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L'errore più bello della mia vita
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L'errore più bello della mia vita
E-book281 pagine4 ore

L'errore più bello della mia vita

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Info su questo ebook

Until Series

Dall'autrice di Un meraviglioso imprevisto
Vale la pena combattere per ciò che si desidera

Sophie sta facendo ordine nella sua vita quando il destino le fa incontrare Nico, che mette tutto sottosopra. La costringe a imparare che non si può vivere da spettatori, ma che a volte bisogna sporgersi un po’ per godersi davvero il panorama. Dal primo momento, infatti, Nico ha capito che Sophie era quella giusta. Per tutta la vita è stato giudicato per il suo aspetto, e trovare una bella donna che vede dentro di lui rende i suoi sentimenti molto più forti. Nico conosce se stesso, e ciò di cui è capace: farà tutto quello che può per aiutare Sophie a combattere i suoi demoni e poter essere felice con lei.

«Questo libro ha tutto: commedia, dramma e caldo romanticismo.»

«Un altro grande libro della talentuosa Aurora Reynolds che ci regala una storia dolce, commovente e sexy, densa di sentimenti.»
Aurora Rose Reynolds
è autrice bestseller di «New York Times», «Wall Street Journal» e «USA Today». Ha iniziato a scrivere perché i maschi alfa che vivevano nella sua testa la lasciassero un po’ in pace. La Newton Compton ha pubblicato anche in un unico volume la serie Until Trilogy.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mar 2017
ISBN9788822705136
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    L'errore più bello della mia vita - Aurora Rose Reynolds

    Capitolo 1

    Sophie

    Quando suona il telefono che sta sulla scrivania io faccio un salto; non squilla mai, per questo vengo presa alla sprovvista dal trillo acuto che rimbomba nel silenzio della sala. «Biblioteca della scuola media, parla miss Grates. Come posso aiutarla?­», dico rispondendo al secondo squillo.

    «Ho trovato un cellulare, e questo è il numero che compare sullo schermo quando lo accendo», risponde una profonda voce maschile. La sua parlata lenta e morbida, tipica del Sud, mi fa venire la pelle d’oca. Tiro fuori la borsetta da sotto la scrivania e rovisto dentro in cerca del mio cellulare. «Pronto, mi senti?», dice spazientito il tipo all’altro capo della linea. Impegnata nella mia ricerca mi ero dimenticata di lui.

    «Sì, ci sono, mi scusi. È il mio cellulare», rispondo reggendo la cornetta tra spalla e orecchio.

    «Senti, devo andare fuori città e non sarò di ritorno che fra una settimana, perciò potremmo incontrarci da qualche parte?»

    «Uhm, non sono sicura che sia una buona idea», replico serrando le labbra preoccupata.

    «Lo rivuoi il telefono o no?»

    «Certo che lo voglio», dico, cominciando a sentirmi infastidita. Che stupida domanda è quella?

    «Allora bisogna che ci incontriamo, così posso ridartelo».

    «Finisco di lavorare solo tra un’ora. Possiamo vederci dopo?». Incrocio le dita sperando di sì. Non so cosa farei senza il mio telefono per una settimana – non che debba chiamare o messaggiarmi con qualcuno, ma sto spaccando a Candy Crush e volevo superare il mio record.

    «Gesù, ma dove cazzo vuoi che ci incontriamo?», borbotta, e questo mi fa sorridere. Non so perché, ma un po’ sono contenta di irritarlo.

    «Ci possiamo vedere davanti all’entrata del Jack’s Bar-B-Que tra un’ora e mezza?»

    «Ma certo, come no». Capisco dal suo tono di voce che è seccato da morire, e il mio sorriso si accentua.

    «Grazie tante», mormoro.

    «Cosa indossi?», domanda, cancellando il sorriso dalla mia faccia.

    «E questo cosa cavolo c’entra?»

    «Senti», sbuffa lui, «io ho il tuo telefono, il che vuol dire che tu non ne hai uno, giusto?»

    «Giusto», ripeto come un’idiota.

