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Se ti accorgessi di me
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Se ti accorgessi di me
E-book361 pagine5 ore

Se ti accorgessi di me

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Info su questo ebook

Scioccante come Tredici
Emozionante come Colpa delle stelle

L’unico modo per essere notata è nascondere chi sono davvero 

L’ansia sociale di Vicky Decker l’ha spinta a elaborare complicate strategie per passare inosservata e non essere mai al centro dell’attenzione. L’unica con cui riesce a essere se stessa è la sua amica Jenna. Quando Jenna si trasferisce, però, Vicky rimane completamente sola e per combattere quell’isolamento ormai insostenibile, decide di creare una falsa identità sui social, ritoccando le foto di altre persone come se fossero sue e postandole sul profilo Instagram @vicurious. Improvvisamente comincia ad avere dei follower e ben presto si ritrova a vivere una vita parallela, senza nemmeno aver lasciato la sua cameretta. Ma più cresce il numero dei follower e più le diventa chiaro che ci sono moltissime persone, là fuori, che si sentono esattamente come lei: #sole e #ignorate nella vita reale. Per aiutare loro, e se stessa, dovrà rendere la sua realtà virtuale molto più reale…

Scoprire di voler essere se stessi è la sfida più importante

«Questo libro è una crociata. L’autrice rovescia il meccanismo voyeuristico dei social network, lanciando una campagna con il suo messaggio di accettazione e gentilezza. La cosiddetta Generazione Z si potrà immedesimare perfettamente nella protagonista.» 
Kirkus Reviews

«La differenza tra Vicky e la sua identità online farà suonare più di un campanello nei lettori adolescenti. L’autrice approfondisce sia l’impulso a creare un alter ego digitale sia la solitudine di chi cerca conforto sulle piattaforme online.» 
Booklist
Sharon Huss Roat
È cresciuta in Pennsylvania e adesso vive in Delaware con il marito e i due figli. Quando non scrive, solitamente passa il tempo a leggere, fare giardinaggio, cucinare o dormire. Se ti accorgessi di me è il suo primo libro pubblicato dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita11 dic 2017
ISBN9788822717399
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    Anteprima del libro

    Se ti accorgessi di me - Sharon Huss Roat

    Capitolo 1

    In piedi accanto al mio armadietto, riesco già a sentire le chiazze di sudore che mi si stanno formando sulla maglietta. Non le vedrà nessuno, mi dico – non attraverso l’enorme maglione che indosso o sotto il mio quasi impenetrabile muro di capelli.

    Mi scosto dalle ascelle il maglione lavorato a maglia, di uno scialbo tono di giallo. Mia madre mi ha lanciato un’occhiata desolata, stamattina, e ha cercato di non dire quello che probabilmente stava pensando: e cioè che vestita come un enorme grumo di senape non vincerò nessuna gara di popolarità.

    Invece ci ha scherzato su. «Sei lì dentro?». Poi, mentre mi spalmava proprio la senape sul sandwich, si è quasi fermata, gli occhi che guizzavano dal barattolo al maglione.

    Davvero sottile…

    Sono perfettamente consapevole del fatto che questo non sia il colore più adatto a me, dal momento che non fa risaltare i miei occhi nocciola e non mi aiuta a spiccare in mezzo alla gente. In effetti, questa particolare tonalità giallino-marroncina si abbina alla perfezione sia ai miei capelli che alle pareti della nostra scuola. Ed è esattamente il motivo per cui la sto indossando: se la sfida in cui mi sto per lanciare andrà male, potrò confondermi con ciò che mi circonda e sparire prima che qualcuno se ne accorga.

    È stata la mia migliore amica, Jenna, a convincermi. La scorsa notte abbiamo parlato su FaceTime, ognuna dalla propria stanza – la mia dove si trova da sempre, la sua nel lontanissimo Stato del Wisconsin, dove abita ora. Sua madre ha trovato un ottimo lavoro lì, quindi la famiglia si è trasferita a metà agosto, qualche settimana prima dell’inizio del secondo anno.

    «Sono preoccupata per te», mi ha detto.

    Io non sono inquadrata, quindi l’unica cosa che riesce a vedere è la mia gatta, Kat, raggomitolata sul letto in una tigrata palla di pelo.

