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Regalami una stella
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E-book332 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Niente al mondo potrà dividerli

Allontanatisi dalla loro astronave e ormai fluttuanti nello spazio, Carys e Max si rendono conto che non riusciranno più a raggiungerla. Con sé non hanno niente che possa salvarli. Hanno solo novanta minuti d’aria a disposizione. Carys e Max non avrebbero mai dovuto innamorarsi. Le regole del mondo da cui provengono non lo permettono. Eppure, quando ha incontrato Carys, Max ha sovvertito quelle regole. Pur sapendo che sarebbe stato impossibile rimanere insieme per tanto tempo. Che amarsi realmente non sarebbe stato loro concesso. Ora, alla deriva e senza più niente che li trattenga se non il reciproco contatto, non possono fare altro che ricordare. E allora, mentre i minuti scorrono inesorabili, nei loro pensieri rivive ogni istante della loro indimenticabile storia d’amore… 

Il caso editoriale dell’anno 
Avvincente come Gravity, romantico come Un giorno

Una storia avvincente, unica e indimenticabile
Tradotto in 21 Paesi

«Un esordio davvero geniale.»
Sunday Express

«Tenero, profondo, inquietante.»
Press Association

«Il nuovo Un giorno.»
Stylist Magazine

«Preparatevi a piangere.»
Heat

«Favoloso, brillante, straziante… Una storia d’amore da ricordare.»
Debbie Howells

«Ti cattura fin dalla prima pagina. È una rara combinazione di azione eccitante, profondità emotiva e idee intelligenti. Una storia d’amore unica, come non ne ho mai lette in questi anni. Avrà un gran successo.» 
Rowan Coleman
Katie Khan
Vive a Londra, dove lavora nel settore marketing della Paramount. Ha frequentato il prestigioso corso di scrittura della Faber Academy e ama le storie d’amore a sfondo epico, sia nei romanzi che al cinema. Regalami una stella è il suo primo romanzo, tradotto in 21 Paesi.
LinguaItaliano
Data di uscita23 giu 2017
ISBN9788822712462
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    Anteprima del libro

    Regalami una stella - Katie Khan

    Prima parte

    Capitolo 1

    «È la fine». Riacquistano la visibilità: Carys respira a fatica, i suoi ansiti terrorizzati riempiono il casco. «Cazzo», dice. «Sto per morire». Cerca di avvicinarsi a Max, ma il movimento lo spinge via, fuori dalla sua portata.

    «No, non è vero».

    «Stiamo per morire». La sua voce è spezzata, ansimante, ma rimbomba forte tra le pareti di vetro del casco di Max. «Oh, Dio…».

    «Non dirlo», implora lui.

    «Ma è così. Oh, mio Dio…».

    Sono in caduta libera nello spazio, roteando si allontanano sempre più dalla navicella, due pennellate puntiniste su una tela infinitamente scura.

    «Ce la caveremo». Max si guarda intorno, ma non c’è nulla che possa soccorrerli: soltanto l’oscurità senza fondo dell’Universo alla loro sinistra, e la Terra sospesa in uno splendente Technicolor alla loro destra. Si protende per afferrare un piede di Carys. Riesce a sfiorarle uno stivale con la punta delle dita, prima di allontanarsi roteando furiosamente, incapace di fermarsi.

    «Come fai a essere così calmo?», chiede lei. «Oh, maledizione…».

    «Smettila, Carys. Su, cerca di riprenderti».

    Si ritrova i piedi di lei davanti al viso, poi, oscillando, risale verso le sue ginocchia. «Che cosa facciamo?».

    Max cerca di raccogliere le gambe al petto, tentando, nonostante il panico, di calcolare se può cambiare il proprio asse di rotazione. Il fulcro? L’asse? Non se lo ricorda. «Non lo so», dice. «Ma devi calmarti, così possiamo ragionarci su».

    «Oh, Dio». Lei agita le braccia e le gambe, tenta qualsiasi cosa pur di fermare l’allontanamento dalla navicella, ma è inutile. «Che cazzo facciamo?».

    Colpita più duramente dall’impatto, Carys si allontana roteando a un ritmo maggiore del suo. «Ci stiamo separando, Cari, e presto saremo troppo lontani per tornare insieme».