    «Questo significa che non posso chiamarti per dirti quando arrivo. Perciò ho bisogno di sapere come sei vestita in modo da riconoscerti per strada, giusto?». Adesso riesco a sentire il sorriso nella sua voce.

    «Immagino che abbia senso», rispondo. Lui ridacchia e la profondità di quella risata mi smuove qualcosa nello stomaco.

    «Allora, riproviamo. Cosa indossi?»

    «Oh». Mi guardo, sentendomi stupida per quanto sto per dirgli. «Uhm, una gonna grigia, una camicia di seta bianca… oh, e ho i capelli castani», aggiungo alla fine, non sapendo quante donne potrebbero indossare le mie stesse cose.

    «Benissimo, dolcezza. Ci vediamo tra un’ora e mezza», dice, e prima che abbia la possibilità di aggiungere qualcos’altro la linea diventa muta.

    Riaggancio e butto la borsa sotto la scrivania, poi inizio a rimettere sugli scaffali tutti i libri che mi sono stati riconsegnati nel corso della giornata.

    Ho iniziato a lavorare in biblioteca un anno fa, quando mi sono trasferita a Nashville da Seattle. Sono occupato qui tre giorni a settimana, e il resto del tempo lavoro da casa come consulente di assicurazioni sanitarie. Mi piace lavorare qui; è tranquillo e lo stipendio è buono – e non mi crea problemi passare da sola la maggior parte della giornata.

    Termino il mio turno aggiornando il computer e assicurandomi che non sia rimasto nessuno tra gli scaffali, poi chiudo tutto. Quando lascio l’edificio mi accorgo che la maggior parte del personale è già andata via. Il parcheggio è vuoto, eccetto la mia Audi rossa. Entro in macchina, metto in moto e premo il pulsante che apre la capote, che in un secondo si ripiega come fosse una fisarmonica, rientrando nel suo alloggiamento. Mentre mi dirigo in centro parte la musica di Addicted to Love dei Florence And The Machine.

    Quando arrivo dove dovrei incontrare il tizio che ha il mio telefono, mi ci vuole un po’ di tempo per trovare parcheggio. Questa parte della città è sempre un delirio a quest’ora. Arrivo da Jake circa dieci minuti più tardi del previsto. Guardo in giro, chiedendomi che aspetto abbia il tipo. C’è un sacco di gente che passeggia, perciò mi sento un’idiota per non avergli chiesto anche io come sarebbe stato vestito. Scelgo un punto accanto all’edificio e incrocio le braccia. Quanto vorrei sedermi: i piedi mi stanno uccidendo. Ho una passione malata per le scarpe con i tacchi alti, e quelle che indosso oggi mi stanno facendo scontare il fatto di averle portate per ore.

    Mi guardo attorno e vedo un ragazzo che mi fissa. Ha più o meno la mia età, non è molto più alto del mio metro e sessantotto, è carino e indossa giacca e cravatta. Sto per fargli un cenno con la mano per capire se è lui che devo incontrare, ma un altro ragazzo attira la mia attenzione. È alto qualcosa come un metro e novanta ed è enorme, e non è solo per l’altezza, ha un corpo che pare scolpito nella roccia. Porta stivali neri, jeans washed-out e una maglietta bianca, e ogni parte di pelle scoperta è piena di tatuaggi. Alle orecchie ha quei cosi che dilatano i lobi. Ha i capelli biondo scuro sfumati corti ai lati e con la cresta in cima. Ha la mascella pronunciata, coperta dalla barba di qualche giorno, e due occhi così azzurri che sembra che porti le lenti. È di una bellezza insolita, ma non per questo meno affascinante.

    I suoi occhi mi incontrano e subito guardano altrove, poi un secondo dopo tornano a fissarmi da capo a piedi. L’intensa espressione che ha il suo viso mi fa deglutire a vuoto. Sposto lo sguardo da lui all’altro ragazzo – o almeno ci provo – ma Mister Tatuaggio si incammina verso di me e mi blocca la visuale. Vorrei fare un passo indietro, ma non posso andare da nessuna parte. Poi vedo il mio telefono nella sua mano.

    «È tuo questo?», domanda.