    «Sono passati due mesi». Jenna ha avvicinato ancora di più il volto allo schermo e mi ha sussurrato: «Hai parlato con qualcuno da due mesi a questa parte?»

    «Ho parlato con te».

    «Con una persona vera, dico».

    «Tu non lo sei?»

    «Lo sai cosa intendo». Ha inclinato il cellulare e lo ha posato su una cassettiera, regalandomi quindi una panoramica della sua nuova camera da letto, che ho odiato per principio. «Un vero essere umano, di persona! Che non siano i tuoi genitori. E gli insegnanti non contano».

    Cerco di ripensare all’ultima volta in cui ho parlato con qualcuno a scuola, a parte l’aver borbottato scusa, quando urtavo contro qualcuno, o l’aver detto salute quando la persona accanto a me starnutiva. Per quanto io possa ricordare, Jenna è stata l’unico essere umano con cui io abbia mai parlato. Quando si trattava di comunicare con qualcuno, è stata sempre lei a parlare per entrambe, anche se la domanda era rivolta a me. Io esitavo e lei si precipitava a rispondere. Noi siamo così. Io le ho sempre allacciato le scarpe: ero più brava a farlo, quindi lei non ha mai imparato davvero e adesso acquista solo scarpe con la fibbia, la chiusura lampo o mocassini.

    Io non parlo.

    «Tutto quello che devi fare è dire ciao», ha continuato Jenna. «È così che siamo diventate amiche, no? Tu hai detto ciao e il resto è storia».

    «Avevo cinque anni», le ho risposto. «Non sapevo dire di meglio».

    Lei è scoppiata a ridere. «Allora fai finta di avere ancora cinque anni: sei seduta a gambe incrociate sull’erba, masticando uno stecchino da ghiacciolo, quando una ragazzina con una frangia terribile esce da casa e attraversa la strada. Sembra che qualcuno le abbia tagliato i capelli con un machete. Di’ ciao a quella povera disgraziata».

    «Non è così facile, mi conosci», ho sospirato io.

    Il suo volto ha nuovamente riempito lo schermo. «Ti conosco perfettamente, ecco perché hai bisogno di farlo, altrimenti sarai sola e infelice per il resto delle superiori. Nascosta nella toilette, probabilmente».

    Mi conosceva.

    Quindi ho promesso che oggi, a scuola, saluterò qualcuno. E il qualcuno che ho scelto di salutare è Hallie Bryce. Il suo armadietto è accanto al mio, il che la rende a portata d’orecchio ogni qualvolta le mie corde vocali partoriscono un suono di qualche tipo. Non dovrò fare niente né avvicinarmi a nessuno.

    Mi schiarisco la gola per assicurarmi che faccia ancora il suo lavoro e proprio in quel momento vedo il perfetto chignon da ballerina di Hallie scivolare lungo il corridoio verso di me. Sento immediatamente il cuore martellarmi nelle orecchie.

    Raggiunto il suo armadietto, si inchina per inserire la combinazione. Be’, non è proprio un inchino quello che sta facendo: il termine adeguato è grand plié, cosa che ho appreso dal suo profilo Instagram, pieno zeppo di fotografie di danza classica. Nella maggior parte di queste immagini è ritratta sulle punte in luoghi in cui di solito non si troverebbe una ballerina: su un albero, sulla spiaggia, davanti a un panorama di degrado urbano… Io non la seguo. Insomma, non ho cliccato su segui: sono più il tipo di persona che si nasconde nell’ombra… Non in senso losco, direi più in modalità ammirazione da lontano o vorrei essere come lei.

    Insomma, eccola accanto a me che fa il suo inchino che sa di plié. Tutto quello che devo fare, per terminare la mia missione, è dire una minuscola parola. Non sto nemmeno pensando a un salve o a una cosa folle del tipo come stai?.

    Solo ciao.

    Hallie mi lancia un’occhiata inarcando una delle sue sopracciglia meravigliosamente arcuate. Sta aspettando, poiché io la sto guardando. Lo so che lo sto facendo, ma a quanto pare non riesco a smettere, o a muovermi e comportarmi come una persona normale. Ha le sopracciglia aggrottate che sembrano una V, la testa leggermente chinata di lato.

    «Hai detto qualcosa?». Lo sa che non ho detto niente, sta solo cercando di essere carina.

