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Halo: La luce verso casa
Halo: La luce verso casa
Halo: La luce verso casa
E-book363 pagine5 ore

Halo: La luce verso casa

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Info su questo ebook

Mi sono innamorata di Thomas Wells e ho capito che era il mio per sempre.
Avevo sedici anni quando gli ho dato il mio cuore.
Il nostro amore era di quelli che durano tutta la vita.

Ma Thomas era distrutto.
Il primo giorno che ci siamo incontrati mi ha detto che sarebbe diventato un Navy SEAL.
A diciannove anni si è arruolato.
A vent’anni mi ha sposata.
A venticinque mi ha abbandonata, incinta, e non è tornato.
Sapevo che soffriva…
Sapevo anche di non poterlo salvare.
Mi ha lasciata distrutta.
Ero spaventata e sola.
Finché non ho incontrato Ryder St. John, un soldato ferito…
Lui era perso.
Io ero persa.
Insieme abbiamo ritrovato un senso.
Mi sono innamorata di nuovo…

Quello che Ryder ha dimenticato di dire è che nascondeva un segreto così esplosivo che avrebbe potuto mandare in frantumi entrambi i nostri mondi.
LinguaItaliano
Data di uscita24 ago 2023
ISBN9791220706551
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    Anteprima del libro

    Halo - R.C. Stephens

    1

    HALO

    Cinque anni dopo

    5 gennaio 2008

    Rogers Park, Chicago

    Sta succedendo… Questo. È. Reale.

    Merda! Mi sporgo dalla sponda del letto e mi tengo in equilibrio. Respiri lenti, Halo. Puoi farcela. Andrà tutto bene. Respiro lentamente, ma il dolore è troppo intenso.

    Sto perdendo la testa. Cosa devo fare? È troppo presto. Il bambino non doveva nascere prima di tre settimane. Jenny e Dave non sono ancora tornati dalla Florida. Chi diavolo dovrei chiamare?

    Cazzo! Ne arriva un’altra. Santo cielo, mi sento come se mi stessero spremendo le viscere fino alla morte. Non può essere una buona cosa. Le contrazioni si susseguono a distanza di cinque minuti l’una dall’altra. Piccole perle di sudore mi colano sulla fronte e il mio cuore accelera.

    Non mi sarei mai aspettata di essere sola per una cosa del genere. Per questo avrei dovuto avere un compagno accanto a me.

    Thomas era rimasto al mio fianco, aveva messo da parte i suoi sogni. Sapevo con tutta me stessa che sarebbe sempre rimasto con me.

    La contrazione si attenua. Mi alzo dal letto, emetto piccoli sbuffi mentre barcollo verso la finestra che dà sul cortile. Appoggio la mano sul vetro fresco, lo sento sulla mia pelle accaldata. Nel cielo notturno le stelle sono poche. Osservo le nuvole che si muovono lente e mi concentro a respirare dal naso e a espirare dalla bocca.

    Sono sull’orlo del panico. Essere soli significa non potersi permettere il lusso di lasciarsi andare. «Anche le tenebre devono passare,» sussurro le sagge parole di Tolkien, tenendo gli occhi incollati sul grande cortile coperto da almeno un metro di neve, qualsiasi cosa per distrarre la mente dalla paura che minaccia di inghiottirmi. Thomas e io avevamo condiviso l’amore per i libri. Citavamo sempre le parole di Tolkien.