    Annuisco come un’idiota. Lui scuote la testa, si passa la mano libera sul viso e poi mi rivolge un’altra di quelle occhiate da capo a piedi.

    «Cazzo, stai scherzando!», dice. Sembra fuori di sé.

    Io mi guardo chiedendomi cosa possa averlo offeso. Ho un aspetto nella norma – almeno la norma di quando lavoro fuori casa. Quando lo faccio da casa mi metto vecchi pantaloni della tuta tagliati a short oppure pantaloni del pigiama cadenti, abbinati a canottiere o t-shirt. I pochi giorni della settimana che esco mi piace vestirmi bene, o come minimo mettere i tacchi.

    «Non può essere vero, cazzo», grugnisce, al che mi chiedo se sia del tutto pazzo.

    «Cosa?», domando quando finalmente ritrovo la voce. Devo inclinare la testa per guardarlo; nonostante il mio tacco dodici lui mi sovrasta comunque.

    «Tu».

    «Io cosa?», domando confusa.

    «Non fa niente. Chi è questo qui?». Preme il pulsante sul mio telefono, lo schermo si illumina e compare una foto di Jamie Dornan con addosso solo un paio di jeans.

    «Uhm… quello è Jamie», rispondo, chiedendomi perché lo voglia sapere, ma troppo timorosa di domandarlo; l’espressione che ha non invoglia particolarmente a fare conversazione.

    «È l’uomo tuo?»

    «Mi piacerebbe», borbotto a bassa voce e lo sento grugnire.

    La mia mente torna al momento presente e mi metto a scrutare il suo viso; la sua mandibola freme, inoltre le nocche della mano che stringe il mio cellulare stanno diventando bianche.

    «Che vuol dire?», mi domanda.

    «Quello è Jamie Dornan in Cinquanta sfumature di grigio. Non lo conosco di persona». Mi sento avvampare le guance e abbasso lo sguardo.

    Che diavolo mi sta succedendo? Perché adesso non ho paura? Per tutta la vita ho avuto paura praticamente di ogni cosa e ora, quando dovrei scappare a gambe levate, non sono per niente spaventata. Solo un po’ in imbarazzo.

    «Non ho tempo per questo», dice, e io non ho idea di cosa intenda, ma improvvisamente ho bisogno che il telefono sia lontano dalle sue mani, prima che lo faccia in mille pezzi.

    Quando rialzo lo sguardo mi accorgo che si sta allontanando. Aggrotto la fronte chiedendomi cosa stia facendo. Poi mi rendo conto che ha ancora il telefono.

    «Ehi, non puoi rubarmi il cellulare!». Gli corro appresso e lo afferro per un braccio.

    Lui mi guarda e si ferma di botto. Vengo presa completamente alla sprovvista quando mi cinge la vita con un braccio e mi tira a sé. La sua mano libera finisce tra i miei capelli e mi fa chinare la testa indietro, poi mi bacia. No, non mi bacia, mi divora. Il mio corpo comincia a vibrare come se avessi infilato le dita nella presa della corrente, e inizio a sentirmi la testa leggera. Quando stacca la bocca dalla mia annaspo e mi porto le dita alle labbra.

    «Cos’era quello?», sussurro guardandolo negli occhi.

    «Come ti chiami?», mi domanda, sempre tenendomi stretta.

    «Sophie», gli rispondo con le dita sulla bocca.

    Contro il mio, il suo corpo sembra duro come la roccia; riesco a sentire ogni muscolo, ogni forma, e mi ci vuole un grosso sforzo per continuare a respirare. Mi accorgo che è la prima volta in vita mia che mi sento piccola, la mia figura rotondetta me lo aveva sempre impedito.

    «Sophie», ripete ritto in tutta la sua altezza e sempre tenendomi stretta a sé. Mi guardo intorno, cercando di capire se anche per il resto della gente il tempo si sia fermato. «Mi chiamo Nico».

    «Ovviamente», dico io, fissando quegli occhi stupendi, e mi dico che un ragazzo con un aspetto come il suo deve avere un nome del genere – fico e sexy, qualcosa che scivoli facilmente fuori dalla bocca, ma che sia difficile da dimenticare.

