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E-book291 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Il caso editoriale dell'anno

Un successo mondiale

Charlotte vive con la nonna ed è una ragazza con la testa sulle spalle: bravissima a scuola, lavora in un negozio di fiori per pagarsi gli studi e nel tempo libero si prepara per l’ammissione alla prestigiosa università di Stanford. È molto concentrata e non si concede distrazioni, niente uscite serali e soprattutto niente ragazzi: la sua più grande paura è infatti quella di fare la fine di tutte le donne della sua famiglia, che hanno rinunciato a seguire le proprie aspirazioni a causa dell’amore. Una sera, all’ora di chiusura, entra nel suo negozio un misterioso e affascinante cliente, ombroso ma gentile, che le fa strane domande. Nonostante ne rimanga colpita, Charlotte è sicura di non rivederlo mai più… E invece la mattina dopo le viene recapitato in classe un mazzo di rose purpuree, i suoi fiori preferiti. A mandarglieli è stato proprio Tate, il ragazzo della sera prima, che inizia a corteggiarla in modo molto discreto ma deciso. Charlotte, dopo le resistenze iniziali, decide di uscire con lui per una sola sera. Ma appena fuori dal ristorante vengono assaliti da folla di paparazzi che grida il nome di Tate… Chi è davvero quel misterioso ragazzo e cosa nasconde dietro quei bellissimi occhi malinconici?

Un bestseller internazionale
Tradotto in 18 Paesi
Romanticissimo, travolgente, un romanzo unico

«Un romanzo che fa sognare, desiderare, sospirare. Eccezionale.»

«Impossibile non innamorarsi di Tate, garantito.»

«Una bellissima storia sul primo grande amore e su come trovare la propria strada nella vita.»

«Charlotte pensa di avere tutto sotto controllo. Poi incontra Tate. E niente sarà mai più come prima.»
Elizabeth Craft
è una sceneggiatrice e produttrice e ha firmato, insieme a Sarah Fain, una serie young adult: Bass Ackwards and Belly Up.
Shea Olsen
vive e scrive in un piccolo paese di montagna in Oregon. Lavora come produttrice per una società cinematografica e condivide una casa con il marito, un cane di nome Diesel, e due gatti.
LinguaItaliano
Data di uscita9 nov 2016
ISBN9788822702746
Flower
Autore

Elizabeth Craft

Elizabeth Craft lives in rural South Carolina with her two dogs and her two cats. Elizabeth was an outreach librarian and has read to hundreds of children. Currently, she teaches courses in psychology, including cognition and perception. She is fascinated by the many similarities and differences between how humans and other animals think and perceive. Elizabeth believes that all children are natural scientists and born explorers and that all children should be encouraged in their creativity and imaginations.

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    Anteprima del libro

    Flower - Elizabeth Craft

    Indice

    Prima

    Dopo

    Uno

    Due

    Tre

    Quattro

    Cinque

    Sei

    Sette

    Otto

    Nove

    Dieci

    Undici

    Dodici

    Tredici

    Quattordici

    Quindici

    Sedici

    Diciassette

    Diciotto

    Diciannove

    Venti

    Ventuno

    Ventidue

    Ventitré

    Ventiquattro

    Venticinque

    Ventisei

    Ventisette

    1409

    Prima edizione ebook: gennaio 2017

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0274-6

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per Studio Ti s.r.l., Roma

    Elizabeth Craft e Shea Olsen

    Flower

    Newton Compton editori

    Prima

    Avevo dodici anni quando mi feci quella promessa.

    Fu lo stesso anno in cui morì mia madre. Lei era sempre stata incosciente. Impulsiva. Ogni volta che un nuovo fidanzato entrava nella sua vita, abbandonava me e mia sorella Mia. Avevo visto mia madre innamorarsi così spesso… Era come se lo volesse disperatamente, come se stesse soffocando e quella fosse la sua aria. Ci ha lasciato per prendere un’ultima boccata, e alla fine l’amore l’ha uccisa.