    Guardo l’orologio sul comodino. Sono le tre del mattino. Anche se Thomas se n’è andato da poco più di sette mesi, dormo ancora nel mio lato del letto. È un casino, ma quando qualcuno come Thomas ti fa la promessa di tornare da te a qualunque costo, tu ci credi, la respiri e ti entra nell’anima. Le persone come Thomas sono fedeli, non fanno promesse che poi non mantengono. Di sicuro non abbandonano le loro mogli incinte. Ogni volta che è partito per le precedenti missioni mi è sempre mancato, e ho aspettato il suo ritorno. Questa volta è stato diverso. Ho aspettato che si facesse sentire. Non è mai tornato. Poi sono arrivati i documenti del divorzio e ho capito…

    Cazzo! Cazzo! Cazzo! Di solito non dico parolacce, ma non riesco a smettere di imprecare. Il dolore è pazzesco. Tra poco perderò la testa. Forse è un bene che Thomas non sia qui, perché in questo momento vorrei solo stringergli le palle e torcergliele per fargli capire quello che provo. Fiocchi di neve iniziano a cadere dal cielo. Di solito mi piace guardare la neve che cade, mi rilassa nelle belle giornate, ma in questo momento non fa che aumentare la mia ansia. Ho paura di guidare fino all’ospedale con le strade innevate. La mia auto è più una trappola mortale che un veicolo. Mi allontano dalla finestra e vado verso l’armadio. Prendo una borsa da spiaggia arancio e comincio a riempirla di pigiami e un cambio di vestiti. Pensavo di avere più tempo per prepararmi.

    La mia migliore amica Jenny era in ritardo con la nascita di tutti e tre i suoi figli. Pensavo che andare oltre la data presunta del parto fosse la norma. Speravo che Thomas avrebbe percepito il mio cuore spezzato e sarebbe entrato dalla porta di casa nostra nel momento in cui ne avrei avuto più bisogno.

    Ho cercato di contattarlo attraverso tutti i canali abituali. Ho persino chiamato alcune mogli dei colleghi SEAL della sua squadra. Ho pensato che sarebbero state comprensive data la mia situazione, e di certo lo sono state. Hanno chiesto ai loro mariti di Thomas. Avery, la moglie di uno di loro, ha detto che Thomas sembrava piuttosto incasinato, ma che sicuramente era in servizio attivo. Le ho chiesto quindi di inviargli un messaggio perché chiamasse a casa, visto che era in contatto con il marito. Quella chiamata non è mai arrivata. Un paio di mesi dopo sono venuta a sapere che la sua squadra aveva interrotto le comunicazioni e si prevedeva che non le avrebbero riprese per un po’.

    Entro in bagno e con mani tremanti butto nella borsa anche lo spazzolino e il dentifricio. Avevo programmato di lasciare la scuola una settimana prima per comprare i pannolini, prendere le traversine e riparare il furgone. Essendo un’insegnante, non volevo lasciare la classe mentre ero nel bel mezzo di una sessione. Volevo finire le lezioni. L’arrivo del bambino con tre settimane di anticipo mi stravolge i piani e ora sono impreparata. Purtroppo per me, nessuno dei miei piani sembra funzionare.

    Ahi! Merda! Ne arriva un’altra. La borsa mi sfugge dalle dita e mi porto le mani al ventre gonfio, per far fronte all’imminente contrazione. Il mio viso si contorce. Non riesco a fare quei maledetti respiri lenti che mi hanno insegnato, perché queste maledette contrazioni mi stanno distruggendo.

    Credo che siano stati quattro minuti. Mi piego in avanti mentre la contrazione mi attraversa. Chiudo gli occhi e prego. Prego che Thomas entri dalla porta in questo istante, che Jenny, per qualsiasi imprevisto motivo, finisca in anticipo la sua vacanza in Florida.

    «Charlie, cosa devo fare?» chiedo, guardando negli occhi marroni il mio Golden Retriever. Lei mi fissa e sono quasi sicura che capisca cosa sta succedendo. Sono certa che cercherebbe di aiutarmi se potesse parlare. Non so come avrei superato questi ultimi mesi senza di lei. Mi ha coccolato e lasciato piangere su di lei più volte di quante ne ricordi.

    «Che ne dici, piccola? Ambulanza o taxi?» Charlie inclina la testa di lato ed emette un piccolo e grazioso gemito seguito da un abbaio più forte. «E taxi sia.» Le accarezzo la testa. Un’ambulanza mi renderebbe ancora più ansiosa di quanto non lo sia già. Tra un minuto perderò la testa.

