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Il mio più grande errore
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E-book277 pagine4 ore

Il mio più grande errore

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Info su questo ebook

Until Series

Dall'autrice bestseller di New York Times, Wall Street Journal e USA Today

Quando Cash Mayson viene costretto a scegliere tra l’amore della sua vita e il figlio che sta per nascere, sa esattamente cosa fare. Non importa quanto gli si spezzi il cuore.
Quando Lilly Donovan è costretta ad accettare che l’uomo che amava non era chi credeva che fosse e diventa una madre single, sa esattamente cosa fare. Dimostrare tutta la sua forza.
Cosa succede quando anni dopo scopre che tutto ciò che credeva di sapere era una bugia?
Due persone che si sono amate in passato possono superare gli ostacoli e innamorarsi di nuovo?
Cash Mayson aveva dimenticato cosa significasse sentirsi amati finché Lilly non è tornata nella sua vita. E ora che ha ricordato, farà tutto il possibile per non perdere la donna che ama e i loro figli.
Aurora Rose Reynolds
è autrice bestseller di New York Times, Wall Street Journal e USA Today. Ha iniziato a scrivere perché i maschi alfa che vivevano nella sua testa la lasciassero un po’ in pace. Quando non scrive e non legge trascorre le giornate con il suo maschio alfa reale e un alano blu che le dà sempre filo da torcere.
LinguaItaliano
Data di uscita6 lug 2016
ISBN9788854196872
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    Anteprima del libro

    Il mio più grande errore - Aurora Rose Reynolds

    PROLOGO

    Al destino non si sfugge

    Lilly

    Quattro anni prima

    Conobbi Cash mentre frequentavo il secondo anno del corso di laurea in Sviluppo infantile presso l’Alabama State University. Quella notte non avevo chiuso occhio per prepararmi a un esame, e quando guardai l’orologio mi accorsi che erano già le dieci di mattina e non avevo ancora finito. Se non volevo perdere i sensi sulla scrivania dovevo assolutamente bermi un caffè. Mi tolsi il pigiama e mi infilai il primo vestito che mi capitò sotto mano. Senza perdere tempo a pettinarmi i capelli arruffati, presi il vecchio maglione di mio padre dallo schienale della sedia e mi infilai in tasca il cellulare, la chiave di casa e dieci dollari.

    Era una giornata tiepida e le strade brulicavano di famiglie e studenti del college usciti di casa per godersi il bel tempo. Quando arrivai al bar, vidi una donna che litigava con la porta d’ingresso nel tentativo di spingerci dentro un passeggino. Mi avvicinai subito per darle una mano e fui colpita dallo spiffero gelido dell’aria condizionata. Fu in quel momento che sentii il rombo di un motore.

    Mi voltai indietro e vidi un furgone nero parcheggiare in un posto auto davanti al caffè. Ne scesero due uomini: l’autista non era niente male, ma fu il passeggero a catturare la mia attenzione. Era alto e aveva la pelle dorata di chi trascorre molte ore sotto il sole. La t-shirt aderente bianca metteva in risalto i suoi pettorali scolpiti. Dal cappellino da baseball rosso sbucavano dei ciuffi di capelli castani. Solo quando mi rivolse un’occhiata interrogativa mi accorsi che lo stavo fissando; con il volto in fiamme, girai sul tacchi ed entrai nel bar senza nemmeno tenergli la porta aperta. L’aria condizionata e il profumo del caffè riuscirono a rallentare lievemente il mio battito cardiaco. Non ero abituata a sentirmi così… Fino a quel momento non conoscevo il vero significato della parola passione.

    «Cosa desideri?», mi domandò la graziosa bionda dietro il bancone, trascinandomi fuori dai miei pensieri. Diedi un’occhiata al cartellone del menù alle sue spalle. Francamente, non so perché lo feci: tanto prendevo sempre la stessa cosa.

    «Un caffè shakerato con latte scremato e tre bustine di Splenda, per favore». Mentre facevo l’ordinazione, vidi la barista sgranare gli occhi. Non avevo bisogno di voltarmi per capire chi stava fissando in quel modo: doveva essere il tipo del furgone.