    L’amore ti può distruggere. Può portarti via tutto.

    E così io ho promesso a me stessa: niente ragazzi, niente ballo di fine anno, niente feste del sabato sera. Sarei rimasta a casa, avrei rigato dritto, sarei andata al college e mi sarei costruita un futuro diverso. Non avrei permesso a niente e a nessuno di fermarmi.

    Questo, però, accadeva prima che cambiasse ogni cosa.

    Prima di lui.

    Dopo

    Il suo sguardo scivola sulle mie labbra e si ferma lì per un attimo, prima che lui appoggi la bocca sulla mia. Io lo bacio intensamente, mentre mi tiene per i polsi e si stringe a me con tutto il corpo.

    Voglio di più.

    Si stacca per baciarmi sulla guancia, e poi giù, sul collo. La sua bocca è bollente, mi dà dei piccoli morsi sulla pelle. Quando solleva la testa per guardarmi, scorgo nei suoi occhi un oscuro desiderio. Restiamo a fissarci mentre lui mi bacia. Un semplice bacio, un lieve tocco delle labbra sulle labbra. Poi ancora.

    E ancora.

    Fino a che i nostri occhi si chiudono nello stesso istante e le lingue s’incontrano. Con la mano mi afferra un fianco. Cerco la zip del suo giaccone e la tiro giù. Lui geme sulle mie labbra e un brivido mi attraversa e mi fa fremere.

    In questo momento incredibile, fantastico, travolgente, gli lascerei fare qualunque cosa.

    Qualunque cosa.

    Uno

    Due mesi prima…

    Il cellulare squilla nella borsa, un fischio acuto, come quello di un treno in lontananza. Frugo tra tubetti di burro di cacao, scontrini, tovagliolini del Lone Bean, e alla fine recupero il telefono.

    È un messaggio di Carlos, il mio migliore amico dai tempi delle medie. Che fai di bello?

    Top secret, rispondo, con due faccine per sottolineare.

    Carlos sa che sono al lavoro – negli ultimi tre anni ho lavorato al Bloom Room, un esclusivo negozio di fiori, tutti i lunedì dopo scuola.

    Non vuoi partecipare a una delle feste pre diploma di Farrah?, mi risponde Carlos.

    Farrah Sullivan dà un party ogni volta che suo padre lascia la città, il che succede normalmente una volta al mese. E anche se il giorno dopo hanno scuola, quasi tutti gli studenti della Pacific Heights si presentano per fare casino. Farrah ha la piscina e il tavolo da pingpong in giardino, e il suo frigo è sempre pieno di birre per tutti – o almeno è quello che ho sentito. Carlos però non vuole andarci da solo perché ci sarà la sua ultima cotta: Alan Gregory, il ragazzo dal doppio nome che frequenta la Worther Prep a Beverly Hills e che flirta con Carlos da quando, il mese scorso, si sono incontrati a un concerto indie a West Hollywood.

    Sospiro e appoggio i gomiti sul bancone. Mi dispiace, digito. Te la caverai alla grande senza di me, come sempre. Io evito tutte le occasioni mondane: le feste, i club, i giri a Venice Beach per guardare il tramonto sorseggiando rum da una fiaschetta. Ogni tanto penso che è un miracolo che la nostra amicizia sia durata così a lungo. Ma io e Carlos siamo due anime gemelle, anche se in modo del tutto platonico. Io sono la metà affidabile, solida, quella che lui chiama quando la sua ultima relazione va in pezzi, o quando è malato e ha bisogno di una montagna di riviste di gossip e di zuppe assortite dal suo ristorante preferito a Santa Monica. E in cambio, nelle rare serate in cui non lavoro o non studio, mi trascina in qualche minuscolo scantinato a sentire band sconosciute. Mi tiene sveglia a parlare al telefono quasi tutta la notte finché non crolliamo addormentati con i cellulari ancora in mano. Mi fa ridere. E io lo tiro fuori dalla spirale quando s’innamora di brutto del tipo sbagliato o gli prende il panico perché pensa che non sarà mai accettato in un buon college. Ci compensiamo a vicenda. Non potrei mai immaginare la mia vita senza di lui.