    Mi avvicino al telefono sul comodino e chiamo la compagnia di taxi. Risponde un uomo con un accento dell’India dell’Est e mi dice che può far arrivare un’auto in cinque minuti. Scommetto che è ancora più veloce dell’ambulanza. Il cuore mi batte a mille e mi iniziano a sudare le mani. Riattacco il telefono e cerco di concentrarmi. Non sono sicura di farcela da sola. Ho sempre pensato che in qualche modo sarebbe tornato a casa per questo. Credevo davvero che la sua partenza non fosse definitiva. Io ero la sua Halo. Mi aveva promesso che ero la sua cazzo di Halo…

    Mi infilo velocemente un paio di pantaloni e una felpa. Ho i capelli legati in uno chignon disordinato in cima alla testa. Prendo la borsa da spiaggia e ci butto dentro una spazzola. So che il tempo sta per scadere prima che arrivi un’altra contrazione e devo riuscire a scendere le scale… Niente nella mia vita va come previsto, perché il parto dovrebbe essere diverso?

    Quando raggiungo il piano terra, arriva un’altra contrazione. Mi piego in due, cercando di respirare come mi hanno insegnato nei corsi preparto. Charlie si strofina contro la mia gamba. Il mio unico pensiero è che l’insegnante del corso preparto era fuori di testa. Non c’è modo di respirare con un dolore del genere. È più probabile che smetta di respirare. Sto morendo…

    No. Non perderò la testa perché ho bisogno di essere forte. Questo bambino dentro di me avrà bisogno di una madre forte. Negli ultimi sette mesi è ciò di cui ho cercato di convincermi, ma mi è sembrato di ingannare me stessa. Ho conosciuto Thomas quando avevo quindici anni e da allora è stato tutto il mio mondo. Ora che non c’è più, sono distrutta e ho paura di crescere questo bambino da sola.

    La contrazione finalmente passa. Esausta e assetata, vado in cucina a prendere dell’acqua. Ne trangugio un bicchiere, poi un altro. Mentre sono al lavello, riempio la ciotola dell’acqua di Charlie. Mi occupo anche del cibo, e mi appunto mentalmente di far sapere alla vicina che dovrà controllarla.

    Mi dirigo verso la porta, certa che il taxi sia in arrivo. Passo davanti al soggiorno e noto una foto di me e Thomas sulla mensola del camino. Mi ci avvicino, sentendo la furia calda che mi brucia nel petto.

    «Maledetto Thomas Wells,» sibilo alla sua foto. «Mi avevi promesso di essere un tipo che resta e questo non è certo un modo per restare…» Prendo la cornice e la poso a faccia in giù. Ho messo la maggior parte delle nostre foto in una scatola in soffitta. Subito dopo che se n’è andato, soffrivo così tanto, mi sentivo così sola. Guardare le sue fotografie mi faceva ancora più male.

    Questa è l’unica che ho lasciato in casa. È stata scattata dopo il matrimonio. Sembriamo entrambi così giovani e fiduciosi. Quello stronzo è stato capace di mettermi incinta, ma non è riuscito a rimanere. Lo sguardo si sposta sui miei trofei di pallanuoto sulla mensola accanto al camino. In questo momento, anche solo guardarli mi fa arrabbiare e mi viene voglia di lanciarli dall’altra parte della stanza. I miei genitori pensavano che uno sport di squadra mi avrebbe fatto bene quando ci siamo trasferiti qui. È così che ho conosciuto Thomas. Ho un nodo in gola dalla rabbia, mi rendo conto di quanto io sia risentita. So che devo riprendermi, perché non posso mostrare al bambino che provo rancore nei confronti del padre. Lo so bene.