    «Per me un caffè shakerato, grazie», fece lui. Quando sentì il suono suadente della sua voce, alla ragazza si illuminò lo sguardo. Io mi voltai verso di lui chiedendomi cosa diavolo gli saltava in mente. «Pago anche il suo. Siamo insieme», le disse passandole una banconota da venti.

    «Non siamo insieme», lo corressi serrando i pugni di entrambe le mani. Chi diavolo si credeva di essere?

    «Sì invece. Offro io».

    Forse era la carenza di sonno o magari lo stress pre-esame, ma quel tizio mi dava proprio sui nervi. Quando la barista ci allungò le tazze di polistirolo, mi voltai verso di lui e dissi: «Tieni», e gli premetti i dieci dollari che avevo in mano sul petto. Lui indietreggiò finendo per urtare la persona in fila dietro di lui; nel tentativo di non perdere l’equilibrio, strizzò il bicchiere e si versò il caffè addosso.

    «Mi dispiace! Cavolo… Mi dispiace da morire». Vista la mia proverbiale fortuna, era ovvio che mi capitasse una cosa del genere. In preda al rimorso, afferrai una manciata di tovagliolini dal bancone e cominciai a tamponargli la maglietta zuppa. La t-shirt bagnata gli si era appiccicata addosso, sottolineando gli addominali scolpiti. Avevo paura che le mie guance potessero prendere fuoco da un momento all’altro. «Non potevi lasciarmi pagare il mio caffè in pace?», gli chiesi. Lui scoppiò a ridere e io alzai la testa di scatto sbattendo violentemente contro il suo mento; sentii il rumore dei suoi denti.

    Avevo le lacrime agli occhi dal male.

    «Che vergogna», borbottai fra me e me. Mi portai una mano sulla testa, dove mi stava già comparendo un bernoccolo.

    «Fammi vedere, dolcezza», disse Mr Fustaccio attirandomi a sé. Mi tolse il caffè dalla mano e lo passò al tizio contro cui lo avevo spinto. Mi afferrò per il polso spostandomi da una parte. «Adesso dovrai darmi il tuo nome e il numero di telefono per avvertire la compagnia assicurativa». Mi occorsero alcuni istanti per cogliere il significato delle sue parole, e poi proruppi in una risata.

    «Spero che non sia una frase da rimorchio». Mi guardai intorno e mi accorsi che ci stavano fissando tutti.

    «Abiti qui vicino?». Mi prese il mento con due dita, costringendomi a guardarlo negli occhi.

    «Sì. Studio qui».

    Lui annuì, mordicchiandosi il labbro. «Come ti chiami?», mi chiese.

    «Ehm… Lilly. E tu?»

    «Hai la faccia da Lilly, infatti».

    «Ah sì?»

    «Sì». Fece una risatina mettendomi una ciocca di capelli dietro all’orecchio. «Io sono Cash».

    Lo guardai corrugando la fronte. «È un soprannome?»

    «No, mi chiamo proprio così. Mia mamma aveva un debole per Johnny Cash». Alzò di nuovo la mano, stavolta per accarezzarmi sulla guancia. Era strano che continuasse a toccarmi in quel modo, come se fossimo intimi, ma non riuscivo a dirgli di smetterla. «Insomma… Devi darmi il tuo numero di telefono».

    «Perché?»

    «Perché così posso chiamarti per controllare che non ti sia venuta una commozione cerebrale».

    «Sto bene». Scoppiai a ridere e lanciai un’occhiata al tipo con cui era arrivato. Aveva la testa china sul cellulare e guardava lo schermo sorridendo.

    «Vieni, ti presento mio fratello». Non mi diede il tempo di rifiutare: mi prese per mano e mi trascinò da lui.

    «Cos’è quel sorrisetto?», chiese Cash. Suo fratello alzò gli occhi dal telefono e io rimasi a bocca aperta. Non avevo idea di come fossero i genitori… ma loro due erano venuti fuori proprio bene.

    «Niente. Mi ha mandato un messaggio Liz».

    «Questa è Lilly. Lilly, questo è Trevor, uno dei miei fratelli».

    «Piacere di conoscerti», mi disse Trevor offrendomi un sorriso, ma io non riuscivo a pensare ad altro che al calore della mano di Cash sui miei lombi.