    Il cellulare suona di nuovo: ho bisogno della mia charlotte.

    Rido, soffiandomi via dalle ciglia la lunga frangia.

    Ahimè, la tua Charlotte ha detto a Holly che lei per stasera ha chiuso. Divertiti tu per tutt’e due. Puoi farcela, scrivo.

    La mia vita è questa: la scuola; il lavoro quattro giorni alla settimana nel negozio di fiori; il tirocinio di ricerca all’ucla tutti i giovedì; poi lo studio nella casa minuscola che condivido con mia nonna, mia sorella maggiore, e il mio nipotino. Insaponare. Sciacquare. Ripetere. Non è che avessi deciso di essere la più emarginata di tutta Los Angeles. Ma avevo deciso che sarei stata la prima donna nella mia famiglia ad andare al college, e non volevo imboccare la strada che avevano preso mia mamma e mia sorella: incinte prima dei vent’anni, e una scia di ex fidanzati alle spalle. Motivo per cui, a diciott’anni, non ho mai baciato un ragazzo, non ho mai stretto mani nel corridoio tra le lezioni, non sono mai stata a un ballo della scuola.

    Carlos mi invia una serie di faccine in lacrime.

    Gli rispondo con delle labbra a bacio.

    Dopo essermi sentita come l’amica sfigata che non riesce mai a fare niente di divertente, ho aperto la app musicale sul telefono e ho scelto una playlist random. È partita una vecchia canzone – qualcosa che avrebbe ascoltato volentieri mia nonna – My Girl dei Temptations. Stranamente mi faccio prendere dal pezzo, poi rivolgo l’attenzione ai numerosi bouquet da preparare per una festa dei diciott’anni in stile principessa. Quando la musica aumenta di ritmo, volteggio sentendomi un po’ stupida, ma decisa a dimenticare quanto la mia vita sia regolare e organizzata. Come non conceda alcuno spazio alla spontaneità. Prendo del nastro rosa, bianco e giallo; spargo brillantini sui petali dei tulipani e lustrini adesivi sui vasi; intanto canto sui pezzi sparati a tutto volume dal mio telefono e ballo come un’imbranata totale. Ho completamente dimenticato di essere al lavoro.

    Sono ancora persa in quella situazione, quando mi sale un brivido dalla base del collo: qualcuno mi sta osservando. Alzo gli occhi dal caos che regna sul tavolo davanti a me, e riprendo fiato.

    C’è un ragazzo con le mani in tasca dall’altra parte del bancone, e mi guarda. Non ho nemmeno sentito il campanello della porta quando è entrato. Sussulto, mi tiro su dai bouquet su cui ero china, e realizzo che l’ampia scollatura del top è scesa in basso, mettendo in mostra la coppa del mio reggiseno rosa.

    «Posso esserti d’aiuto?», chiedo, azzerando in fretta il volume della musica del telefono e facendolo scivolare nella tasca posteriore dei jeans, nel tentativo di smorzare l’imbarazzo che traspare dal colore del mio viso.

    Lui mi studia, i suoi occhi scuri salgono dalla mia clavicola al viso, come se proprio non riuscisse a trovare una risposta alla domanda.

    «Mi servono dei fiori».

    Mi accorgo che è stupendo: zigomi forti e labbra che si uniscono in una linea ben definita… labbra che trattengono il mio sguardo per un attimo di troppo.

    «Hai già un’idea?». Costringo il cervello a girare intorno alla sua solita serie di domande mentre i miei occhi continuano a vagare su di lui: jeans strappati, capelli rasati, e una T-shirt stretta mezza infilata nella cinta. I muscoli delle braccia sono appena visibili sotto le maniche di cotone, e il torace è ampio. Ha il genere di fisico che Carlos ama osservare per le strade di la – tipi che escono dalle palestre e dai locali, o che fanno una corsetta per il Sunset – alto, muscoloso e asciutto.