    «Ci troviamo su due diverse traiettorie», dice lei.

    «Sì». Max si ferma un istante a pensare. «Dobbiamo cercare di riavvicinarci», dice. «Subito».

    «Va bene».

    «Al tre, fai oscillare le braccia verso di me come se ti stessi immergendo in piscina». Le mostra il movimento. «Piega il busto più che puoi. Cercherò di darmi la spinta nella tua direzione, quindi afferrati a me. Tutto chiaro?».

    «Al tre».

    L’audio crepita.

    «Uno».

    «Due…».

    «Aspetta!». Carys alza una mano. «Possiamo usare l’impatto per cambiare la nostra traiettoria e tornare al Laerte?».

    Con i suoi fianchi neri e nessuna luce visibile nello scafo, il Laerte giace abbandonato sopra di loro, un vascello che passa nella notte. «Come?»

    «Se uno di noi colpisce l’altro abbastanza forte», dice, «non riceverebbe la spinta per tornare alla nave?».

    Max riflette. Forse. Forse? «No. Prima dobbiamo legarci, poi possiamo preoccuparci di tornare indietro. Prima che sia troppo tardi. Non voglio perderti là fuori. Sei pronta?»

    «Sì, sono pronta».

    «Adesso».

    Carys si spinge in avanti mentre Max si lancia all’indietro. Lei tende le braccia, mentre lui alza le gambe verso di lei. Per un secondo sono sospesi, come due virgolette che racchiudono un testo, prima che il movimento oscillatorio non li spinga in parallelo. Appena si trovano allo stesso livello, lei gli afferra le gambe, abbracciandogli i piedi. «Preso».

    Si capovolgono e si aiutano con le braccia per ruotare in senso orario, finché, dopo varie giravolte, si ritrovano faccia a faccia.

    «Ciao». Lei gli mette le braccia intorno al collo. Lui prende un cavo dalla tasca sulla coscia e avvolge delicatamente la corda fluttuante intorno ai loro corpi, legandola a sé.

    Max riprende fiato. «Ci serve un piano». Si gira a guardare il Laerte, nascosto all’ombra dello spazio mentre loro si allontanano sempre di più. «Dobbiamo chiedere aiuto».

    Carys, aggrappata alla schiena di Max, armeggia nella parte posteriore della sua tuta argentata. «A chi? Non abbiamo visto un’anima da…».

    «Lo so».

    «Abbiamo le torce», aggiunge, «corde, acqua. Perché non abbiamo portato del propellente? Che stupidi».

    «Dovevamo provare a…».

    «Avremmo dovuto occuparcene. Dovevi permettermi di tornare indietro a prendere il nitrogeno…».

    «Era un’emergenza. Cosa volevi che facessi? Che rimanessi a guardare mentre ti si restringeva la testa e morivi soffocata?».

    Lei si sposta in modo da trovarsi di fronte a lui, casco contro casco, e lo guarda con aria di rimprovero. «Non è così che funziona e lo sai. A detta dell’ASVE il restringimento del cranio è una leggenda del XXI secolo, diffusa dai film di serie B».

    «L’ASVE dice un sacco di cose. Ha anche detto che non avremmo corso pericoli, che nulla sarebbe andato storto». Max si dà un colpetto sul distintivo blu dell’Agenzia spaziale dei Voivodati europei, appuntato sulla tuta. «Ci hanno persino convinto a firmare una rinuncia alla valutazione del rischio, se ben ricordi».

    «Non posso credere che stia succedendo davvero». Carys si guarda intorno. «Facciamo un tentativo con Osric?»

    «Sì. Ma certo. Sì!». Lui la abbraccia con forza.

    Carys tira il suo flex sul dorso della mano e comincia a digitare. La striscia di tessuto a rete registra i riflessi muscolari e i movimenti delle dita su una tastiera invisibile.

    Osric, mi leggi?

    Attende.

    Ci sei, Osric?

    Eccomi, Carys.

    Il segnale audio annuncia le parole in blu che appaiono sul lato destro del suo casco di vetro.

    «Grazie a Dio. Max, ho ripristinato la comunicazione con Osric».

    Puoi chiamare per chiedere aiuto?

    Certamente, Carys. Chi vuoi che chiami?