    «Ciao». Trassi un sospiro profondo, cercando di tornare in me. «Ehm, adesso devo proprio andare. Piacere di avervi conosciuti, e scusa ancora per il caffè e la testata». Scoppiarono a ridere tutti e due.

    Cash mi afferrò per il maglione, costringendomi a restare dov’ero. «È tutto a posto. Ti accompagno fuori». Trevor mi allungò il mio caffè, io gli rivolsi un cenno del capo e uscii insieme a Cash. Una volta fuori, lasciò il maglione e mi prese la mano. Non sapevo come reagire a tutto questo contatto fisico… Mi sembrava di avere uno sciame d’api che mi ronzava nello stomaco.

    «Allora, ce l’hai un telefono oppure no?», mi domandò. Era talmente vicino che riuscivo a sentire la fragranza del suo profumo. Sapeva di sole e spazi aperti. Tirai fuori il cellulare dalla tasca perché non riuscivo a spiccicare parola: era troppo vicino. Me lo prese dalla mano e compose un numero. Quando il suo telefono si mise a squillare disse: «Così posso assicurarmi che non ti sia venuta una commozione cerebrale». Mi rivolse un sorriso e sulle sue guance comparvero due fossette. Non potei far altro che rendergli il sorriso.

    Dopodiché mi schiarii la gola scuotendo la testa. «Piacere di averti conosciuto, Cash». Arretrai di un passo e vidi suo fratello uscire dal bar con due tazze di caffè.

    «Ci sentiamo presto». Sembrava che volesse aggiungere qualcos’altro ma si trattenne. Io mi girai e mi avviai a casa. Pochi istanti più tardi sentii la vibrazione del cellulare.

    Sconosciuto: Dimmi quando arrivi a casa, okay? Così saprò che stai bene.

    Mi voltai indietro e gli sorrisi scuotendo la testa, poi mi incamminai verso casa. Salvai il suo numero e gli risposi.

    Io: Tranquillo. Ho la testa dura.

    Arrivata nel mio appartamento, mi tolsi il maglione, mi buttai sul divano e abbandonai la testa all’indietro. Ripensai all’ultima mezz’ora ma poi sentii il cinguettio di una notifica. Quando lessi il suo nome il cuore prese a battermi all’impazzata.

    Cash: Sei arrivata?

    Mi guardai intorno e risposi: Sì, sono appena entrata.

    Cash: Ti chiamo stasera quando arrivo a casa.

    Io: Dove abiti?

    Cash: In una piccola cittadina del Tennessee, a un paio d’ore da te.

    Sentii il mio cuore sprofondare. Era lontanissimo… Troppo lontano per cominciare una relazione. Non che lo volessi o che potesse volerlo lui, però… Non avevo nemmeno la macchina. Ero al college grazie a una borsa di studio, non potevo permettermi nemmeno di mangiare qualcosa che non si cuocesse al microonde.

    Cash: A presto.

    Fissai il cellulare per alcuni istanti prima di rispondere: Certo, ci sentiamo presto.

    Misi il silenzioso: dovevo assolutamente studiare. Non potevo passare la giornata a fantasticare su un ragazzo castano con due bellissimi occhioni blu e le fossette.

    Lilly

    Tre settimane dopo

    Ero pronta. Mi guardai allo specchio: il sole dell’Alabama aveva indorato la mia pelle chiara, rendendo i miei occhi più tendenti al verde che al marrone. Mi ero messa un bello strato di mascara e un po’ di fard. I capelli rossi mi scendevano sulle spalle in una serie di morbide onde e mi ero fermata le due ciocche laterali dietro alla testa con una molletta. Indossavo i miei jeans scuri aderenti preferiti, un paio di sandali neri e un top nero.

    «Puoi farcela», mi dissi fissandomi allo specchio. Erano passate tre settimane dall’ultima volta che ci eravamo visti di persona. Tre settimane di telefonate e sms, e adesso Cash stava per arrivare.