    Non è che dovrei star lì a notare com’è fatto.

    Sbatto le palpebre e riporto lo sguardo sul suo viso. Ha un’espressione guardinga, come se mi avesse beccato a valutarlo e aspettasse il verdetto. Posso solo sperare che le mie guance non appaiano rosse come le sento io.

    «Non proprio», risponde dopo un momento a bassa voce.

    «Seguimi», gli dico automaticamente, uscendo da dietro il bancone. Si tiene a una certa distanza mentre ci dirigiamo nel retro del negozio, dove una selva di rose, gigli e bouquet assortiti attende di essere acquistata dai clienti o caricata in uno dei furgoni con cui fa Holly le consegne. Con un gesto indico la cella frigo, cercando di non soffermarmi troppo con lo sguardo sul suo viso. Ignorare la bellezza dei ragazzi è una disciplina, e io sono orgogliosa della mia padronanza. Ma qualcosa in questo tipo mi mette a disagio – troppo attento alla mia postura, alle mie mani impacciate, alle mie guance ancora calde. «Con le rose vai sul sicuro». Sposta lo sguardo da me ai fiori, serrando e distendendo la mandibola. Conosco bene questa trafila, la vedo in continuazione: il ragazzo ha bisogno di fiori per la sua ragazza – per l’anniversario o per chiederle scusa di qualcosa – ma non ha idea del colore, della quantità, se devono essere confezionati o in vaso, dopodiché se ne sta lì al bancone e si tormenta cercando di decidere cosa scrivere sul bigliettino che spillerò al mazzo. Ora i suoi occhi sono su di me, e io non posso fare a meno di rubargli un altro sguardo. In qualche modo la forma del suo viso, la perfetta struttura della mascella e la scura lucentezza degli occhi mi appare vagamente familiare. Forse frequenta la mia stessa scuola – uno di quei tipi tormentati, tenebrosi che fumano sigarette nel parcheggio tra una lezione e l’altra.

    «Ci conosciamo?», chiedo, desiderando all’istante di non averlo fatto. Se in effetti frequenta la mia scuola, non posso certo far finta di non conoscerlo quando lo vedo all’entrata, evitare quel mezzo sorriso impacciato di saluto.

    Sposta il peso – le spalle sollevate e le mani ancora in tasca – come in attesa che sia io a rispondere alla domanda. Tra noi cala il silenzio e l’angolo della sua bocca si contrae in un tic.

    Il cellulare fischia dalla mia tasca posteriore. Lo ignoro, ma continua a squillare.

    «Sei un tipo popolare», dice sollevando un sopracciglio.

    «Per niente. Ho soltanto un amico del cuore insistente». Tiro fuori rapida il telefono, tolgo la suoneria e metto la vibrazione.

    «Guarda che puoi rispondere».

    «No. Vuole solo che vada a una festa».

    «E tu non ci vai?».

    Scuoto la testa. «Devo chiudere».

    «E dopo?». Inclina un po’ la testa e giurerei di conoscerlo – ma c’è qualcosa in lui, qualcosa che mi dice che devo lasciar perdere.

    «Compiti», rispondo semplicemente.

    «Non puoi prenderti una serata per uscire?».

    Lo guardo, chiedendomi perché se ne interessi. «Se non voglio continuare a lavorare in questo negozio di fiori per il resto della mia vita, no». Rivela un bagliore negli occhi, un accenno di sorriso, una lieve fossetta sulla guancia sinistra.

    «Qual è il tuo preferito?», mi domanda rompendo il silenzio.

    «Il mio preferito cosa?».

    Fa un cenno del capo, indicando gli espositori tutti intorno a noi. «Il tuo fiore preferito».

    «Veramente io…».