    La base? L’ASVE? Chiunque sia in ascolto.

    «Chiedi se c’è qualche astronave nelle vicinanze», dice Max. «Per sicurezza».

    C’è qualcuno nelle vicinanze che possa prestarci soccorso, Osric?

    No, Carys. Mi dispiace.

    Sei sicuro?

    Sì, Carys. Mi dispiace.

    Puoi metterti in contatto con la Terra?

    No, Carys. Mi dispiace.

    Lancia un urlo di frustrazione che risuona distorto nell’elmetto e nel canale audio.

    Perché no?

    Il mio recettore è stato danneggiato nell’incidente. Credo che Max stesse cercando di ripararlo quando abbiamo perso ossigeno, Carys.

    Cazzo.

    Come dici, Carys?

    Scusa, Osric. Un errore di battitura.

    Nessun problema, Carys.

    Abbiamo un grosso problema, Osric. Puoi aiutarci?

    Come vuoi che ti aiuti, Carys?

    Sospira. «Max, sto girando a vuoto a parlare con questo coso».

    Lui le accarezza la manica della tuta. «Non posso connettere il mio flex adesso, Cari, quindi devi farlo tu. Cerca di scoprire tutto ciò che puoi. Qualche veicolo nelle vicinanze?».

    Lei scuote la testa e riprende a scrivere sul flex.

    Osric, puoi mandarci il Laerte?

    Negativo, Carys. I sistemi di navigazione non rispondono.

    Puoi far muovere la nave?

    Negativo. I sistemi di navigazione non rispondono.

    Almeno girarla?

    Negativo. I sistemi di navigazione non rispondono, incluso il sistema di guida che mi consentirebbe di far ruotare il Laerte.

    Se Carys potesse affondarsi le mani nei capelli, lo farebbe, ma sono imprigionate nei guanti, mentre la sua treccia fulva è racchiusa all’interno del casco sferico. La piccola margherita nascosta dietro l’orecchio è scivolata leggermente fuori posto.

    Puoi aiutarci a calcolare come tornare alla nave?

    Carys? Se permetti un suggerimento, c’è un problema più urgente…

    Calcola come tornare alla nave, Osric.

    Secondo l’Analisi Situazionale la vostra traiettoria non vi consente di tornare al Laerte senza i propulsori all’idrogeno, Carys. Hai portato i propulsori all’idrogeno, Carys?

    Potresti smetterla di mettere il mio nome alla fine di ogni frase, Osric?

    Certo.

    Grazie. No, non abbiamo il propellente. Ci sono altri modi?

    Per favore, attendi che l’Analisi Situazionale finisca di calcolare, Carys.

    Sbrigati.

    «Osric dice che non possiamo tornare alla nave senza i propulsori».

    Max fa una smorfia. «Ne è sicuro?».

    Carys, c’è un problema più urgente adesso…

    Aspetta.

    «Cos’altro possiamo provare? Osric dice che i sistemi di navigazione sono offline. Potrei chiedere se…».

    Carys?

    Cosa c’è, Osric?

    L’Analisi Situazionale dice che i vostri serbatoi ad aria compressa non sono pieni.

    Siamo fuori dal Laerte da un bel po’.

    La somma dell’aria rimanente e dell’ossigeno utilizzato non corrisponde al totale complessivo.

    Cosa vuoi dire? Parla europeo, Osric. Per favore.

    Il contenuto effettivo dei vostri serbatoi ad aria compressa è insufficiente.

    Puoi spiegarti meglio?

    Inoltre, l’Analisi Situazionale ha rilevato che c’è una perdita.

    «Che vuoi dire?». La sorpresa le fa dimenticare che Osric non può sentirla, così digita velocemente:

    Che vuoi dire?

    Entrambi avete i serbatoi ad aria compressa danneggiati, Carys.

    Quanta aria ci rimane?

    «Cari?», dice Max.

    Sto calcolando…

    Sbrigati, Osric.

    Temo che vi rimangano soltanto novanta minuti di ossigeno, Carys.

    Capitolo 2

    Novanta minuti

    «Cari. Che succede?». Max le afferra le spalle, ma non riesce a tranquillizzarla. «Che cosa ha detto Osric?».

    Scusa per aver detto Carys, Carys.