    Mi avvio verso la porta, indosso gli stivali e il cappotto invernale mentre Charlie si siede accanto a me e mi guarda con i suoi dolci occhi marroni. «Non preoccuparti, piccola. Starò bene. Tornerò con un bambino tra le braccia.» Le do una pacca sulla testa. Due minuti dopo, una luce intensa illumina la casa, seguita da un colpo di clacson. Il taxi.

    Con la mia piccola borsa da spiaggia e la borsetta in spalla, esco di casa e chiudo la porta. Quando mi avvicino all’auto, il tassista mi guarda con gli occhi spalancati. Sono le tre e mezza del mattino e una donna molto incinta sta salendo sul suo taxi.

    «Dove andiamo, signora?» mi chiede come se non lo sapesse; aspetta solo che io scelga un ospedale.

    «Ospedale St. Joseph…» Un’altra contrazione mi colpisce e mi aggrappo alla pancia urlando. La testa mi cade all’indietro quando lui accelera bruscamente.

    «Porca puttana! Signora, io guido, ma non faccia nascere quel bambino sul mio taxi.» Non riesco nemmeno a rispondergli. Questa contrazione è ancora più forte. Spero solo di arrivare in tempo all’ospedale. Avere un bambino sul sedile posteriore di un’auto, senza farmaci, non è proprio il caso.

    L’autista guida come un pazzo sulle strade scivolose. Spero che non ci uccida nel tentativo di arrivare a destinazione. La contrazione si attenua. Uff! Sfrutto il tempo per respirare e mando un rapido messaggio a Maggie, la mia vicina, chiedendole se può prendersi cura di Charlie. Il taxi si ferma bruscamente e io scatto in avanti, sentendo un forte bisogno di fare pipì. Si è fermato davanti al St. Joseph e io prendo la borsa per pagarlo.

    Sembra che stia sudando. «Va bene così, signora. Non mi paghi, se ne vada… la prego, se ne vada.» Mi sta praticamente implorando.

    Sono troppo in preda al panico per prestargli attenzione. Prendo le mie cose e scendo dal taxi. Se le contrazioni sono regolari, la prossima dovrebbe arrivare tra circa un minuto. Mentre cammino verso l’ingresso dell’ospedale, sento un liquido caldo colare lentamente lungo le gambe. Merda! O mi sono appena fatta la pipì addosso o mi si sono rotte le acque. Non ne ho la minima idea. So solo che sono a disagio e bagnata. L’aria è frizzante mentre attraverso le porte scorrevoli dell’ospedale e mi dirigo al banco informazioni.

    «Travaglio e parto, per favore,» chiedo con un accenno di sorriso, visto che è il massimo che riesco fare date le circostanze.

    «Certo signora, è al decimo piano. Ha bisogno di aiuto?» chiede con un sorriso gentile il giovane afroamericano dietro la scrivania.

    «Ah. Aghhh!» Cado in avanti mentre mi preparo a un’altra contrazione. «Ho bisogno di un’epidurale,» grido. La situazione si fa intensa. L’uomo lascia la sua scrivania e corre verso l’ingresso dove mi prende una sedia a rotelle, sbuffando un po’.

    «Si accomodi, signora. La porto al decimo piano.» Mi siedo, cercando di respirare nonostante il dolore. È dannatamente troppo. Mi si stanno distruggendo le viscere. Finalmente sento un po’ di sollievo quando la sensazione di compressione si attenua in un dolore sordo.

    Il dolore fisico si trasforma in tristezza mentre vengo spinta lungo il corridoio. Mi ero trasferita con la mia famiglia dalla California quando mio padre aveva trovato lavoro in questo ospedale. Ero così arrabbiata con i miei genitori per avermi portata via dai miei amici e dalla mia vita a Los Angeles. Lì ero felice.

    Mio padre era un medico e mia madre una professoressa universitaria. Mi hanno avuta tardi perché avevano problemi di concepimento. Quando finalmente sono arrivata, sono diventata la loro vita. Appena nata, mia madre mi ha guardato e si è convinta che avessi una luce intorno a me, da cui il mio nome. Dopo aver cercato di avere un bambino per oltre dieci anni, mi ha coccolato in ogni istante del suo tempo.