    «Devi averne uno». La fossetta riappare e sparisce. «Lavori in un negozio di fiori. Ne sei letteralmente circondata».

    «Be’, io…», esito. «Non credo proprio che tu le voglia».

    Stringe gli occhi, come se fosse incuriosito. «Questa non è una buona strategia di vendita».

    Esamino i secchi straripanti di fiori – sgargianti orchidee e gigli profumati. Ortensie e peonie che non sono mai di stagione ma sempre di moda. E le varietà più insolite: astri, ranuncoli, dalie e camelie. «Mi piacciono le rose purpuree».

    «Perché?», mi domanda.

    «Significano amore passeggero».

    «Vuoi dire l’amore che non dura?», chiede. «È un significato un po’ pessimista, non ti pare?»

    «Non pessimista, solamente realista. L’amore passeggero è un genere più comune dell’amore che dura per sempre».

    C’è un istante di silenzio tra noi, e per un momento mi chiedo di cosa stiamo veramente parlando.

    «Allora perché qualcuno dovrebbe comprare le rose purpuree?», chiede.

    «È l’unica rosa che non cerca di essere qualcosa che non è. È bellissima e sincera, ma le persone non la scelgono mai». Posso sentire il suo sguardo su di me e la mia pelle che si scalda – gli ho appena detto molto più di quello che volevo dire. Ritorno alla cella frigo e tocco la maniglia per verificare che sia ben chiusa.

    «Credo che dovrò orientarmi sulle purpuree, allora», dice.

    Il mio cervello ci mette un secondo per mettersi in moto e farmi rientrare nel ruolo della commessa. «Oh, magnifico… Quante?»

    «Tu che suggerisci?»

    «Una dozzina?».

    Gli torna il sorriso. «Questa sì che è una buona strategia di vendita».

    Mi segue dietro al bancone, il suo profumo persiste nell’aria: un odore fresco, pulito che non riesco a classificare.

    Mentre inserisco il suo ordine nel computer, sento i suoi occhi su di me.

    «Qual è il nome?»

    «Scusa?»

    «Il tuo nome», ripeto, «mi serve il tuo nome per l’ordine».

    Non sono proprio sicura che mi abbia sentito perché sulle labbra gli spunta un mezzo sorriso sbilenco, come se avesse un segreto da non condividere.

    Finalmente risponde: «Tate».

    Io completo l’ordine, quindi conto le banconote che mi dà e gli allungo il resto. Ma invece di prenderlo dal bancone, la sua mano si protende verso di me, riducendo lo spazio tra noi. Mi sfiora la guancia con le dita appena sotto l’occhio sinistro. Trattengo il respiro, poi faccio per chiedergli che sta facendo, ma a quel punto allontana la mano e la ferma di fronte a me. «Brillantini», dice. «Cosa?». Do un’occhiata alle sue dita. La punta del pollice e dell’indice sbrilluccicano. Brillantini. Dalle decorazioni per la festa di compleanno. «Grazie», gli dico, e le guance mi si infuocano di nuovo come punzecchiate da migliaia di minuscoli aghi.

    «Ti stanno bene». Adesso sta proprio sorridendo.

    Scuoto la testa, per l’imbarazzo mi prude dappertutto. Che c’è che non va in me stasera? «Se non ti scoccia aspettare un po’», gli dico, «posso confezionarti il bouquet subito. Oppure puoi ritirarlo domani, o possiamo consegnartelo noi».

    «Domani», dice, «lo ritirerò io».

    «Sarà pronto dopo le dieci». Mi mordo il labbro inferiore, ancora in imbarazzo, nella speranza che se ne vada. «Spero che piacciano alla tua ragazza», aggiungo prima di riuscire a fermarmi.

    I suoi occhi si addolciscono. Quando finalmente parla, pronuncia le parole lentamente. «Non ho una ragazza… Charlotte».