    «Ti rivedrò quando torno in città, Sophie», dice lasciandomi andare, accertandosi che mi regga in piedi.

    «Cosa?», replico guardandomi di nuovo intorno.

    «Ecco il tuo telefono». Me lo porge, e ho ancora un po’ la testa leggera quando lui riprende ad allontanarsi. Lo guardo andare via come ipnotizzata, ma a un tratto si gira a guardarmi di nuovo, a pochi metri di distanza. «Sophie?»

    «Sì?»

    «Cambia la foto sul cellulare», mi ordina prima di voltarsi e scomparire tra la folla.

    Resto lì per qualche secondo, chiedendomi cosa sia successo. Finalmente mi riprendo abbastanza da ritornare fino alla macchina. Una volta là mi accorgo che non avevo richiuso la capote e non avevo preso la borsa, per quanto andavo di fretta. Subito cerco con lo sguardo sul sedile posteriore e vedo che la borsa c’è ancora. Tiro un sospiro di sollievo, metto in moto e mi dirigo verso casa.

    Vivo in una casa piccola con due stanze da letto, appena fuori Nashville. L’ho pagata in contanti coi soldi presi dall’assicurazione sulla vita di mia madre, dopo la sua morte. Non è molto, ma è casa mia. Entro nel garage e scendo dalla macchina, trascinandomi appresso la borsa. Mi serve una birra… o uno shottino di qualcosa. Apro la porta d’ingresso ed entro in casa, scalcio via le scarpe, che volano per il corridoio fino alla mia stanza.

    Dopo aver lasciato la borsa accanto alla porta e il famigerato telefono sul tavolo, vado in cucina, apro il freezer e tiro fuori la bottiglia di vodka che tengo lì in caso di emergenze. Non ho tempo di cercare un bicchiere da superalcolici, prendo una tazzina da caffè dalla credenza, la riempio fino a metà e butto giù. Per poco non mi salta un polmone a forza di tossire, e mentre cerco di riprendere fiato riempio di nuovo la tazzina, poi con la mano tremante la scolo un’altra volta. Ora sono preparata, trattengo il respiro mentre il bruciore mi riempie il petto. Metto via la bottiglia, sentendomi già più rilassata.

    Vado in camera, mi tolgo i vestiti e metto una t-shirt. È ancora presto, così me ne vado in soggiorno, prendendo il telefono lungo il tragitto. Sprofondo nel divano, metto i piedi sul tavolino da caffè, accendo la tele e il videoregistratore digitale e faccio partire una puntata di The Big Bang Theory. Per qualche minuto resto seduta come in trance, senza prestare la minima attenzione alla mia serie preferita. Guardo il cellulare nella mia mano, clicco sullo schermo e osservo comparire la foto di Jamie. Non so perché ma non riesco a fare a meno di sorridere pensando alla reazione che ha avuto Nico di fronte alla foto. Lo sconosciuto tatuato è fico, leggermente inquietante, ma senz’altro interessante.

    Nico

    Sono contento di essere a casa. Sono stato fuori per quattro giorni cercando di rintracciare un fuggitivo, e pensavo ci avrei messo un po’ di più a beccarlo, ma fortunatamente per me era un mezzo coglione. Sto spegnendo il motore della macchina di fronte alla mia casetta a schiera quando squilla il telefono. Trepidante, guardo il nome di chi chiama; so che non sarà la dolce Sophie, ma questo non mi impedisce di desiderarlo. Sul display lampeggia il numero di Kenton. Di sicuro ha un altro caso da affidarmi, ma ora come ora non se ne parla. Mi aspetta una birra e poi a letto, e domani mi recherò alla scuola media.

    «Sì», rispondo prendendo la borsa dal sedile posteriore.

    «Non ci hai messo molto a trovare Johnson».

    «Perché è un idiota», gli dico. «Si era nascosto in casa della madre. Uno penserebbe che ha imparato la lezione dopo che per due volte gli ho messo il sale sulla coda. Il più del tempo l’ho passato in macchina ad arrivare fin lì e poi tornare indietro. Quand’è che ti fai un jet privato, così non devo più macinare chilometri in macchina?»

