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Il Canaro della Magliana
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E-book411 pagine5 ore

Il Canaro della Magliana

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Info su questo ebook

La storia del feroce assassino scritta da chi lo arrestò e dal maestro del thriller italiano

Il più atroce delitto della cronaca nera italiana

La storia vera del Canaro della Magliana è rivista in forma di romanzo da Antonio Del Greco, il funzionario di Polizia che lo arrestò e lo fece confessare, e Massimo Lugli, il maestro del thriller italiano. Un racconto mozzafiato in cui realtà e finzione si intrecciano di continuo.

Roma, 19 febbraio 1988.
Un cadavere smembrato e carbonizzato viene rinvenuto in una discarica della Magliana, alla periferia della Capitale. Il corpo presenta segni di orribili, raccapriccianti torture, e le indagini partono immediatamente, coinvolgendo la squadra mobile e Angela Blasi, una giovane ispettrice al suo primo caso nella sezione omicidi. L’inchiesta, per la polizia, si prospetta tutt'altro che semplice. Una volta identificata la vittima, infatti, le tracce portano a un insospettabile: il proprietario di una toeletta per cani…

La storia del feroce assassino scritta da chi lo arrestò e dal maestro del thriller italiano

Hanno scritto degli autori:

«Metti insieme uno Sbirro e un Cronista con le maiuscole, e trovi un pezzo del Paese e di Roma che non ci sono più. La Questura di Roma e Roma sono state esattamente quel mondo in cui vi preparate a entrare leggendo le pagine di Lugli e Del Greco.»
Carlo Bonini

«Lugli è uno dei migliori cronisti-segugi al lavoro a Roma.»
Corrado Augias

In appendice il verbale originale della confessione del Canaro della Magliana
Antonio Del Greco
è nato a Roma nel 1953 ed è entrato in Polizia nel 1978. Dopo i primi incarichi alla Questura di Milano, è stato dirigente della Omicidi. Sue le indagini su alcuni dei più grandi casi di cronaca nera degli ultimi anni, tra cui l’omicidio del “Canaro” alla Magliana, la cattura di Johnny lo Zingaro, il delitto di via Poma, la Banda della Magliana. Attualmente è direttore operativo della Italpol. Insieme a Massimo Lugli ha scritto Città a mano armata e Il Canaro della Magliana.
LinguaItaliano
Data di uscita19 apr 2018
ISBN9788822722119
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    Anteprima del libro

    Il Canaro della Magliana - Massimo Lugli

    1997

    Questo romanzo, seppur sia liberamente ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto, costituisce un’opera di pura fantasia degli autori e della loro esperienza personale e professionale. Ogni riferimento a nomi, personaggi, luoghi e fatti riportati in questo libro è puramente casuale.

    Prima edizione ebook: maggio 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2211-9

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Massimo Lugli – Antonio Del Greco

    Il Canaro della Magliana

    Il romanzo

    Indice

    Prologo

    Prima parte

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Seconda parte

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Capitolo X

    Capitolo XI

    Epilogo

    Appendice. Il verbale

    Prologo

    Scartò la bustina di stagnola e rovesciò la polvere sullo specchietto, picchiettando con le dita per evitare che ne restasse qualche residuo attaccato. Il mucchietto bianco gli sembrò minuscolo. Sospirò sconfortato. Due strisce al massimo. Le ultime.

    Prese la lametta, tenendola tra pollice e indice e sminuzzò meticolosamente i cristalli di dimensioni infinitesimali, di un bianco abbagliante con qualche venatura di grigio e di rosa. Di solito era il momento migliore, quello che preferiva, l’anticipazione del sapore amarognolo nelle narici e nella gola, della botta che lo faceva fremere come un orgasmo chimico, del fuoco tra il naso e la fronte che lo costringeva a strizzare le palpebre quasi fosse abbagliato. Il piacere prima del piacere. L’attesa spasmodica che durava solo pochi secondi e portava con sé tutto quello che sarebbe venuto dopo.

    Stavolta no. Stavolta aveva fretta.

    Arrotolò la banconota da 5000, se la infilò nella narice destra, si chinò sulla prima pista e inspirò. Il flash lo fece sobbalzare come un uppercut. Si abbandonò all’indietro sulla sedia, strizzandosi il naso e rabbrividendo, scosse la testa nel gesto di un cane che esce dall’acqua e, subito dopo, si abbassò sulla seconda striscia. Una vampata di calore alla bocca dello stomaco, un sibilo leggero nelle orecchie, il cuore che martellava come un tamburo, un accenno di pelle d’oca. Roba strepitosa, il Secco aveva ragione. Ma era finita.