    «Novanta minuti», risponde lei, con respiri dolorosi e profondi. «L’aria ci basterà solo per novanta minuti».

    Lui resta di sasso. «Non può essere. No, non è possibile. Dovremmo avere almeno quattro o cinque ore. Noi…».

    «Stiamo per morire, Max. Molto presto». Trattiene le lacrime, mentre lui cerca le parole giuste.

    «Dobbiamo tornare subito alla nave», dice Max alla fine. «Innanzitutto, devi smetterla di agitarti. Consumi l’aria più in fretta».

    «Abbiamo una perdita».

    Lui sussulta. «Davvero? Adesso?»

    «Sì. Osric dice che c’è una perdita nelle bombole».

    «In entrambe?», chiede lui.

    «Sì».

    «Cazzo». Stavolta è Max a imprecare. «Ci conviene ripararla subito». La osserva, per capire fino a che punto è agitata. «Cercherò il buco mentre tu trattieni il respiro, va bene?»

    «No, tranquillo», risponde lei, sbattendo i denti. «Lo faccio io». Carys allenta la corda con cui sono legati ed entrambi si allontanano l’uno dall’altra con un movimento quasi coreografico. «Mettiti come se stessi facendo un angelo di neve», dice lei, prendendolo per il polso e la caviglia. Il tessuto a un solo strato della tuta forma una superficie pressurizzata e resistente contro il vuoto cosmico, una via di mezzo tra una muta e una cotta di maglia che si adatta perfettamente a ogni movimento ed è morbida al tatto. «Non lasciarmi la mano».

    Max allarga le mani e i piedi, sospeso all’altezza della vita di Carys. Lei si piega per avere una buona visuale della sua tuta, continuando a tenergli la mano. Non è per niente facile, dato che non sono fermi, ma stanno precipitando in moto perpetuo, nelle tenebre, in un posto senza Dio, lontanissimi dalla Terra.

    Carys esamina rapidamente con lo sguardo e con le mani lo zaino di metallo argentato. Ciascuna unità è divisa da scanalature lisce e sagomate, l’unico tocco di colore è il display blu su un lato. Carys studia con attenzione lo zaino, finché lo trova, proprio sul fondo: un sottilissimo sbuffo di molecole d’aria che fluttuano libere dalla forza di gravità, che di sicuro le sarebbe sfuggito, se non l’avesse cercato disperatamente. «Trovato». Prende il nastro dalla tasca sul ginocchio, un kit per le riparazioni sempre a portata di mano, e lo stende sul serbatoio, accertandosi che l’aria non esca dai lati.

    «Fatto?», chiede Max.

    Carys riprende a scrivere.

    Osric, ho sistemato la perdita?

    Il testo blu appare sul vetro del casco, accompagnato dal rassicurante segnale sonoro.

    Affermativo, Carys.

    «Fatto». Annuisce verso Max, lasciando andare il fiato.

    «Ora ci occupiamo del tuo».

    Lei esita. «Non doveva andare così. Non dovremmo nemmeno trovarci qui».

    «Su, Cari»

    «Ci restano solo novanta minuti d’aria». Alla fine le sfugge un gemito, un breve sfogo che soffoca la sua parlantina rassicurante, la sua aria tranquilla, perché è così che lui reagisce al pericolo. Si distacca dal confronto, dallo stress, dalla sua travolgente emotività. Presto farà una battuta.

    «Be’», dice, infatti, Max,«non so tu, ma io lascerò su MindShare una recensione molto negativa su questo viaggio spaziale».

    «Stai zitto, Max», dice lei, anche se lui, come previsto, è riuscito a calmarla. «Non è il momento per il tuo pessimo senso dell’umorismo».

    «Lo so».

    È tipico suo scherzare nei momenti peggiori: durante l’addestramento per astronauti, ai funerali, la prima volta che si sono incontrati.

    «Che cosa facciamo?»

    «Adesso ci calmiamo, ci riorganizziamo e poi ti salverò». Max sorride. «Come sempre».