    «Piantala di lagnarti. Hai guadagnato millecinquecento dollari in due giorni».

    Non ha torto. Tra la vendita della mia quota dell’impresa edile ai miei fratelli e il lavoro di segugio, mi ritrovo con un bel mucchio di soldi.

    «Allora, perché mi hai chiamato?»

    «Be’? Non posso telefonare a mio cugino per sapere come sta?»

    «Ti sembro uno stupido?»

    «Okay, okay… il fatto è che mi serve il tuo aiuto per una cosa».

    «Cosa?». Scuoto la testa mentre arrivo alla porta di casa.

    «Ha chiamato un mio amico da Las Vegas. Ha una ragazza a cui serve un posto dove stare per un po’».

    «E questo cosa c’entra con me?»

    «Può stare da te finché Cassie non ha portato via il resto della sua roba da casa mia?»

    «Col cavolo!», urlo infilando la chiave nella serratura.

    Non appena apro la porta Daisy comincia a dare di matto. La prendo su con una mano e lei inizia a leccarmi il mento e qualsiasi altra parte di me sia alla sua portata.

    «Hai ancora quel cane?». Ride, sentendo Daisy al telefono.

    «Sì», grugnisco. Tutti i cretini che conosco pensano che sia buffo che io abbia come cane una palletta di pelo. Ho trovato Daisy in un albergaccio e l’ho portata via. A quel tempo era così piccola che mi stava nel palmo di una mano. Volevo darla a qualcuno della mia famiglia, ma non ce l’ho fatta. Dopo una settimana passata con lei mi ci sono affezionato.

    «Senti, amico mio, mi serve il tuo aiuto, solo questa volta».

    «No, avresti dovuto buttare fuori casa la roba di quella stronza mesi fa», gli ricordo. Odio la sua ex; è una di quelle donne che ti tengono per l’uccello.

    «Se dici così sembra che io non ci abbia provato. Mi ha giurato che sarebbe passata questo fine settimana per prendere le sue cose, ma fino ad allora non ho spazio per ospitare questa ragazza».

    «Chi sarebbe?», domando incuriosito.

    «Hai presente il mio amico Link che fa il buttafuori a Las Vegas?»

    «Certo. Lavora in uno strip club, giusto?»

    «Esatto. Insomma, mi sa che questa stripper dev’essersela vista brutta. Il mio amico mi ha chiamato e mi ha chiesto di ospitarla finché per lei non è sicuro tornare a casa».

    «Wow, hai la tua stripper personale che ti vive in casa».

    «Prima potresti averla in casa tu».

    «Mi vedo con qualcuno, perciò dovrai trovare un’altra soluzione per questa ragazza, o buttare la roba della tua ex fuori casa. O anche bruciarla nel tuo cortile, per quel che m’importa».

    «Ti vedi con qualcuno?». Sento l’incredulità nella sua voce. Non mi sorprende. Sono uno che rimorchia e poi a cose fatte torna a casa da solo.

    «Sto rientrando in casa. Non ho tempo adesso per questo. Chiama la tua ex e dille che deve venire a prendersi le sue cose o gliele brucerai. E sinceramente, se non si fa vedere, io dico che è il caso di fare un falò con quella roba».

    «Guarda, lo sappiamo entrambi che non verrà a prendersi la sua merda. Pensa che se resta a casa mia avrà un motivo per tornare».

    «E allora caricatela in macchina, portala a casa sua e lasciagliela in giardino».

    «Lo avrei anche fatto, ma mi serve un camion e non ho avuto il tempo».

    «Se n’è andata quasi un anno fa. Come cavolo fai a dire che non hai avuto tempo?»

    «E va bene, il tempo l’ho avuto. È solo che non mi andava di piangere, cosa che mi sarebbe capitato rivedendola».

    «Oh, piangi quando la vedi?»

    «Lacrime di felicità perché se n’è andata dalla mia vita, coglione».

    Rido insieme a lui mentre poggio Daisy sul pavimento e prendo una birra dal frigo, la stappo e ne bevo una sorsata. «Se non viene questo weekend a riprendersi le sue cose fammelo sapere e verrò con te a riportargliele. Sono sicuro che possiamo prendere in prestito il camion di Cash».