    E la cosa stava aspettando.

    Un rivoletto di sangue gli colò dal naso sul labbro superiore. Succedeva sempre più spesso negli ultimi mesi ma sapeva che era normale, quando viaggi sui quattro grammi al giorno. Le narici si distruggono, il bombardamento della coca le rende secche, fragili come carta velina, sensibili, sempre irritate. Ripensò a quella storia che aveva sentito su Gianni Agnelli, che s’era fatto impiantare una sorta di cannula d’oro su per il naso e decise che era una grande stronzata. Poi prese una sigaretta dal pacchetto, inumidì il filtro, lo passò sullo specchio imbrattato di polvere sperando che qualche granello restasse attaccato, passò il dito sul vetro opaco prima di infilarselo in bocca e succhiarlo come un bambino, fumò con calma. Il cuore, dopo lo scatto iniziale, era tornato a battere in modo accelerato ma regolare. Calcolò almeno 120, forse 140 pulsazioni al minuto. Difficilmente, in tutta la giornata, scendeva sotto le 110, anche negli intervalli tra un pippotto e l’altro.

    Si alzò e si girò, guardando il pavimento. La cosa.

    La fissò con una sorta di stupore, come se la vedesse per la prima volta, anche se era riuscito a distogliere lo sguardo per cinque minuti al massimo. Il sangue si stava già addensando, un piccolo lago scuro sul pavimento che, per qualche processo chimico di cellule morenti, stava trasformandosi in una serie di grumi nerastri. Scosse la testa pensando a quanto tempo, a quanta fatica ci sarebbe voluta per ripulire tutto. Nonostante la sniffata si sentiva stanchissimo. Per un attimo considerò di riposare un po’, magari dormire una mezz’oretta prima di cominciare il lavoro ma si riscosse. Tutto doveva finire com’era iniziato. Senza pause, senza interruzioni.

    Andò in bagno, orinò, si sciacquò la faccia con l’acqua fredda e tornò a inginocchiarsi accanto alla cosa.

    Non aveva più un nome. Non aveva sesso. Non aveva faccia. Non era più niente.

    Guardò quello che era stato il viso cercando di individuare i segni del trattamento ma era inutile: il sangue aveva impastato i lineamenti trasformando l’intera faccia in una maschera rossastra. Solo i denti spiccavano ancora, bianchissimi a contrasto col resto, evidentissimi ora che non c’erano più le labbra a nasconderli. Una sorta di rictus che aveva qualcosa di diabolico.

    Fece un respiro profondo prima di alzarsi e andare a prendere la coperta. L’aveva preparata dal giorno prima: lurida, strappata, piena di buchi, incrostata di chissà quali schifezze: perfetta per quello che gli serviva. La stese a terra accanto al corpo, senza preoccuparsi del sangue che la inzuppò all’istante e, con delicatezza quasi amorevole, ci fece rotolare la cosa sopra, fino a quando arrivò a toccare il lembo sinistro. Poi avvolse il cadavere facendolo girare su se stesso in senso inverso. Restavano fuori solo i piedi, dalle caviglie in giù, e qualche capello che fuoriusciva dall’estremità opposta e che ricacciò subito dentro. Si alzò, vagò nella piccola stanza per qualche minuto domandandosi dove aveva messo il gomitolo di spago, lo trovò su una mensola dove gli sembrava di aver guardato almeno due volte, si tolse il trinciapollo con la lama incrostata di sangue dalla tasca, tagliò un paio di metri e assicurò l’involucro che conteneva la cosa con tre o quattro passate, badando bene a stringere i nodi il più possibile. Poi si alzò, zuppo di sudore, il cuore che sembrava volergli sfondare la cassa toracica e contemplò il risultato.

    Perfetto. Un tappeto preparato per il trasloco, una vecchia tenda arrotolata che finisce in soppalco prima che qualcuno si decida a buttarla via, un copriletto da portare in tintoria…

    Una cosa.

    Uscì all’aperto e respirò a pieni polmoni l’aria gelida, che sembrava condensare tutto lo smog della giornata in una sorta di caligine infetta. Il freddo gli arrivò addosso come un treno, pungente come mille aghi. Febbraio, a Roma, può essere ancora inverno pieno. Si strinse nel giubbotto troppo leggero, il sudore che gli si gelava all’istante e tornò dentro. Mentre cercava di prendere la cosa per i piedi gli venne in mente una filastrocca che aveva sentito chissà dove da bambino.