    Ero nervosa ed eccitata. Avevo scoperto un sacco di cose su di lui: proveniva da una famiglia molto unita, aveva tre fratelli, i suoi erano ancora sposati e innamoratissimi. Aveva una nipote che adorava e un’altra in arrivo. Lui e i suoi fratelli lavoravano in proprio e lui si era comprato una casa tutta sua, che stava ristrutturando con le proprie mani. Il suono del campanello mi fece sobbalzare. Mi guardai allo specchio un’ultima volta e spensi la luce del bagno. Il campanello suonò di nuovo proprio mentre spalancavo la porta. Indossava una t-shirt grigia, dei jeans e un paio di stivali. I capelli castani gli sbucavano da sotto il cappellino da baseball come l’ultima volta. Mi squadrò dalla testa ai piedi intensamente. Io deglutii e respirai profondamente, piantando le unghie nella porta.

    «Ciao». Appena sentì la mia voce, entrò e mi prese fra le braccia, incastrando il volto nell’incavo del mio collo. Senza fiato, restai impalata con le braccia lungo il corpo per alcuni istanti, e poi gli cinsi il busto, stringendolo.

    «Hai un profumo buonissimo…», mi sussurrò provocando un’impennata al mio battito cardiaco e un delizioso formicolio alle mie parti basse.

    «Grazie». Sorrisi, mi piaceva stare fra le sue braccia. Mi ero dimenticata del suo profumo, di quanto sembrasse possente accanto a me. Mi fece scorrere le mani lungo le braccia, fin sulle spalle e poi sul viso.

    «Pronta?».

    Annuii. Mi si era completamente seccata la lingua, ero sopraffatta da lui. Era senza dubbio uno dei ragazzi più belli che avessi mai visto. Con quel cappellino sembrava un fichissimo giocatore di baseball, solo più robusto. «Cosa facciamo?»

    «Pensavo di andare a mangiare qualcosa e poi al cinema».

    «Mi sembra perfetto. Prendo la borsa». Mi liberai dal suo abbraccio e andai in cucina a recuperare la borsetta dal piano di lavoro. Controllai di aver preso il cellulare. Cash era fermo sulla soglia di casa, stava guardando le foto appese al muro.

    «Sono i tuoi genitori, quelli?», mi chiese indicando la foto di mamma e papà davanti al Childs Glacier in Alaska. Mia mamma aveva la testa appoggiata sul petto di mio padre e sorrideva all’obiettivo. L’avevo scattata poco prima di partire per il college.

    «Sì, sono mamma e papà», risposi con un sorriso. Lui guardò me e poi di nuovo la foto.

    «Assomigli molto a tua mamma. Solo i capelli sono diversi». Non riuscii a trattenermi dal toccarmi una ciocca.

    «Appena sono diventata abbastanza grande da andare al supermercato da sola, ho cominciato a comprare le tinte e a cambiare colore». Sorrisi ripensando alla prima volta che avevo provato l’ebbrezza di acquistare una confezione di colore per i capelli. «La prima volta me li feci neri. Quella sera, quando tornarono a casa, i miei trovarono un mucchio di asciugamani e buona parte del bagno neri come i miei capelli». Scoppiai a ridere. «Mio padre dice che capisce di che umore sono dal colore che ho in testa».

    «E il rosso cosa significa?». Allungò un braccio e mi passò le dita fra i capelli.

    «Non lo so».

    «Non si dice che le rosse siano particolarmente disinibite?», mi domandò con un sorrisetto.

    «Ehm… Io…». Avevo le guance bollenti.

    «O irascibili?».

    Scossi la testa. «Non credo che il colore dei capelli incida sul carattere delle persone».

    «Be’, quando ci siamo conosciuti al bar… Sembravi piuttosto irascibile».

    «Mi avevi fatta arrabbiare».

    Lui sghignazzò e arretrò di un passo. «Volevo solo farti capire che mi interessavi».

    Corrugai la fronte. «Offrendomi il caffè come uno sbruffone?»

    «Volevo essere gentile».

    «Il gesto è stato carino, te lo concedo, ma la metodologia lasciava molto a desiderare».

    «Okay, lo ammetto, non è stato il massimo».

    «Lo fai spesso? Insomma… Offri sempre il caffè alle ragazze con cui ci vuoi provare?»