    * * *

    Si erano incontrati tre mesi prima, nella Rotazione, mentre Carys, essendosi appena trasferita in un’altra città europea, stava studiando nel laboratorio linguistico regionale. «Il mio collaboratore si è trasferito qui dal Secondo Voivodato», aveva detto all’istruttore, «quindi ho bisogno di imparare il greco moderno, per favore». Arredato in stile retrò, come una caffetteria del passato, il laboratorio linguistico del Voivodato aveva un’illuminazione soffusa, divani in finta pelle e l’odore di migliaia di chicchi di caffè Arabica di bassa qualità bruciati sulla piastra. Un elegante poster dietro il bancone dichiarava: Imparare cinque lingue ti permetterà di parlare con il 78% della popolazione terrestre.

    L’istruttore emise un bip e si accese una luce verde, poi, alla postazione di lavoro di Cary, iniziò la proiezione delle guide e dei corsi.

    «Grazie». Carys abbassò il flex sul dorso della mano e iniziò l’ingrato compito di copiare e ricopiare l’alfabeto greco. A metà della terza copiatura, ricordò che era ora di cena. Su tre pareti scorrevano cascate di informazioni in tempo reale. I Wall Rivers trasmettevano costantemente notizie, meteo e aggiornamenti. Carys fece una breve ricerca su MindShare, il canale locale.

    Qualcuno sa dove posso comprare del grasso d’oca nel Sesto Voivodato?

    Le parole in perfetto spagnolo lampeggiarono per qualche secondo sulla parete, prima di perdersi nel fiume di commenti, domande e aneddoti multilingue che si svolgevano in tutto il Voivodato. Carys tornò all’alfabeto greco, ricopiando l’omega.

    Ping. Alzò lo sguardo. Qualcuno aveva risposto.

    A che ti serve il grasso d’oca, di questi tempi?

    Era scritto in francese.

    Sentendosi ribelle, rispose in catalano:

    A cucinare.

    Ping. In rumeno:

    Perché cucini, di questi tempi?

    Passò al portoghese:

    Patate arrosto.

    E lui, in tedesco:

    Ho detto: perché cucini?

    Non essendo tanto ferrata con il tedesco, Carys passò all’italiano, mentre un sorriso le sollevava gli angoli della bocca.

    Nuovi vicini. Vorrei offrirgli un piatto di croccanti patate arrosto. Qualche idea?

    La risposta fu ancora in italiano.

    Sui tuoi nuovi vicini? Nessuna, mi dispiace.

    In quella gara a chi sapeva più lingue, quella ripetizione di idioma fu una piccola vittoria per Carys, che stavolta sorrise apertamente.

    Magari tu sei uno dei miei vicini. Più tardi potrei offrirti patate arrosto talmente gommose che ti sembrerà di masticare palline rimbalzanti. Dunque, ti spiacerebbe aiutarmi a trovare del grasso d’oca?

    Ping.

    Non mi fido del cibo cucinato da estranei.

    Non sono estranei quelli che cucinano al tuo ristorante di Rotazione?

    Non proprio. Sono un cuoco, sono avvantaggiato.

    Carys fece una pausa.

    Lavori in un RR?

    Sì.

    Grandioso. Magari puoi darmi qualche consiglio di cucina. Per caso sai dove potrei trovare del grasso d’oca da queste parti?

    Nessuna risposta.

    Per favore.

    Aggiunse uno smile per ammorbidire il tono.

    Ping.

    Prova in un normale supermercato appena fuori da Passeig.

    Grazie.

    Vendono persino cibo in scatola, da non crederci, di questi tempi.

    Sei fissato con l’espressione di questi tempi, eh? È la terza volta.

    Chi non lo è? Sono cambiate così tante cose.

    È vero. Grazie per l’aiuto, andrò al supermercato più tardi.

    Finì di copiare per altre sei volte l’alfabeto greco e rimosse la rete dai polsi, pensando alle patate arrosto in sette lingue diverse.

    Carys uscì. Era una bellissima sera di settembre, una lieve brezza soffiava tra le rovine. Edifici di vetro e acciaio spuntavano dai mattoni e dalle fondamenta di palazzi crollati da tempo, fantasmi architettonici preservati e strutturalmente supportati da interni rinnovati da cima a fondo. Qui e là, si estendevano i resti di vicoli stretti e si levavano alti muri coperti di intonaco, rinforzati da travi d’acciaio. All’interno dei palazzi in rovina si susseguivano stanze dalle sottili pareti di vetro: come matrioske, gli antichi edifici cadenti contenevano una scintillante modernità.