    Non era necessariamente una cosa negativa, finché non si sono preoccupati dei miei amici e della loro influenza su di me. Per salvarmi ci siamo trasferiti dall’altra parte del Paese. Ricordo che venivo in ospedale a trovare mio padre. Ora, accompagnata in questi corridoi familiari, i ricordi dolorosi mi squarciano il cuore.

    «Ah,» grido di nuovo mentre l’uomo mi spinge verso la scrivania dell’infermiera. Finalmente ci fermiamo. «Grazie, signore,» dico mordendo il dolore.

    «Buona fortuna.» Mi saluta, guardandomi con simpatia. Dovrebbe essere comprensivo. Sto per spaccarmi in due, cazzo!

    «Ogni quanto sono le contrazioni?» Un’infermiera con i capelli castani e corti e gli occhiali bassi sul naso mi scruta dalla scrivania.

    «Quattro minuti l’una dall’altra e ho un liquido caldo che mi cola lungo le gambe,» ringhio. Credo che la mia voce sembri quella di Darth Vader.

    «Aspettiamo il suo compagno?» chiede. Jenny doveva essere la mia compagna di parto. In questo momento sta prendendo il sole. Abbasso lo sguardo verso la fede che ho al dito. Perché la porto ancora? Ah! Avrei dovuto togliermela, soprattutto ora che abbiamo divorziato, ma sentivo che se me la fossi tolta avrei perso ogni speranza che lui tornasse da me. È ridicolo e patetico. Ora ho solo voglia di sbattere la fede al muro.

    «Sono da sola.» Le parole mi bruciano la gola. Faccio un respiro, il mio corpo è debole e stanco per le contrazioni.

    «Ok, ma prima deve compilare i documenti dell’assicurazione. La farò venire a prendere da un’infermiera,» risponde accigliata. Mi passa una cartellina con una montagna di fogli. Sono davvero felice di avere una buona assicurazione. Essere un’insegnante e lavorare per il Comune significa avere almeno quella. Posso permettermi di avere questo bambino, anche se so che sarà difficile essere una mamma single. Non voglio tornare subito al lavoro. Preferibilmente vorrei stare con mio figlio. Comincio a compilare le domande ridondanti quando la pancia inizia a contrarsi di nuovo. Stringo la penna in mano così forte che la plastica si spezza e l’inchiostro mi schizza sulla mano.

    «Oh, cielo,» mormora l’infermiera dietro la scrivania mentre mi osserva. Ho la testa rovesciata all’indietro e devo avere un aspetto rosso vivo perché non respiro per il dolore. «Ha la tessera dell’assicurazione? La finisco io.» Gira intorno alla scrivania con un panno in mano e mi pulisce l’inchiostro schizzato dalla mano. Strofina, ma non viene via.

    «Sì… è nel portafoglio, nella borsa,» mormoro. Lei prende la borsa e deve aver trovato ciò che le serve, perché pochi istanti dopo dice: «Tutto fatto. Andiamo a farci visitare da un medico.»

    Mi spinge attraverso due grandi porte bianche. Passiamo davanti a molte sale parto e mentre le mie orecchie registrano i suoni delle voci – alcune maschili, altre femminili – che provengono dalle stanze, non posso fare a meno di pensare a Thomas. Vorrei disperatamente che fosse qui ad assistere alla nascita di nostro figlio.

    «Per favore, si sdrai sul letto. La collegheremo ai monitor e faremo venire uno degli specializzandi per vedere a che punto è.» Una giovane e piacevole infermiera dai capelli biondi sorride.

    Mentre mi aiuta a togliermi i vestiti e a indossare un camice, le chiedo se è possibile avere qualcosa per il dolore. Dopo avermi fatto accomodare sul letto, mi rassicura che potrà darmi qualcosa dopo aver valutato le mie condizioni.