    «Ti assicuro che non l’avevo mai fatto».

    «Mai?», chiesi. Lui scosse la testa. Gli passò uno strano lampo negli occhi. Non ne colsi il senso, ma non mi piacque.

    «Frequenti molte ragazze?», gli domandai a bassa voce, chiedendomi se fossi solo un’altra delle sue conquiste.

    «Non ho mai dovuto frequentare nessuno».

    «E questo cosa vorrebbe dire?»

    «Se voglio andare a letto con una ragazza non ho bisogno di frequentarla».

    «Come, scusa?», chiesi a mezza voce. Questa risposta non me l’aspettavo proprio. «Sei uno di quelli che conquistano tutte le ragazze che gli pare senza fare il minimo sforzo?». Si strinse nelle spalle. Quel gesto mi fece venire voglia di dargli un calcio nelle palle. Forse era vero che le rosse erano irascibili.

    «Non ho mai preso in giro nessuno, né detto cose che non pensavo solo perché in quel momento era giusto dirle».

    «E questo dovrebbe risolvere tutto?»

    «Non so se risolve tutto, ma io sono fatto così».

    «Be’, sono contenta di averlo scoperto subito».

    «Oh no», disse scuotendo la testa. «Con te è diverso».

    «Sì, lo so», feci io, incrociando le braccia sul petto. «È diverso perché io non verrò a letto con te». Mi protesi in avanti. «mai».

    «Be’, credo che questo commento ce la dica lunga sull’irascibilità delle rosse». Sorrise, mettendo in mostra le fossette. «Credimi, non mi sarei mai fatto tre ore di macchina solo per venire a letto con te. Non è quello che voglio. Con te è diverso», ripeté, provocandomi il batticuore. «Sono curioso di conoscerti, di vedere cosa può succedere».

    «Possiamo essere amici. Punto e basta. Non voglio essere una conquista qualsiasi, una tacca sulla testiera del letto».

    «Ti ho per caso chiesto di venire a letto con me?». Mi rivolse un altro sorrisetto. Non c’era bisogno che lo dicesse: ne avevo visti un sacco di ragazzi come lui al campus, e li avevo sempre evitati come la peste. «Quando andremo a letto insieme, sarà perché lo vorremo tutti e due».

    «Hai sentito cosa ti ho detto?»

    «Ti ho sentita. Ma mai dire mai». Mi guardò con un’espressione che dava a intendere che sapesse qualcosa che a me sfuggiva; mi sentii molto a disagio. «Pronta?».

    Non ero pronta proprio per niente. Anzi, ero sempre più convinta di aver compiuto uno sbaglio madornale. Avevo il cervello che lavorava all’impazzata, cercando di capire cosa diavolo stava succedendo. Mi allungò la mano e abbassai gli occhi per guardarla. Aveva delle belle mani, grandi, virili, con le dita lunghe. Mi sembrava di essere sotto esame, un esame per cui non mi ero preparata.

    «Ehi». Mi portò le dita sotto al mento, inducendomi a guardarlo negli occhi. «Possiamo prenderla con calma».

    «Cosa possiamo prendere con calma?», volli sapere. Aveva uno sguardo caloroso, che accelerava il mio battito cardiaco.

    «Questo… L’inizio della nostra storia».

    «Non sarai mica un vampiro, vero?», scherzai io. Lui mi lanciò un’occhiata intensa, provocandomi un brivido, dopodiché scoppiò a ridere e gettò la testa all’indietro. Quando riportò gli occhi su di me scosse il capo.

    «No, non sono un vampiro. Però sono uno che sa quello che vuole».

    «Mi stai facendo agitare».

    «Benvenuta nel club», disse a mezza voce voltandosi per aprire la porta e lasciarmi uscire per prima. Una volta in corridoio mi girai per dare una mandata al catenaccio. Lui mi prese per mano; aveva dei piccoli calli e mi venne spontaneo chiedermi come doveva essere sentire quelle dita lungo il corpo. Questo pensiero mi colse totalmente alla sprovvista. Ero cresciuta in una piccola cittadina dell’Alaska – l’anno in cui avevo preso il diploma ci eravamo diplomati solo in trentacinque. A sedici anni avevo avuto un ragazzo, ma l’unica cosa che avessimo mai fatto era stata baciarci. E io l’avevo fatto solo perché era normale, non perché ne avessi particolarmente voglia. L’attrazione che provavo per Cash era una sensazione nuova e spiazzante.