    Il respiro mi scivola in gola mentre si allontana dal bancone, verso l’entrata del negozio. Conosce il mio nome. Come fa a conoscere il mio nome? In quel momento tocco con le dita la targhetta di plastica col nome spillata sul mio top, su cui in lettere bianche c’è scritto: charlotte.

    Lui si ferma con una mano sulla porta a vetri e io lo fisso, sperando che non si volti. Sperando che lo faccia. Ma lui avanza nella luce della sera e io mi aggrappo al bordo del bancone, mentre il suono del mio nome pronunciato dalle sue labbra continua a echeggiarmi in testa.

    Due

    Quando un colpo scuote la porta dell’aula, l’intera classe sobbalza sulle sedie.

    Mr Rennert, che deve aver insegnato inglese alla Pacific Heights High da prima che nascesse mia nonna, sospira e picchietta col pennarello sulla cattedra. «Avanti».

    La porta si spalanca e Misty Shaffer, una di terza con gli shorts, i capelli corti e un sorrisetto fisso che mette in mostra l’apparecchio, entra nella stanza. Mi aspetto di vederle un foglio in mano, un messaggio privato da consegnare a uno degli studenti. Invece porta un enorme bouquet di rose.

    Rose purpuree.

    Lacy Hamilton e Jenna Sanchez sospirano dai loro posti nella fila davanti, con le facce accese dalla speranza, mentre dal fondo della stanza sale un chiacchiericcio.

    «Silenzio laggiù. La mia ora non è finita», fa notare Mr Rennert col suo solito tono secco. «Miss Shaffer, lei sembra essersi smarrita. Secondo il mio orario, sto facendo il corso d’inglese avanzato, non introduzione alla botanica».

    «Ordini speciali dalla segreteria, Mr R», dice Misty, e tira dritta superandolo.

    «Il tipo della consegna ha detto che queste non possono aspettare».

    Come lei prende a scendere per la corsia centrale, il tempo sembra rallentare. Credo stia andando verso il banco di Jenna, e l’atteggiamento di quest’ultima dice che lo pensa anche lei. Ma Misty si ferma di fronte a me, il bouquet quasi le nasconde la faccia. Io la fulmino con lo sguardo, con la matita in mano ferma sul mezzo disegnino di un tortuoso rampicante che stavo abbozzando al margine del mio quaderno.

    «Charlotte», dice in tono solenne. Protende le rose verso di me – i petali purpurei hanno quasi la stessa sfumatura del suo apparecchio – e io non riesco a reagire, ad allungare le mani per prenderle dalle sue.

    Non può essere.

    Carlos mi strattona il braccio, allungandosi dal suo banco, che è accanto vicino al mio, e incoraggiandomi a fare qualcosa. Tutta la classe mi sta fissando, compreso Mr Rennert, chiaramente irritato. Strappo in tutta fretta il mazzo dalle sue mani e l’appoggio sul banco. Misty rimane per un momento ancora, con gli occhi spalancati, in attesa, come se pensasse che le avrei svelato il nome del mittente.

    «Va bene, Miss Shaffer, ha svolto il suo incarico». Mr Rennert scruta i fiori mentre io faccio finta di essere invisibile. «Forse adesso mi lascerà tornare a quello che stavo facendo…».

    Misty fa un ultimo giro col suo sorrisetto, poi se ne va rapida come era arrivata.

    «Lo spettacolo è finito, gente. Cerchiamo di concentrarci», aggiunge Mr Rennert, riprendendo il pennarello dalla cattedra. Ma prima che possa dire un’altra parola, la campanella suona dall’altoparlante sopra la porta e tutti scattano in piedi dal loro posto. Mr Rennert lancia un’occhiataccia, prima al mazzo di fiori e poi a me.

    Io mi alzo adagio, come se la forza di gravità fosse troppo potente. Non riesco nemmeno a parlare. Non posso fare niente per difendermi dai sussurri e dagli sguardi insistenti di quelli che uscendo mi passano accanto. Jenna Sanchez mi lancia un’ultima occhiata: ha l’incredulità stampata sul viso. Probabilmente la stessa espressione è incisa sul mio.