    È un sollievo quando, dopo avermi collegato ai monitor, sento il battito del mio bambino. Quel piccolo battito mi riscalda il cuore e io rilascio un lungo respiro. C’è luce alla fine del tunnel.

    Spero di poter fare del bene a mio figlio. Penso ai miei genitori: hanno commesso degli errori, ma hanno comunque fatto del loro meglio. Mi sento talmente lontana dall’adolescente a cui veniva dato tutto, che è difficile riconciliare chi sono ora con chi ero solo pochi anni fa. A malapena registro l’incontro con il medico e quando arriva l’anestesista per somministrarmi l’epidurale, cerco solo di resistere al dolore. Mi assegnano un’infermiera addetta al parto: si chiama Judy e io adoro il suo sorriso; è così gentile che mi viene da piangere.

    «Come stai, Halo?» mi chiede Judy, e io vorrei stringerla tra le braccia. Non ricordo l’ultima volta che qualcuno mi ha chiesto come stavo.

    Non ho molti amici, tranne Jenny e Dave. Non mi giudicano, mi sostengono soltanto. Ho un gruppo più ampio di conoscenti e colleghi con cui pranzo nei giorni di scuola, ma questi sono amici più per i momenti belli che per quelli brutti. Non ho mai avuto intenzione di piangere davanti a loro.

    A me e a Thomas era stata data la possibilità di vivere vicino a una base militare, in modo da avere il sostegno delle altre mogli di militari. Avevo sempre preso in considerazione questa opzione, ma poi il panico mi assaliva. La casa di Rogers Park era tutto ciò che mi era rimasto dei miei genitori. Ero convinta che se mi fossi trasferita avrei perso il legame che provavo in quel luogo. Mi ero sentita in colpa per aver litigato con loro. Credevo che se in qualche modo avessero saputo che ero rimasta ne sarebbero stati felici. E da un certo punto in poi Chicago è diventata casa. Io e Thomas avevamo costruito qui dei ricordi speciali. Non volevo lasciarmi alle spalle nemmeno quelli.

    «Beh, Judy, potrei stare meglio. Sto andando fuori di testa all’idea di come questo bambino uscirà da me,» ammetto, alzando il sopracciglio sinistro.

    Judy getta la testa all’indietro, ridendo. «Non devi preoccuparti. Il tuo corpo è stato progettato per questo. Perché non provi a dormire? Potrebbero volerci alcune ore perché l’epidurale faccia effetto. Più tardi avrai bisogno di essere in forza per spingere. Io sarò seduta qui a controllare i monitor.» La sua voce è dolce e rassicurante.

    «Grazie, Judy.» Sorrido. C’è qualcosa nel suo atteggiamento che mi rilassa. Sento che posso fidarmi di lei. Chiudo gli occhi e mi addormento.

    6 gennaio 1999

    Gara nazionale di pallanuoto

    Halo

    «Non essere così nervosa.» Mamma sorride, voltandosi verso il sedile posteriore dell’auto. Guardo fuori dal finestrino del SUV di papà e mi mangio le unghie. Fuori nevica. Odio che nevichi. Voglio vedere il sole e le palme, non un cielo grigio e strade fangose.

    «E smettila di mangiarti le unghie. La tua squadra se la caverà benissimo. Siete i migliori. Fate del vostro meglio e noi saremo sempre orgogliosi di voi. Per me sei la numero uno, comunque.» La mamma mi fa un sorriso sciocco.

    «Esatto, piccola, smetti di prenderla così sul serio.» Mio padre mi guarda dallo specchietto retrovisore. «Abbiamo pensato che sarebbe stato un buon modo per farti fare amicizia. Non voglio che tu ti stressi per questo.» Le sue folte sopracciglia argentate sono aggrottate.

    «Va bene, papà. Sono un po’ competitiva. La competizione è una parte sana della vita.» Sorrido.