    Abbasso gli occhi sul pavimento. Mi scordo proprio di salutarla: è l’unica cosa che riesco a fare per non andare in iperventilazione.

    Hallie sospira, richiude l’armadietto e piroetta via lungo il corridoio. Okay, magari sta semplicemente camminando, ma lo fa in quel suo modo da ballerina, con le punte tese e i piedi all’infuori. La osservo allontanarsi e la sensazione di rigidità che provo in petto si attenua. Provo un attimo di sollievo mentre la mia paura scema, ma tutto questo lascia subito il posto a una sensazione che io amo definire di schifo.

    Una cosa semplice. Era tutto quello che dovevo fare.

    Sposto lo sguardo all’interno del mio armadietto, sulla foto di me e Jenna attaccata sulla parete posteriore: ci diamo la mano e io indosso quel suo vestitino rosa che era troppo stretto, ma che lei diceva starmi alla perfezione. Abbiamo un sorriso a trentadue denti.

    Tocco la foto. Mi aiuta, non so perché. Solo sette ore e sarò sull’autobus, diretta verso casa, a scriverle. Le confesserò il mio fallimento, ma resteremo amiche. È così che mi aveva detto quando si è trasferita, ovvero che non avremmo permesso alla distanza di mettersi fra di noi. Finiremo le superiori. Ci diplomeremo. Andremo al college insieme. Saremo compagne di stanza. Proprio come abbiamo sempre sognato.

    Chiudo il mio armadietto e mi dirigo verso l’aula della prima lezione, cercando di concentrarmi per non inciampare e non farmi urtare da uno zaino o non finire con una bacchetta da batterista infilzata in un occhio. Una minaccia realistica, quest’ultima, dal momento che Adrian Ahn mi cammina davanti roteando proprio delle bacchette.

    Adrian è la rock star ufficiale della Edgar H. Richardson High School, fa parte di una band chiamata East 48. Sono bravi. Insomma, quelli che li vedono dal vivo non fanno che agitare la testa urlando da sotto il palco. Io non li ho mai visti live, ma postano vari video su YouTube. Adrian è di origine coreana e ha i capelli lunghi tinti di un rosso scuro. Oggi se li è disordinatamente attorcigliati con una matita: chiunque altro sarebbe ridicolo, ma Adrian ha un aspetto fantastico.

    I miei occhi sono incollati sulla sua crocchia (e non sul suo didietro, anche se sono certa che varrebbe la pena dargli un’occhiata…). Mi sto chiedendo quello che succederebbe se gli togliessi la matita dai capelli, quando Adrian si volta all’improvviso lanciando una bacchetta in aria e piroettando su se stesso a 360 gradi. Mi fermo di botto per evitare di urtarlo, ma il ragazzo che cammina accanto a me non frena e finisce direttamente addosso a lui, allontanandolo dalla bacchetta che sta volteggiando nell’aria…

    Proprio davanti al mio viso. Alzo la mano per afferrarla.

    «Ehi!», esclama Adrian riprendendo equilibrio. «Bella presa!».

    Lancio un’occhiata alla bacchetta che tengo serrata nella mano tesa. oddio! Ho preso la bacchetta di Adrian! E lui sta parlando con me! È la mia occasione di parlare con qualcuno, qualcuno che mi ha rivolto la parola per primo!

    «Ciao!», gli dico. È l’unica parola che credo di poter pronunciare, probabilmente perché ho passato tutta la mattinata a ripeterla mentre racimolavo il coraggio di salutare Hallie, ma capisco immediatamente che è quella sbagliata.

    Quindi, ovviamente, la dico di nuovo.

    «Ciao!».

    Adrian ride. «Ciao a te».

    Siamo fermi in mezzo al corridoio, i ragazzi sgomitano mentre ci passano accanto.

    «Potrei… ehm… riaverla indietro?». Con il mento accenna alla bacchetta che ho in mano, bacchetta che tengo ancora sollevata in aria come fossi la Statua della Libertà. Gliela spingo subito contro il petto.

    «Io… ehm… certo. Ecco la tua bacchetta. L’ho presa. Autodifesa, certamente. Totalmente. Potresti cavare un occhio a qualcuno con questa roba, ma eccola qua. È tutta tua ora. Felice di essere d’aiuto». Oddio. Felice di essere d’aiuto? L’ho davvero detto ad alta voce? Il vomito di parole è un occasionale effetto collaterale del mio mutismo: è un po’ come se il mio cervello mettesse da parte tutti i pensieri ridicoli che mi siano mai venuti in mente per poi spararli dappertutto a mo’ di proiettile.

