellina non realizzò mai le loro aspettative.

    Fin da molto piccola era piena di energia e divertente, ma all’età di quattordici anni iniziò ad andare fuori controllo. La sera, mentre io mi rintanavo in camera da letto a sgobbare sui libri, desiderosa di entrare alla scuola di veterinaria, la sua scrivania, dall’altra parte della stanza, era piena solo dei trucchi che vi aveva lasciato dopo essersi preparata per passare la notte fuori. Smise di studiare e di suonare musica classica, per andare invece a divertirsi.

    Diceva di non capire che senso avesse tutto il resto, nonostante a mio padre uscissero gli occhi dalle orbite quando lei parlava a quel modo.

    Senza un ragazzo, molto più ordinaria e socialmente meno dotata della mia bella sorellina, io amavo vivere attraverso di lei, per interposta persona; e credo che ciò piacesse anche a Maria. Quando rincasava a tarda notte, mi sussurrava i suoi segreti: i baci, le bevute e le pasticche che ingurgitava; mi riferiva gelosie e trionfi. Tutti, in qualche modo, avventure.

    Ma poi, con nostra grande sorpresa, all’età di soli diciannove anni, a un festival musicale incontrò Philip Guerin. Philip aveva ventisette anni e aveva già ereditato la fattoria di famiglia, e lei se ne andò a vivere lì con lui, sposandolo poco dopo. Come se niente fosse. «Per vivere il suo sogno», diceva sarcastica mia madre, torcendosi nel frattempo le mani.

    Zoe arrivò subito dopo. Maria la ebbe che aveva solo ventidue anni, e credo che sia stato a quel punto che la realtà della vita alla fattoria con una bambina piccola iniziò a toglierle un po’ di smalto. A suo credito c’è però da dire che non se ne andò: cominciò invece a investire tutte le sue energie su Zoe e, nel momento in cui la straordinaria musicalità della figlia si presentò in tutta la sua evidenza, quando la bambina aveva solo tre anni e già riconosceva le melodie sul pianoforte di casa, Maria s’imbarcò nella missione di coltivare il suo talento.

    Questo, naturalmente, prima dell’incidente, in seguito al quale le cose si sono messe davvero male per loro. Nel frattempo, dopo essermi sempre comportata bene per tutta la vita, avere studiato con grande impegno e rispettato le regole, mi sono sì sposata, ma non ho avuto figli. Da parte mia, sono ormai scesa a patti con la situazione, ma Richard non se la sta cavando tanto bene, soprattutto dopo una drammatica delusione professionale, coincisa con il mio rifiuto di sottopormi al quarto ciclo di FIVET.

    E così eccoci qui, questa sera. Io sto aiutando mia sorella e Zoe, una cosa che adoro fare quando Maria me lo permette; non vedo l’ora di assistere al concerto, perché la musica di Zoe è quasi tornata ai suoi soliti standard, di prima che andasse in carcere, perciò sono sicura che sbaraglierà tutti, stasera; e spero di non fare casini e di riuscire a registrare l’intera esibizione.

    Lucas, il figlio del nuovo marito di mia sorella, mi ha impartito una breve lezione sul funzionamento della videocamera. Lucas è un genio, con i film e le videocamere, quindi ero in buone mani, ma la lezione non è bastata, perché d’istinto io sono un po’ tecnofoba e, anche mentre Lucas mi spiegava, sentivo le sue parole vagare allo sbaraglio per la mia mente come un banco di pesci in preda al panico.

    Se il mio Richard fosse qui ad aiutarmi, forse potrei farcela; ma mi ha deluso anche questa volta.

    Un’ora fa, sono andata a chiamarlo, perché dovevamo prepararci per il concerto. Era nel capanno in fondo al giardino, in teoria a costruire un modellino di aeroplano, ma quando sono arrivata l’ho trovato che spremeva fuori il fondo del vino in bag-in-box dalla sua argentea sacca di plastica. Aveva strappato via il cartone e stava massaggiando e strizzando il lucente sacchetto interno tenendolo sospeso sopra una tazza da tè, come se fosse una recalcitrante mammella.

    Intanto che ero ferma sulla porta a osservarlo, alcune pallide gocce di liquido sono colate dalla sacca nella tazza. Richard le ha bevute immediatamente, e solo dopo ha notato la mia presenza. Non ha chiesto scusa né ha fatto alcuno sforzo per nascondere ciò che stava facendo. «Tess!», ha esclamato. «Ne abbiamo un’altra scatola?».

    Persino dalla soglia ho sentito che il suo alito puzzava e che biascicava le parole e, anche se cercava di comportarsi come un bevitore civile, come una persona che si stava semplicemente godendo un bicchiere di vino bianco la domenica pomeriggio, la vergogna gli aleggiava sul volto, amplificando il tremore delle sue mani. Il modellino di balsa che teoricamente doveva costruire era ancora nella scatola, tutti i pezzi tagliati con precisione disposti in perfetto ordine sotto il manuale di istruzioni mai aperto.

    «In garage», gli ho risposto. E me ne sono andata al concerto da sola.

    Così ora sono qui con una videocamera che non sono sicura stia funzionando, la testa che mi scoppia e l’animo deluso, a ripetermi che non devo, non devo assolutamente cedere alla tentazione di andare a trovare Sam, stasera dopo il concerto, perché sarebbe sbagliato.