    È febbraio un monellaccio

    Molto allegro e un po’ pagliaccio

    Ride balla salta e impazza

    Per le vie forte schiamazza…

    Come continuava, come finiva? Scosse ancora la testa per scacciare il pensiero: non era il momento di andare in fissa e sapeva bene che, quando sei strafatto, qualunque stronzata può diventare un’ossessione che non ti lascia tregua: il nome di un’attrice di cui ricordi solo la faccia, il titolo di un film, il terzino panchinaro della Roma, il risultato dei mondiali di dieci anni prima, la formazione di…

    Andò a prendere la macchina, rallegrandosi di aver dovuto cambiare la batteria quindici giorni prima. 70 sacchi, una vera sola ma almeno era sicuro che il catorcio sarebbe partito. Guidò a marcia indietro per duecento metri e lasciò l’auto col portellone aperto, in doppia fila, davanti alla finestra.

    Buio fitto, nessuno l’avrebbe visto. Nessuna luce alle finestre, pochi lampioni, neanche un passante in giro. Un quartiere come quello si addormenta presto e si sveglia all’alba.

    Infilò la cosa, avvolta nella coperta, nel grosso sacco condominiale della spazzatura di plastica nera senza preoccuparsi di chiuderlo in cima. Poi afferrò i piedi e tirò con tutta la forza. Per qualche istante gli sembrò che la cosa facesse resistenza, che fosse rimasta ancorata al terreno, fissata con le viti o un mastice resistentissimo. Bestemmiò e tirò ancora, con tutta la forza. Il corpo scivolò mollemente sul pavimento, seguendolo. Issarlo fino alla finestra fu come sollevare una montagna e a un certo punto pensò che non ce l’avrebbe fatta. Si impose di riprovare, prese la cosa per le spalle, riuscì a sollevarla fino al davanzale e la lasciò a penzolare a metà, il busto fuori, le gambe dentro. Poi si chinò, si mise le gambe sulle spalle e si alzò in piedi. La cosa cadde e sentì un rumore sordo e molle, come di un grosso frutto maturo che si spiaccica a terra.

    Uscì e la prese di nuovo per i piedi già rigidi. Camminò all’indietro per raggiungere l’auto, trascinandosi dietro il cadavere, e arrivò fino al portellone, poi con uno sforzo spaventoso lo sollevò a metà e infilò il tronco nel portabagagli. Ansando come un cane, abbracciò le gambe della cosa e le issò fino a quando tutto il cadavere fu dentro, riverso di lato sulla copertura di plastica dell’interno. Si maledisse per non aver messo un altro sacco sul fondo, per evitare le macchie di sangue ma ormai era tardi e, comunque, aveva tempo per pulirle.

    Tutto il tempo che voleva.

    Salì al posto di guida e avviò il motore, dopo aver dato un’occhiata al sedile posteriore. La tanica di plastica era lì, ben tappata, traboccante di benzina fino all’orlo. Ingranò la prima e lasciò la frizione lentamente, come per evitare che la cosa, nel bagagliaio, sentisse troppi scossoni.

    Mentre guidava nel buio, gli venne in mente il seguito della filastrocca.

    …per le piazze e per le sale

    Accompagna il carnevale

    Se fra i mesi suoi fratelli

    Ve ne sono di più belli

    Il più allegro e birichino

    Resta lui che è il più piccino.

    Sghignazzò istericamente prima di capire che stava piangendo.

    Prima parte

    Chi fa il male odia la luce e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate.

    Vangelo di Giovanni

    L’atrocità della vendetta non è pari all’atrocità dell’offesa ma all’atrocità di chi si vendica.

    Nicolás Gómez Dávila

    Il primo indizio che ne ebbi fu un gemito che uscì dal fondo della nicchia. Non era il grido di un uomo ubriaco.

    Edgar Allan Poe, La botte di Amontillado

    Capitolo I

    «Al vetro, Angela?»

    «Al vetro. Come sempre».