    Sono nervosissima, anche se cerco disperatamente di nasconderlo ai miei genitori. Come loro unica figlia, si aspettano che io sia indipendente, sicura di me e che prenda tutto con serenità. Ma io non sono così. Sono timida. Da quando ci siamo trasferiti non sono riuscita a stringere nemmeno un’amicizia sincera. Sono affidabile nello studio. Non presto molta attenzione al mio aspetto fisico perché mi è stato insegnato che conta ciò che c’è dentro una persona. Da qui la mia mancanza di trucco e l’abbigliamento semplice. Sono una ragazza normale, capelli castani, occhi marroni. Niente di speciale e mi va bene così.

    Mi piace vincere. Ho una vena competitiva che mi fa ribollire il sangue. La gara di oggi è a livello nazionale. Si sfideranno squadre di tutto il Paese e, sì, voglio vincere.

    Quando siamo arrivati a Chicago non ho fatto subito amicizia. I miei genitori, che erano preoccupati per l’uso di droghe nelle scuole che avevo frequentato a Los Angeles, pensavano che avrei dovuto praticare uno sport. Lo sport richiede lavoro di squadra e amicizia e i miei erano sicuri che l’atletica mi avrebbe tenuta lontano dai guai. Sono una brava nuotatrice e così mia madre mi ha iscritto a pallanuoto. Si è scoperto che ho caviglie forti e una bicicletta che mi ha permesso di eccellere in questo sport. Dalla pallanuoto amatoriale sono passata direttamente al campionato agonistico e oggi partecipo alle finali.

    Mentre entriamo nell’edificio per la gara, vedo un cartello che indica che anche i ragazzi gareggiano oggi.

    «Ciao, mamma! Ciao, papà!» Saluto con la mano mentre mi dirigo verso lo spogliatoio.

    «Ciao, tesoro,» rispondono contemporaneamente. A volte mi chiedo se siano segretamente gemelli siamesi, tanto si assomigliano.

    «Ehi.» Una delle mie compagne di squadra, Amanda, mi sorride mentre varco le porte.

    «Ehi,» rispondo.

    «Anche i ragazzi sono qui. Possiamo vedere qualche figo,» dice ridacchiando. Ho già il costume da bagno sotto i vestiti, così metto la borsa in un armadietto e inizio a spogliarmi. Cercare ragazzi è l’ultima cosa che mi passa per la testa in questo momento. Ho quindici anni e mezzo e non ho mai avuto un ragazzo. A Los Angeles avevo degli amici maschi, ma non mi sono mai interessata a nessuno tanto da passare al livello successivo. A Chicago è la stessa storia. Nessuno cattura la mia attenzione.

    «Evviva i fighi,» rispondo ad Amanda, sperando di non sembrare troppo sarcastica. Non voglio offenderla visto che non condivido il suo entusiasmo. Ci incamminiamo insieme verso la piscina. Ci sono panchine allineate lungo le pareti per le squadre. Alzo lo sguardo verso le gradinate: i miei genitori mi sorridono e mi salutano con orgoglio. Immagino che sia così quando si è figli unici. I tuoi genitori hanno solo te su cui concentrarsi. Sotto pressione, faccio un lungo respiro e lo lascio andare.

    Insieme alle mie compagne inizio a fare riscaldamento. Sposto lo sguardo lentamente sulla squadra di ragazzi accanto a noi. Anche loro stanno facendo stretching. Forse sto controllando se c’è qualcuno di carino. Quando finiamo di riscaldarci, ci sediamo in panchina.

    «Allora, quale ti piace, Halo?» chiede Amanda indicando con il mento la squadra maschile, mentre prende posto accanto a me.

    «Mmm.» Batto le dita sul mento in modo scherzoso.

    Il mio sguardo si ferma bruscamente su un ragazzo rannicchiato. È più grosso e più muscoloso del resto della squadra, sembra che si sia allenato sul serio. Mi accorgo che mi sta guardando quando i nostri occhi si incontrano brevemente. Si alza e io distolgo subito lo sguardo. Il mio viso diventa rosso barbabietola. Mi giro verso la piscina, sperando di salvarmi.