    Domenica sera

    Il concerto

    Zoe

    Lucas sente le urla prima di me.

    E così smette di suonare prima di me, ma io non lo noto immediatamente perché siamo nel bel mezzo di un passaggio complicato, che mi trascina sempre con sé, inarrestabile come un treno merci.

    Quando mi rendo conto che le sue mani sono ferme e che sto suonando da sola, da principio vado avanti, lanciandogli un’occhiata e chiedendomi se abbia dimenticato la sua parte. Stiamo eseguendo il duetto a memoria e a volte succede: il cervello semplicemente si blocca.

    Mi aspetto che riprenda il brano da un momento all’altro, lo esorto mentalmente a ricordare, perché questo concerto deve essere perfetto; e lo sto giusto incitando con il pensiero, quando capisco che invece si è fermato di proposito, perché c’è un uomo in piedi in mezzo alla navata.

    Allora smetto di suonare anch’io e, mentre le ultime vibrazioni dei miei accordi si smorzano, guardo quell’uomo pensando che forse lo conosco.

    L’espressione sul suo volto gli stravolge i lineamenti. Non è certo di apprezzamento per la nostra musica: l’uomo è rosso di collera, i tendini del collo talmente tirati che sembrano ossa.

    «È uno scherzo!», grida. «Uno scherzo! È irrispettoso!». Le sue parole rimbalzano per la chiesa, e qualcuno si alza in piedi.

    Sta fissando me e mi rendo conto che, in effetti, lo conosco.

    Lo conosco perché ho ucciso sua figlia.

    Quando mi alzo, lo sgabello fa pochissimo rumore, perché, anche se si ribalta, si trova su un riquadro di moquette cremisi che attutisce il rumore della caduta: finisce per essere solo un tonfo sordo.

    Mia madre si alza dal suo banco. Conosce anche lei quell’uomo.

    «Signor Barlow», dice. «Signor Barlow, Tom, per favore», e fa per avvicinarsi a lui.

    Io non rimango sul palco. Ho troppa paura di ciò che potrebbe farmi.

    Lascio la pedana, sbattendo dolorosamente l’anca contro il bordo del pianoforte, e corro verso il fondo della chiesa, via da lui, verso una porta dietro l’altare, che può condurmi lontano dalla sua vista. La spingo ed esco, poi scendo scalpicciando degli scivolosi gradini in pietra e arrivo in una stanza minuscola, in cui c’è solo un lavandino con sopra degli stracci macchiati, e mi accovaccio in un angolo, tremante; ancora una volta fradicia del sudore freddo del mio rimorso, sopraffatta dall’impossibilità di questa mia vita, delle seconde occasioni o nuovi inizi, finché a un certo punto mia madre non mi trova.

    Mi dice parole che non significano niente ma sono un tentativo di farmi sentire meglio. Me le dice sottovoce, lisciandomi nel frattempo i capelli, dalla testa fin lungo la schiena. «Sst, piccola. Sst», mi sussurra. Ma non so se è per confortarmi o se vuole che singhiozzi in silenzio, in modo che nessun altro possa sentirmi.

    Quindici minuti più tardi – il tempo che ci occorre per essere certe che si siano sbarazzati di Thomas Barlow e del suo rabbioso dolore – mi accompagna fuori da una porta sul retro, per raggiungere l’automobile passando per il cimitero.

    Non posso più suonare, adesso. Sto ancora tremando, e comunque nella mia testa le note sono tutte confuse.

    Fuori, la sera è molto buia e calda, e agisce come un balsamo dopo l’aria fredda all’interno della chiesa. Noto un forte profumo proveniente dalle rose bianche che si stagliano fulgide sopra il cancello del cimitero; e il sinistro svolazzare dei pipistrelli che sciamano da un angolo del campanile. Attorno a noi che calpestiamo l’erba stremata, lapidi cui sono venute meno le cadaveriche fondamenta si appoggiano l’una all’altra in cerca di sostegno. Vedo una croce celtica, i contorni di cumuli di pietre ricoperti di licheni, scritte ovunque, parole di ricordo, e, sopra di noi, le scure foglie puntute del tasso, che avidamente sottraggono quel poco di luce che resta.

    Dall’interno della chiesa sentiamo Lucas attaccare il suo Debussy. Lo spettacolo deve continuare. All’inizio il suono è un caldo bagno di note, poi un fiume che scorre. È una sensazione bellissima, che mi avvolgo attorno per proteggermi da ciò che è appena successo.

    Mi distoglie dal guardare in basso, sul ciglio del sentiero, dove c’è una targa deposta di recente. Amelia Barlow, c’è scritto. Di anni 15. Adorata dalla famiglia, cara agli amici. Il sole splendeva più radioso quando eri viva. Attorno alla targa sono stati piantati dei fiori, ben curati.

    Non sapevamo che la sua famiglia avesse fatto mettere una targa per commemorarla qui. Non avremmo mai affittato questa chiesa come sede per il concerto, se l’avessimo saputo, neanche in un milione di anni. I continenti avrebbero fatto in tempo ad andare alla deriva e a riformarsi, prima che facessimo una cosa del genere.

    Per tutto il tragitto fino a casa, mia madre non dice quasi nulla, a parte: «Non importa. Possiamo riorganizzare il

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