    «Mi sembra una buona idea. Allora, chi è questa tipa che stai vedendo? È la rossa di cui parlavi al bar l’altra sera?»

    «No, non la conosci». Merda, non la conosco neanche io.

    Di lei so solo che profuma di mela e cannella e ha i capelli castani più soffici che abbia mai visto o toccato, occhi marroni che quando viene baciata si scuriscono fino a diventare quasi neri, e pelle color del latte che diventa rosa quando è nervosa o imbarazzata.

    «Mi hai sentito?»

    «Cosa?», grugnisco, seccato per l’interruzione del sogno a occhi aperti sulla bella Sophie.

    «Ti ho chiesto se ci stai per un altro lavoro, questo fine settimana».

    «Ora come ora non ti so dire».

    «Va bene. Però fammelo sapere».

    «Sicuro. Ci vediamo, cugino».

    «A presto».

    Spengo il telefono e lo butto sul tavolo. Guardo Daisy, che se ne sta seduta ai miei piedi e mi osserva. Apro il suo barattolo dei biscotti, e i suoi occhi seguono ogni mio movimento. Tengo il biscotto qualche centimetro sopra la sua testa mentre, ritta sulle zampe di dietro, lei danza in tondo, e alla fine glielo do. Me ne vado in camera da letto, mi tolgo la camicia e la lascio cadere per terra, seguita da jeans e boxer.

    Mi sposto in bagno e apro la doccia, lascio appannare il vetro della cabina prima di entrarci dentro. L’acqua calda mi scroscia addosso. Piego la testa indietro pensando a Sophie e a i suoi grandi occhi castani che mi guardano nervosi e affamati ma senza il minimo indizio di una vera paura – qualcosa che non ho mai visto prima nell’espressione di una donna, ma che rimarrà per sempre scolpita nella mia memoria. Ho capito che era lei dal primo istante che l’ho vista. Come ho fatto? Non lo so, ma è stato come se la mia anima avvampasse – una roba melensa da morire, eppure è andata così. Adesso non ho proprio tempo per lei, e non sembra il tipo di donna che potrebbe essere interessata a qualcuno come me, ma questo non vuol dire che non ci posso provare.

    C’è qualcosa di innocente in lei; immagino che possa essere solo una facciata, ma qualcosa mi dice che non è così. Sento che mi diventa duro se penso a quei cazzo di tacchi che aveva; dovrebbero essere illegali. Era la segretaria perversa delle fantasie erotiche di ogni uomo, o forse dovrei dire la bibliotecaria. Mi accarezzo con movimenti lunghi e lenti. Non mi dispiacerebbe vedermela in ginocchio davanti, la gonna sollevata sui fianchi, le gambe aperte a mostrare la fica, il top sbottonato e le tette che strabordano dal reggiseno, i capezzoli duri e scuri a forza di essere succhiati, leccati e morsi. Mi metterei in piedi di fronte a lei e le darei da mangiare il mio cazzo. La prenderei per i capelli imponendo il ritmo che voglio. Sento le palle fremere, i movimenti della mano si fanno più veloci. Con una mano lei le stringerebbe delicatamente mentre con l’altra terrebbe stretta la base del cazzo mentre mi scopo la sua bocca.

    «Merda», ansimo, e la voce riecheggia nella doccia mentre lunghi schizzi di sperma finiscono sulla parete di fronte a me. È da quando avevo tredici anni che non mi faccio una sega pensando a una donna che conosco, quando Margret Jenkins mi fece vedere le tette per penitenza nel bagno dei maschi. Riprendo a respirare, mi sciacquo e me ne vado a letto. Domani sarà una giornata impegnativa.

    Quando arrivo alla scuola media non mi sorprende che la guardia giurata mi chieda chi sono e cosa ci faccio lì. Gli spiego che sto cercando una bibliotecaria che si chiama Sophie. Non ha idea di chi sia, perciò mi indirizza nell’ufficio del preside dove qualcuno potrà darmi una mano. Sono abituato a essere giudicato dal mio aspetto. Sono pieno di tatuaggi, ho la crestina

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