    E per peggiorare la situazione finisco con un allegro: «Va’ per il mondo¹ e prospera!».

    Adrian ride di nuovo. «Anche tu, Spock».

    Mi rifiuto di spiegargli che non stavo citando il vulcaniano, che in realtà diceva: «Lunga vita e prosperità», poiché per fortuna il mio cervello si è bloccato e veniamo travolti dal fiume di studenti.

    Ecco perché non puoi avere cose belle, Vicky. Come gli amici. O le conversazioni.

    Anziché proseguire verso l’aula di storia, me la squaglio nel più vicino bagno delle ragazze nel tentativo di reprimere un improvviso senso di nausea. Non ci riesco e vomito nel wc, mentre con una mano mi scosto i capelli dalla fronte e con l’altra mi sostengo al dispenser della carta igienica.

    Una delle ragazze che ho urtato mentre correvo si precipita fuori al suono di un «Bleah!». Tiro lo sciacquone e fisso il wc, ora pulito e pieno d’acqua.

    Un colpo sulla porta mi fa trasalire. Mi giro e dall’altra parte vedo un paio di Converse rosse, il simbolo dello yin e yang disegnato sulla punta di gomma. Amo questo simbolo: io e Jenna l’abbiamo scoperto l’estate prima della seconda media e l’abbiamo adottato come nostro codice segreto. Lo scarabocchiavamo dappertutto, ci firmavamo i bigliettini, abbiamo anche scaricato una emoji personalizzata per potercelo inviare a vicenda. Una volta ci siamo anche fatte un tatuaggio all’henné e ci siamo giurate di farcene fare uno vero, quando saremo grandi abbastanza.

    «Tutto a posto lì dentro?», chiede la persona che indossa le Converse con lo yin e lo yang.

    «Sto bene!», rispondo. A voce troppo alta. Ma perché sto gridando?

    «Sicura?», mi chiede la ragazza.

    «Sì», sussurro. Ora a voce troppo bassa. Sembro pazza. Non sono sempre stata così imbranata, o forse lo ero e non me ne sono accorta fino a quando Jenna non se ne è andata. È come camminare in equilibrio su una trave mentre qualcuno ti tiene per mano: vai alla grande fino a quando questo qualcuno non se ne va e tu non riesci a muoverti.

    La ragazza dalle Converse rosse indugia un attimo prima di girarsi e andarsene. Mi asciugo la bocca con la carta igienica e tiro di nuovo lo sciacquone. Ormai è troppo tardi per arrivare in tempo alla mia lezione, così prendo una salviettina igienizzante dallo zaino (ne ho sempre una scorta a portata di mano) e pulisco il sedile del water. Passerò qui il resto dell’ora. La campanella non è ancora suonata, ma lo farà da un momento all’altro, e il pensiero di dovermi precipitare in classe dopo il suono della campanella mi fa venire da vomitare un’altra volta.

    Arrivare in classe in ritardo è una delle primissime cose sulla lista delle banalità quotidiane che ora mi terrorizzano. La Lista del Terrore. Si tratta di un elenco che ho iniziato a tenere dall’inizio dell’anno e che aggiorno ogni qualvolta qualcosa mi agita o mi fa provare imbarazzo o il desiderio di sparire. È un elenco talmente lungo, ormai, che per me è diventata quasi una sfida ricordare tutto quello che include. Un po’ come ricordare i nomi di tutti e cinquanta gli Stati. La lista comprende:

    iniziare una conversazione

    arrivare tardi in classe

    il contatto visivo

    il posto a sedere assegnato

    dover scegliere il mio posto

    dire qualche stupidaggine

    l’appello in classe

    finire un compito per prima

    finire un compito per ultima

    i progetti di gruppo

    le presentazioni individuali

    la mensa

    mangiare davanti alla gente

    la palestra

    starnutire in pubblico

    Adesso alla lista posso aggiungere afferrare al volo bacchette per batteria. E anche non afferrare al volo bacchette per batteria. Umiliante in ogni caso.