    «Che cosa mi stai nascondendo?», mi chiede Carlos con un tono accusatorio, quando il flusso del corridoio ci inghiotte. Non ci sono mai stati segreti tra noi – del resto io non ne ho nessuno da custodire. Appena mi infilo tra la folla becco colpi di zaini e spallate; Carlos è appena dietro di me. «Chi te le ha mandate?».

    Nel tirare fuori il bigliettino dal centro del mazzo per esaminare la busta, mi tremano le mani. Proviene senza dubbio dal negozio in cui lavoro; riconosco la sottile bordatura dorata. Charlotte, si legge chiaramente sul davanti. Il minuscolo cartoncino si sfila con facilità dalla busta, e insieme ne escono dei brillantini che un po’ mi si appiccicano alle dita, e un po’ cadono sul pavimento piovendo sulla punta delle mie ballerine blue navy.

    Perché le rose non dovrebbero cercare di essere qualcosa che non sono, dice il bigliettino.

    «Be’, non me la spieghi?», chiede Carlos, leggendo da sopra le mie spalle e scostandosi la folta capigliatura nera dalla fronte. Carlos mi supera di una buona trentina di centimetri, e quando sta dritto in piedi, la punta della mia testa si infila esattamente sotto il suo mento.

    «E tutti quei brillantini che c’entrano?».

    Rimetto il bigliettino nella busta, con il cuore che mi martella nel petto. Tate. Ha comprato i fiori per me. Che razza di pazzo compra rose per una ragazza che non conosce? E come ha fatto a trovarmi a scuola?

    «Pronto?», dice Carlos agitandomi la mano davanti alla faccia. «Finalmente la mia piccola Charlotte si è trovata un ammiratore?»

    «Naturalmente no». Ma al pensiero mi s’infiammano le guance. «È solo uno che è venuto in negozio ieri».

    Carlos resta a bocca aperta, mostrando il leggero spazio tra gli incisivi.

    «L’hai visto ieri e lui oggi già ti manda dei fiori?». Tocca uno di quei boccioli perfetti, e l’anello nero vintage, che ha trovato in un mercatino dell’usato due mesi fa, luccica in netto contrasto con i petali purpurei. Carlos cambia stile ogni mese: oggi indossa un gilet spinato su una T-shirt grigia informe e mocassini a quadri che ha preso dall’armadio del padre.

    «Non ho ancora capito come ha fatto a trovarmi», dico.

    «Okay, torna indietro. Parti dall’inizio. Era carino oppure orribile?».

    Io mi rannuvolo al ricordo del suo viso perfetto, dei suoi occhi scuri, e della naturalezza con cui si è allungato sul bancone per togliermi i brillantini dalla guancia.

    «Quindi era carino», dice Carlos con un sorrisetto, appoggiando il braccio sulla mia spalla. «Tranquilla, Char, in fin dei conti puoi pensare che un ragazzo è carino. Pensarlo non ti rovinerà la vita».

    Lo guardo di traverso. «Era più che carino, se proprio vuoi saperlo, ma…».

    «Quanto dobbiamo farla lunga?». Con la mano mi stringe pensoso il bicipite. «Bellissimo? Sensuale? Scopabile senza paragoni?».

    È proprio da Carlos. «…Però mi pare un tantino arrogante mandarmi dei fiori», continuo, «dal momento che nemmeno lo conosco».

    «Magari è un po’ troppo sicuro di sé», conviene Carlos, componendo la combinazione dell’armadietto che condividiamo. Ogni anno, dopo l’assegnazione degli armadietti, io e Carlos scegliamo quale sia la postazione migliore, la meno malridotta, e la facciamo diventare la nostra base operativa. Quest’anno il nostro armadietto ha solo due ammaccature delle dimensioni di un gomito sullo sportello, e in realtà la serratura funziona il sessanta percento delle volte. La Pacific Heights High

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