    Il cielo si scuriva, prendendo una sfumatura arancione, e Carys attraversava le piazze invase da caffè, con le braccia nude incrociate sul petto, quando le si incantò il microchip, costringendola a fermarsi. In quel momento qualcuno le gridò: «Sorridi, tesoro, non stai andando a un funerale», e lei girò il polso irritata.

    «Se i meteoriti cominceranno a decimare l’umanità, so chi vorrei che sparisse per primo», borbottò, quando il chip finalmente si aggiornò sulla direzione da prendere.

    Giunta su un’ampia stradina di ciottoli fiancheggiata da alberi, Carys si trovò davanti a una fila di negozi, con le facciate vecchie e fatiscenti, sorrette da travi di acciaio. Una tenda di perline colorate contrassegnava un piccolo ingresso, con la vetrina sormontata da un’insegna illuminata che diceva Supermercati Fox. All’esterno, c’era un cartello con una pagina di giornale, il titolo in prima pagina diceva: Finalmente la pioggia radioattiva negli USA raggiunge livelli di sicurezza.

    Antiquati cestini di metallo e carrelli erano allineati a entrambi i lati della porta. Carys scostò la tenda di perline, che emise un crepitio ritmato, ed entrò nel supermercato.

    Nell’ottava corsia c’era un uomo inginocchiato per terra a impilare cibo in scatola. «Scusi se la disturbo», disse, «ma potrebbe indicarmi dove trovare il grasso d’oca, se ce l’ha?».

    Lui si voltò. I capelli scuri, leggermente mossi, gli ricaddero sugli occhi dallo sguardo divertito, come se lei non avesse capito una battuta. «Tu devi essere Carys». Finì di impilare le lattine su un piccolo scaffale e, alzandosi, gliene porse una. «Abbiamo parlato prima. Ciao».

    Lei tese la mano, sconcertata, e prese la lattina. «Tu… un attimo. Puoi ripetere?»

    «Su MindShare».

    «Ma non avevi detto… Non lavori come cuoco? In un RR?»

    «No. Sì. Più o meno». Lui ebbe la decenza di arrossire. «Insomma, ci lavorerò. Nell’ultima Rotazione ho completato il tirocinio, quindi spero che un ristorante mi assuma presto. Non appena avrò trovato qualcuno che mi aiuti con l’azienda di famiglia», indicò il negozio. «Io non potrò più occuparmene, spero».

    «Giusto», disse lei, rigirando tra le mani la lattina di grasso d’oca. «Spero che trovi qualcuno».

    «Grazie», rispose lui. «Che fai nella vita?».

    Lei esitò. «Sono un pilota».

    «Di alianti?»

    «Di shuttle».

    Lui parve colpito. «Fico».

    Carys fece un piccolo passo indietro. «Detesto andare di fretta, ma devo preparare la cena e sono in ritardo. Grazie per l’aiuto e… piacere di averti conosciuto».

    «Nessun problema. Io sono Max, comunque».

    «Carys». Lei tese goffamente la mano e lui la strinse. «Come hai trovato la mia richiesta?», gli chiese.

    «MindShare convoglia qui le domande che hanno gli alimenti come parole chiave. Le segnala ai ristoranti e ai negozi, perché rispondano».

    «Mi pare sensato». Carys annuì, si girò e fece per andarsene. «Grazie».

    «E poi, dalla tua foto profilo mi sembravi carina», disse lui. «Questo può aver contribuito».

    Carys si gettò uno sguardo alle spalle. «Proprietario di un negozio, cuoco e stalker online? Devi essere molto impegnato», disse, anche se il tono era scherzoso.

    «Tre lavori a tempo pieno», rispose lui. «Inoltre, hai risposto quando ho scritto in francese, la lingua della mia ultima Rotazione».

    Lei alzò un sopracciglio e si girò per guardarlo in faccia. «Sul serio? Credevo che stessi usando il chip traduttore». Gli indicò il polso.

    «No».

    «Nemmeno io», disse lei e sorrisero entrambi. «Anch’io ero di stanza nel V8. Due Rotazioni fa. A Sud, vicino al mare».