    Dopo aver scorso la lista, prendo il libro di storia. Ho scoperto che è grande abbastanza da coprire la seduta del water e che mi fornisce una superficie meno disgustosa su cui sedermi. Sfrutto tutta la prima ora di lezione per studiare per il test di algebra che avremo nella prossima ora, il che significa che per fortuna non dovrò parlare con nessuno. Dovrò semplicemente abbassare la testa e svolgere il compito.

    È più o meno così che trascorrerò il resto della giornata. Testa bassa. In classe. Compito. Sto abbastanza attenta, ma non troppo, così da non farmi notare dagli insegnanti che hanno tempo solo per scansafatiche e secchioni: il mio angolino felice è quell’anonima via di mezzo.

    L’ultima campanella suona alle tre e cinquanta, vale a dire un’ora e mezza dopo rispetto all’anno scorso, poiché la nostra scuola ha adottato un nuovo orario che, in teoria, dovrebbe combaciare con il naturale ciclo del sonno dei teenager (in considerazione di alcuni studi e del fatto che durante la prima ora dormivamo tutti). Alle tre e cinquantasette sono sull’autobus. Mi muovo di soppiatto verso il mio solito posto (quello sopra la ruota dove non si vuole mai sedere nessun altro). Prendo il cellulare e scrivo a Jenna.

    Ci sei?

    Non crederai mai a quello che è successo oggi.

    Non mi risponde subito. Le sue lezioni terminano circa dieci minuti dopo le mie anche se viviamo a due fusi orari di differenza, perché iniziano alle prime luci dell’alba. Mentre aspetto che salga sul suo autobus e legga il mio messaggio, controllo il suo profilo Instagram, ma non c’è nient’altro che il selfie in cui manda un bacio che ha postato ieri sera.

    Oggi mi sono umiliata in maniera divina.

    Probabilmente avrai sentito le risate della gente fino al Wisconsin.

    Ancora non risponde. Scorro il suo profilo che è simile a un glossario di espressioni facciali: ieri faceva l’occhiolino, l’altro ieri aveva gli occhi spalancati in segno di sorpresa. Ha aperto il suo account quando è partita per il Wisconsin per restare in contatto con me, ma ora ha più di cento follower e riceve like da completi sconosciuti.

    Stringo gli occhi quando vedo gli intrusi e torno a scriverle.

    Ah. Dovrebbero vietarmi di uscire di casa.

    Sarebbe meglio per tutti.

    Magari potrei dire di essere affetta da una di quelle malattie che ti obbligano a vivere dentro una bolla trasparente, come faceva la ragazza di quel libro. Niente contatti con il mondo esterno. E niente ragazzi carini visibili dalla mia finestra (cosa che non mi accadrebbe lo stesso, siamo sinceri!).

    Sono pronta a continuare a blaterare del mio futuro in isolamento, quando finalmente vedo apparire i suoi tre puntini.

    È viva!

    omg! Cos’è successo?

    È umiliante.

    Dimmi!

    Mi prometti di non ridere?

    Non riderò.

    Riesco quasi a vederla mentre lo dice, mentre appoggia la sua spalla contro la mia, sul sedile dell’autobus, e si stringe a me per ascoltare. Scrivere messaggi non è la stessa cosa e non lo sarà mai, ma almeno lei c’è. Allento lo stress sciogliendo le spalle e le racconto la storia del mio tentativo fallito di salutare Hallie Bryce. In ogni straziante dettaglio.

    Ora Hallie penserà che sono un’idiota totale.

    Non è vero.

    Sì, sono abbastanza sicura che lo creda.

    Lei non è così, è davvero simpatica.

    Anche le persone simpatiche sanno riconoscere un idiota, quando ne incontrano uno. Ma questa non è nemmeno la parte peggiore…

    Inspiro profondamente e le scrivo della catastrofe di Adrian e delle bacchette. Il vomito di parole. La Statua della Libertà. Il va’ per il mondo e prospera. Quando ho finito, ecco che appaiono i tre puntini di Jenna. . Il suo messaggio ci sta mettendo un’eternità a profilarsi. Magari sta ridendo così tanto che non riesce a digitare. O magari sta cercando un modo carino per dirmi che lo sono, davvero, un’idiota. E alla fine:

    Okay, è stato davvero fantastico e divertente.

    Sei impazzita?

