Cose da musicisti
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Anteprima del libro
Cose da musicisti - Gheri Scarpellini
piedi.
LA MUSICA DEL DIAVOLO
Avventurarsi a riesumare il passato può essere pericoloso. Si rischia di scivolare nel revival, nello sbrodolamento del bel tempo che fu. E allora, invece di mitizzare episodi non così epici di vita quotidiana, proverò a evidenziarne il lato divertente, conviviale, come quando, fra amici, ci si trova a passare una serata con una birra e un po’ di chiacchiere.
Tra le storielle che mi piace raccontare, c’è quella di me e Patrizio, adolescenti irrequieti e scalpitanti, ebbri di musica, quella buona, che ci arrivava da dischi presi in prestito o comprati mettendo insieme magri risparmi da salvadanaio. A quei tempi io grattavo faticosamente accordi su una parvenza di chitarra, mentre lui, geniaccio precoce, già volava sui tasti. Con dita lunghe e nervose sciorinava fraseggi blues-jazzati, veloci e graffianti, che preludevano a tanta musica che sarebbe venuta dopo. Quel giorno d’estate ci incrociamo per strada, lui mi ferma, bello carico, mi dice di avere un pezzo sottomano da farmi sentire.
«È fantastico, un tema di Jimmy Smith» dice. «L’ho appena imparato. Dai, vai a prendere la chitarra e andiamo in chiesa, che c’è un organo abbastanza suonabile.»
Il suo entusiasmo è contagioso, non c’è bisogno di insistere. Non ci passa neanche per la testa che forse il prete non gradisce, e dieci minuti dopo, complice l’ora calda e sonnacchiosa del primo meriggio, ci intrufoliamo, non visti, nella penombra fresca della parrocchia. I nostri passi risuonano in un silenzio severo mentre camminiamo fino a dietro l’altare, dove un organetto smilzo e impolverato langue dimenticato in fondo all’abside. Senza indugi attacchiamo la spina, lui prova il suono, non male, tutto sommato, e l’acustica del luogo aiuta.
«Vai in Sol settima e gira col blues» mi dice, e parte in quarta.
Io arranco, faccio del mio meglio, riesco in qualche modo a stargli dietro. Lui svolge il tema, una delizia, e comincia a improvvisare. Stiamo viaggiando in spazi siderali a bordo dell’Enterprise quando con la coda dell’occhio vedo sbucare una testa dalla porticina della sacrestia, che subito dopo si ritrae. Penso, beata innocenza, che forse ci lascerà in pace, in fondo non stiamo facendo niente di male. È all’apice di un Turnaround incandescente, Resettimanonapiù, che il prete fa il suo ingresso nel sacro spazio da lui legittimamente gestito. A grandi passi, tonaca svolazzante, sale gli scalini, dribbla l’altare e si piazza davanti a noi, gambe larghe e mani ai fianchi. Ho il flash di Don Camillo, a quei tempi personaggio ancora in auge. Io e Patrizio ci guardiamo, quasi ci scappa da ridere. Quello che segue è ben immaginabile, il parroco che sciorina la sua paternale di insommaragazzinonsifa, bisognaportarerispetto, in crescendo fino al gran finale:
«Questa è la Musica del Diavolo!»
Noi facciamo del nostro meglio per sembrare pentiti, diciamo che non lo faremo più (Vorrei ben vedere, commenta il prelato), e con la coda (del diavolo) tra le gambe, usciamo dal luogo profanato per ritrovarci sotto un sole accecante. Si stava meglio dentro, non c’è dubbio, e poi ci stavamo divertendo…
Quell’episodio NON ha segnato la nostra giovinezza, nessun pentimento né crisi mistiche, e mi piace ricordarlo per un certo spirito guascone che ci ha sempre caratterizzato. Quello che conta è che La Musica del Diavolo ce l’abbiamo ancora nelle dita, e continuerà a deliziarci fino a quando riusciremo a muoverle sui tasti. Amen.
ARCI ENSEMBLE OF CHICAGO
In quel periodo, dopo le prove, si tirava tardi al Circolo Arci Olga Bondi di Rimini, a scaldarsi con un bicchiere di vino, tra divagazioni sulla musica, la politica e barzellette demenziali. Era un vecchio prefabbricato, con il bar al pianoterra e un salone rettangolare al primo piano: un ambiente spoglio, quattro tavoli e sedie scompagnate, che fungeva da spazio per assemblee e dibattiti, molto più spesso come ritrovo per pensionati accaniti della scopa e il tresette. Quella sera uno dei compagni che gestisce il Circolo si unisce a noi.
«Conoscete gli Art Ensemble of Chicago?» chiede a bruciapelo.
Noi ci mettiamo a ridere.
«È il nostro gruppo preferito» rispondiamo.
«Bene, allora vi farà piacere sapere che fra una settimana suoneranno qui da noi.»
Ci guardiamo intorno: salone polveroso, muri scrostati, infissi precari, pavimento di linoleum.
«Stai scherzando?»
«Per niente» dice lui. «Sono in tournée da queste parti, hanno una serata a Pesaro, poi si spostano a nord. Li abbiamo contattati e si sono resi disponibili per una serata. D’accordo, questo non sarà il Carnegie Hall, però non credo siano gente che si formalizza, almeno spero. Piuttosto, ragazzi, spargete la voce, portate gente, che quelli comunque li dobbiamo pagare.»
La voce la spargiamo, eccome, e una settimana dopo, ci presentiamo con largo anticipo con uno stuolo di amici e conoscenti. Il salone è