    «Io ho trascorso tre anni a Parigi. È lì che ho imparato a cucinare. Faccio un soufflé formidabile».

    Dopo un attimo, lei disse: «Senti, stasera ho alcuni dei miei nuovi vicini a cena. Solo un gruppetto, per aiutarmi a farmi degli amici. Niente di speciale, non è che ci conosciamo dai tempi di Adamo. Ti andrebbe di aggregarti?»

    «Volentieri. Chi è Adamo?».

    «È solo un modo di dire. Ma intuisco dal tuo sogghigno che lo sapevi già e che mi stai prendendo in giro. Dunque sei un bulletto, oltre che uno stalker. Allora a stasera. Alle otto? Ti mando l’indirizzo via flex. Porta qualcosa. Quello che vuoi». Ripeté la sequenza: annuì, si girò e si incamminò. «Bene. A dopo».

    La luce delle candele si rifletteva sui sei calici di vino e sui bicchieri d’acqua. La cena era in pieno svolgimento. Due delle pareti del salotto di Carys erano dedicate ai Wall Rivers: su uno degli enormi schermi incorporati scorrevano le notizie, sull’altro la chat di MindShare; come colore del testo, su entrambe le pareti, Carys aveva scelto una calda tonalità arancione. L’antica facciata dell’edificio gettava nella stanza le ombre della ringhiera di un balcone e dalle vecchie persiane filtrava il rumore del mare. I vassoi da portata offrivano un buffet di pollo, verdure, Yorkshire pudding e le tanto attese patate arrosto di Carys.

    «Yorkshire pudding col pollo?», disse Liljana, una delle sue nuove colleghe. «Non è un po’…».

    «Anticonvenzionale», disse John, un ingegnere edile che abitava nell’appartamento di fronte, prendendo un cucchiaino. «Da dove vengo io, mangi ciò che vuoi e te ne freghi delle convenzioni».

    «Da dove vieni, John?», chiese Carys, lanciandogli uno sguardo pieno di gratitudine.

    John si spostò a disagio. «Be’, come tutti noi, non lo so. Ma il mio primo ricordo è del Terzo Voivodato. Avevo cinque anni. Mia nonna mi aveva portato a prendere un cartoccio di pesce e patatine fritte, ma io volevo solo il pudding. Ero schizzinoso, non mangiavo un pasto completo da secoli. Il cuoco dell’RR mise le due cose insieme e mi portò una barretta di cioccolato fritto con le patatine». Tutti intorno al tavolo cominciarono a ridere. «Lo so. Ma ero piccolo e funzionò: riuscì a farmi spazzolare il piatto. La nonna mi premiò per aver mangiato tutto e io continuai a ripulire il piatto per il resto del mese».

    «Questo merita un brindisi». Liljana alzò il bicchiere e gli altri seguirono il suo esempio. «A chi ripulisce il piatto».

    John si piegò in un inchino mentre il resto del gruppo faceva tintinnare i bicchieri. «E tu, Liljana, da dove vieni?».

    «Si pronuncia Lil-i-ana», lo corresse lei. «So che sembra diverso scritto su MindShare».

    «Chiedo scusa, Liljana». Lo pronunciò correttamente stavolta. «È un bel nome».

    «I miei genitori erano in Rotazione sull’Adriatico quando mi concepirono, da qui il nome, anche se le mie origini sono africane. Prima di trasferirmi qui, vivevo nel Primo Voivodato».

    «Le tue origini?», disse Olivier in tono pensieroso. Carys l’aveva incontrato al laboratorio linguistico e l’aveva invitato per un eccesso di cortesia. «Noi europei di terza generazione non possiamo parlare più di tanto delle nostre origini».

    «Dal Primo Voivodato?», disse Carys a Liljana, ignorando l’intervento di Olivier. «Com’è vivere nel Voivodato centrale?»

    «Utopistico», rispose Liljana e tutti risero. «Tuttavia, ne andavamo fieri».

    «Mi sembra giusto», disse John. «Viviamo liberi, indipendenti, in comunità miste e in continuo cambiamento. Ci sono tante cose di cui essere orgogliosi».

    «Un attimo di attenzione», disse Liljana, prima di iniziare a recitare il giuramento dell’utopia. «In nome di chi agisci?»

    «Non in nome di dio, né del re,

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