    No, dico davvero: probabilmente Adrian pensa che tu sia divertente, da sballo.

    Io non credo.

    Hai afferrato la sua bacchetta! È fantastico.

    Gli ho detto va’ per il mondo e prospera.

    Lo so! Geniale.

    Mi stai prendendo in giro?

    Sono seria. Sei troppo divertente!

    Mi assicura che è stata una cosa divertente in senso positivo, poiché intelligente e spiritosa – non divertente in modo oddio-stanno-ridendo-tutti. Ma io non ne sono sicura. A volte credo che Jenna non riesca a realizzare quanto sia dura per me non avere più qualcuno che parla al posto mio. Ma mi costringe a emergere dal profondo del mio sono un disastro e a raggiungere la zona, appena più solida, di un okay, magari la cosa non è così catastrofica come sembra.

    Ancora meglio, Jenna riesce a far allontanare la mia mente dai miei problemi trascinandomi nel suo mondo, di gran lunga più interessante del mio.

    I ragazzi seduti in fondo all’autobus continuano a guardarmi.

    Ragazzi o ragazze?

    Un ragazzo e due ragazze.

    Ti guardano come? Bene o male?

    Non lo so.

    Per qualche minuto monitoriamo la situazione. Il ragazzo è carino, dice lei, e probabilmente ci sta provando. Anche le ragazze sono carine. E anche loro, probabilmente, ci stanno provando. Le dico di scivolare più giù sul sedile, così da non farsi vedere, ma soprattutto perché così posso averla tutta per me.

    Continuo a scriverle il più a lungo possibile, fino a quando non scendo dall’autobus e non sono a casa, seduta al tavolo della cucina a bere il frullato di frutta che mi ha preparato mia madre. Alla fine, Jenna mi scrive che deve andare e io le rispondo con una emoji triste. Mi manda una faccina con un bacio e io le rispondo con dei pollici in su sopra una torta di compleanno a forma di unicorno. È una cosa sciocca, ma facciamo così da quando, a dodici anni, abbiamo avuto i nostri primi cellulari. Jenna termina come sempre: con il simbolo dello yin e yang. E nel mio mondo, in questo momento, è tutto a posto: è come se lei fosse accanto a me, sulla mia trave, a tenermi per mano per accertarsi che io non cada.

    ____________________________________________

    ¹ Si tratta di un pezzo dell’introduzione che M. Shelley scrive per Frankenstein. Viene chiarito bene a seguire (n.d.t.).

    Capitolo 2

    La mattina seguente mi sveglio con un enorme sorriso sul profilo Instagram di Jenna, che prendo come un incoraggiamento. Sotto, gli hashtag #diciao, #siifantastica #celapuoifare. Clicco la piccola icona a forma di cuore (il primo like!) e mi dirigo in cucina per fare colazione. Mia madre mi ha lasciato un piatto di croissant appena sfornati: è mercoledì, il giorno in cui esce presto per andare ad allenarsi. Mio padre non uscirà per andare in ufficio prima di un’altra ora, quindi mi raggiunge in cucina.

    Si versa una tazza di caffè, si siede accanto a me e mangiamo e beviamo in silenzio. Papà non mi obbliga mai a parlare, non si accorge nemmeno di quello che indosso: la felpa marrone con cappuccio che porto oggi, quella con la tasca davanti, non ispira paragoni con i marsupiali dello zoo – come è accaduto con mamma l’ultima volta che l’ho messa. Se papà crede che io assomigli a un canguro, non lo fa trasparire.

    Amo il mercoledì.

    La calma di mio padre mi accompagna sull’autobus e fino al mio armadietto. Mi sento abbastanza bene, essendo riuscita a evitare sia Hallie che Adrian, ma mi si gela il sangue quando arrivo alla lezione di storia: c’è un supplente, il che significa un nuovo appello. Aggiungiamolo alla Lista del Terrore. Anche se devo solo rispondere abbaiando una semplice parola, non riesco mai a decidere se debba essere eccomi! oppure presente!.

    Sto valutando per cosa optare quando vedo che il ragazzo seduto accanto a me si sta chinando verso il mio banco. Sono quasi certa che si tratti del ragazzo che ieri ha urtato Adrian causando l’incidente della bacchetta. Si chiama Lipton Gregory – ho sentito che spiegava che è un nome tipico della famiglia di sua madre e che non ha a che fare con l’azienda di tè, anche se alcuni ragazzi, a volte, lo chiamano ancora bustina di tè.