    Distogliere lo sguardo non risolve il problema. Ora sento il suo su di me. Con la coda dell’occhio vedo un ghigno diabolico sul suo viso. Respiro lentamente, sperando di non arrossire, ma la mia carnagione pallida mi tradisce.

    Amanda si sporge fino a sfiorarmi l’orecchio con le labbra. «Sembra che tu abbia attirato l’attenzione di qualcuno.» Sorride e fa un cenno con la testa al ragazzo. Fantastico! Ora è ovvio che stiamo parlando di lui. Non può essere più imbarazzante di così. Non sono assolutamente esperta di flirt o di qualsiasi cosa abbia a che fare con i ragazzi, a parte l’amicizia. Forse sono un’inguaribile romantica, ma non lo ammetterei mai. Ho qualche romanzo d’amore che mi concedo tra le mie letture di Tolkien.

    «Amanda, non fare gesti.» Le do uno schiaffo sulla coscia. «Ora capirà che stiamo parlando di lui,» le mormoro all’orecchio. In quel momento sento un’ombra incombere su di noi. Deglutisco vistosamente e giro la testa per vedere la causa dell’ombra. Il ragazzo, il figo, è in piedi davanti a noi. Gesù!

    Mi irrigidisco e il fastidioso rossore si insinua di nuovo sul collo verso le guance, mentre il mio cuore prende velocità. All’improvviso mi gira la testa, mi manca il fiato e ridacchio, mi sembra di essere l’eroina di uno dei romanzi rosa che mi piace leggere. Mi sono presa una cotta per questo ragazzo. È la prima volta che mi capita.

    «Ciao, sono Thomas Wells.» Mi porge la mano. La sua voce è dolce ma profonda. Santo cielo, il mio cuore batte a mille.

    Controllati, Halo.

    Allungo la mano tremando. «Ciao, Halo,» rispondo con una voce appena udibile. Amanda mi dà un colpetto sulla spalla e allunga con sicurezza la sua mano.

    «Amanda, piacere di conoscerti, Thomas Wells,» si presenta con un sorriso civettuolo. Non desidero altro che darle una botta in testa.

    «Allora, ragazze, oggi gareggiate?» ci chiede, con gli occhi blu scuro incollati su di me. C’è qualcosa nel suo sguardo malizioso che mi cattura. Santo cielo, è bellissimo.

    «Ehm… sì… e tu?» chiedo, la voce mi trema.

    Datti una calmata, Halo. Sembri una bambina spaventata.

    Ho sempre avuto molti amici maschi, ma non sono mai stata così nervosa. Non riesco a trattenermi dal guardarlo. Le braccia muscolose e gli addominali a tartaruga sono degni di essere sbavati. Alzo gli occhi e noto il sorriso sexy. Le mie guance si arrossano ancora di più. Una parte di me vorrebbe scappare e ritrovare la calma.

    «Sì, spero che oggi otterremo il primo posto.» Sfoggia un sorriso perfetto e denti bianchissimi. Sono felice che la sua attenzione sia rivolta a me e non ad Amanda. Annuisco e gli faccio un timido sorriso. Non voglio comportarmi da idiota; vorrei essere divertente o sexy, ma non mi succede niente di tutto questo.

    «Allora, Halo, è la tua prima gara? Non ricordo di averti visto in giro.»

    «Ho partecipato a qualche gara,» rispondo, «ma questa è la mia prima nazionale. Sono nata a Los Angeles. Ci siamo trasferiti qui solo sei mesi fa. E tu?»

    «Ah, una californiana…» Sorride come se ci fosse una battuta sottintesa che mi è sfuggita. «Sono nato in Florida. La mia famiglia si è trasferita qui quando avevo due anni. Viviamo a Rogers Park.» Porca miseria, il suo sorriso è sexy. Mi tremano le viscere e non mi piace il modo in

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