    Trassi alcuni respiri profondi nel tentativo di calmarmi. Riuscii a rilassarmi solo quando uscimmo in strada e ci fermammo accanto a un furgone rosso. Cash aprì la portiera, ma quando feci per salire mi resi conto che non c’erano né un predellino né una maniglia per issarsi a bordo. Mi voltai verso di lui, che stava sorridendo.

    «Come faccio a salire?», domandai indicando l’abitacolo col pollice. Il suo sorriso divenne ancor più ampio; mi si avvicinò e mi posò le mani all’altezza della vita. Un secondo dopo, mi ritrovai per aria e dovetti aggrapparmi alle sue spalle. Quella posizione mi ricordò Dirty Dancing, quando Patrick Swayze e Jennifer Grey si allenano sul tronco d’albero. Incrociai il suo sguardo. Avevo una voglia tremenda di baciarlo, era la prima volta che mi capitava una cosa del genere. Quando mi adagiò sul sedile i suoi occhi scivolarono per un attimo sulle mie labbra.

    «Adesso puoi anche lasciarmi», disse. Aveva la voce lievemente roca; ritrassi le mani velocemente e me le posai in grembo. Tremavano.

    Tre mesi dopo

    «Detesto dovermene andare. Detesto stare senza di te», disse Cash a bassa voce. Eravamo sdraiati sul letto. Avevamo appena fatto l’amore ed era stato fantastico, molto più bello di quanto mi aspettassi. Era stato dolcissimo. Be’, in realtà Cash era sempre dolcissimo con me, ma stavolta… Era stato come se ci fossimo fusi, come se fossimo diventati una cosa sola, non solo fisicamente. Sapevo che ci amavamo – me lo ripeteva in continuazione – ma sentirlo, sapere che lui era stato il primo, pensare di avergli dato un pezzo di me stessa… Mi univa a lui, rendendo tutto ancor più perfetto. Mi strinsi a lui permettendogli di accarezzarmi lungo la schiena, sul fianco.

    «Lo detesto anch’io», gli dissi appoggiando il mento sul suo petto per guardarlo negli occhi. Scrutai il suo volto, domandandomi cos’avrebbe detto se avessi deciso di trasferirmi in Tennessee per frequentare un college vicino a casa sua. Volevo stare insieme a lui. Non volevo andare a vivere con lui, ma se avessi abitato a mezz’ora da casa sua invece che a tre ore sarebbe stato magnifico. Era insopportabile vedersi solo durante i fine settimana. E non mi piaceva che dovesse guidare per tutti quei chilometri solo per venirmi a trovare. Stavo per dirglielo quando mi resi conto che sarebbe stata una stupidaggine. Era troppo presto. Okay, gli avevo appena dato la mia verginità, ma non dovevamo per forza sposarci o giurarci amore eterno. Se le cose fossero andate bene, magari fra un po’ di tempo avrei potuto tirare fuori la questione e chiedere il suo parere.

    Mi sfiorò il volto con la mano, riportandomi alla realtà.

    «Che c’è?», mi chiese spostando le dita dalla tempia al mio labbro inferiore.

    «Niente. Pensavo solo che il mio mai è finito giù per il gabinetto…». Scoppiai a ridere, ripensando a quando gli avevo detto che non sarei mai andata a letto con lui.

    «Già… Mi hai regalato una cosa unica, meravigliosa… Lo terrò sempre nel cuore», mi disse, provocandomi una fitta al petto. Aveva uno sguardo talmente sincero da togliere il fiato. Mi si avvicinò e mi baciò con passione.

    Cash

    Parcheggiai davanti a casa e spensi il motore. Balzai fuori, aprii il bagagliaio e presi il borsone. Una volta dentro, lasciai la sacca in lavanderia, andai in cucina a prendere una birra dal frigo, la stappai e bevvi un lungo sorso. Mi tolsi il cappellino da baseball, lo lanciai

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