    Lipton si schiarisce la gola, io mi giro appena verso di lui, ma sempre evitando il contatto visivo.

    «Frankenstein», dice.

    «Scusa?». Gli lancio un’occhiata per poi abbassare lo sguardo sul pavimento.

    «La frase che hai detto ieri ad Adrian. Va’ per il mondo e prospera», dice tamburellando con la matita. «È una citazione tratta da Frankenstein, non da Star Trek».

    Arrossisco, completamente mortificata dal fatto che qualcuno abbia ascoltato i miei balbettamenti a sufficienza da essere in grado di ripetermeli – e che si sia ricordato di farlo dopo un giorno.

    «Bene», rispondo. «Frankenstein. Mary Shelley». Non riesco a parlare. Formando. Frasi. Complete. A quanto pare.

    «È tratta dall’introduzione, giusto?». Tocca lo schermo del suo cellulare e legge: «Auguro alla mia mostruosa progenie di andare per il mondo e prosperare. Parlava del suo libro».

    «Bene», dico di nuovo.

    «Non era il dottor Spock». Lipton mi sorride annuendo. «Ma Mary Shelley».

    Ed è in quel momento che realizzo che il supplente sta gridando il mio nome, che non devo averlo sentito la prima volta che mi ha chiamata a un volume ben più ragionevole. «Decker! Vicky Decker!».

    Non ricordo se avevo deciso di rispondere con eccomi! oppure presente!, quindi urlo la prima parola che mi passa per la testa. Che è… «Frankenstein!».

    In classe scoppiano tutti a ridere, mentre il mio volto assume tutte le tonalità del rosso possibili e immaginabili, e mi sbrigo a correggermi: «Eccomi! Presente!».

    Le risate continuano quando viene chiamato Jeremy Everling, il quale risponde «Dracula!». Poi è il turno di Brandon Fischer con il suo «Licantropo!», di Ellie Good e la sua «Mummia!» e così via… Mentre Lipton Gregory risponde educatamente «Presente».

    Manco a dirlo, l’essere derisa non è nella mia lista. Ma è proprio il pensiero di essere derisi che rende tutto il resto tanto terrificante. Mi copro il volto con i capelli e mi accascio dietro al mio quaderno.

    Il supplente invita tutti al silenzio, ma non può zittire il ruggito che ho nelle orecchie: il ruggito che si è fatto più forte e più frequente da quando Jenna è partita, due mesi fa, e che sembra un esercito di aspirapolveri zombie che non vuole morire. Apro il mio libro e faccio finta di leggere il compito che il signor Braxley ci ha dato, ma non riesco a concentrarmi. Davanti a me appare un piccolo quadrato di carta, ripiegato. Non alzo nemmeno lo sguardo per cercare di capire da dove arrivi. È uno scherzo, senza ombra di dubbio: si tratta di un’immagine di Frankenstein con i bulloni nel collo e tutto il resto. Dovrei gettare il bigliettino a terra o farlo scivolare dietro al libro.

    Non so da quanto lo sto fissando, quando sento Lipton schiarirsi la gola: alzo gli occhi e il suo sguardo saetta dal foglietto e a me.

    Oh.

    Lo apro. Ci sono scarabocchiate due parole.

    Mi dispiace.

    Tengo il foglio in mano per il resto della lezione, cercando di liberare la mia mente da ogni parola strana che potrei vomitare inavvertitamente qualora mi venisse posta un’altra domanda. Tutto quello che riesco a pensare è che, se Jenna fosse stata qui, sarebbe stata lei a rispondere per me: avrebbe sentito il supplente chiamare il mio nome e avrebbe detto: «È qui!». E Frankenstein non avrebbe mai fatto la sua comparsa.

    Quando Lipton mi ha passato quel bigliettino, per scusarsi, avrei dovuto rispondere tutto a posto o perlomeno avrei dovuto fargli un sorriso, ma questo mi viene in mente solo dopo – quando me ne sto seduta sul mio libro che funge da copriwater, intenta a mangiare un panino. Fa schifo, lo so, ma io e la mensa attualmente non andiamo d’accordo e non ho nessun altro posto dove andare.

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