    Angela Blasi guarda la grossa schiena del barista che si volta per smanettare con la macchina del caffè e si domanda se è la questura che fa questo effetto o c’è una sorta di selezione naturale: chiunque abbia un quoziente d’intelligenza un po’ più basso di un cercopiteco viene attratto in questo orrendo palazzo di via di San Vitale da oscuri magnetismi extrasensoriali. Perfino al bar. Quattro anni e mezzo alla sezione omicidi, cinquantaquattro mesi che prende il caffè alla stessa ora, turni ed emergenze di servizio permettendo, quattro anni e mezzo che lo chiede, puntualmente, nel bicchierino e quello, implacabile, a domandarglielo ogni volta come se non l’avesse mai vista prima. Un giorno ha perfino pensato di stupirlo con effetti speciali e ordinare, che so, un espresso corretto al Mistrà ma di sicuro quel ciccione non avrebbe fatto una piega e a lei sarebbe toccato sciropparsi l’intruglio. E il bello è che non è neanche un poliziotto: i tempi degli agenti in disuso trasferiti dietro il bancone del bar interno al piano terra in attesa dell’età pensionabile sono tramontati da un pezzo. Servizi esterni.

    Il caffè è tiepido e sa di gomma bruciata, come sempre, ma fa troppo freddo per uscire e andare al bar di via Quattro Fontane dove, tra l’altro, s’incontrano troppi funzionari e soprattutto troppi cronisti che, con la scusa di fare i piacioni (i maschi) o di due chiacchiere casuali (le femmine, che sono ancora peggio), ti si appiccicano come remore e tentano regolarmente di scucirti qualche dritta sui casi del momento. Be’, se non altro in questo periodo di casi grossi non ce ne sono, la mala romana sembra arrivata a una sorta di tregua armata e lei, Angela, stasera potrà staccare alla fine del turno e arrivare puntuale alla cena con Michela.

    Michela. Commercialista, trentotto anni, separata. Un po’ incarognita, com’è naturale per chi, dopo dodici anni di matrimonio, scopre che il maritino se la fa con una sciampista in età da Lolly Pop e che, tra l’altro, un bel giorno ti infligge una scena patetica di lacrime e singhiozzi e bela che non ce la fa più, che la ama ma l’altra gli è entrata nelle ossa e deve fare la sua scelta, prendersi una pausa, riflettere sulla loro storia e bla bla bla…

    Neanche quattro mesi e la ragazzina aveva una pagnotta nel forno, il maritino viveva felice con lei nell’estatica attesa del pupo e Michela aveva arruolato l’avvocato divorzista più carogna di Roma decisa a spremergli fino all’ultimo centesimo di alimenti. Lei, di figli, non può averne e ogni volta che ci pensa, cioè tre o quattro volte al giorno di media, le viene il groppo in gola.

    Angela passa in rassegna il palinsesto della serata: cibo cinese, una bottiglia di Tocai e ’fanculo al tè verde che non contiene teina e ripulisce le arterie, cicaleccio tra femmine incazzate e l’inevitabile conclusione: gli uomini sono tutti bastardi o farlocchi e i pochi decenti, ammesso che esistano, sono prenotati o blindati da sempre, vivono sotto scorta armata e meritano la tutela del

    WWF

    come specie in via di estinzione. Ma quando l’alternativa è una pizza a domicilio e rincoglionirsi davanti al Costanzo Show va bene anche così.

    «Il solito, Andrè».

    Angela riconosce l’odore prima della voce dietro di lei, quella lieve fragranza di Eau Sauvage e Marlboro rosse che, per una sorta di riflesso pavloviano, la spinge a passarsi una mano tra i capelli nerissimi e folti, un po’ leonini, in un gesto civettuolo, da vera squinzia, di cui si pente all’istante. Posa la tazzina, si stampa la solita espressione di te non me ne può fregare di meno e si gira col mezzo sorriso ironico che è diventata la sua mimica facciale preferita negli ultimi sei mesi.

    Sua Ficaggine è proprio dietro di lei e la guarda dai venti centimetri abbondanti di statura in più con quell’espressione tra il bonario e il seduttivo, da Bobtail innamorato, che detesta e adora più di ogni altra cosa al mondo.

    «Ciao, ti stavo cercando…».

    «Mi sono presa una pausa, dottore».

    Tommaso Elleni stringe le labbra in una linea sottile sotto i baffoni che cominciano a tingersi di grigio ma non replica. Va bene darsi del lei in pubblico perché le apparenze vanno salvate comunque, anche se Radio Serva, in questura, trasmette un segnale più forte di Canale 5, tutti sanno tutto di tutti e il gioco di chi scopa chi sembra l’unico, vero interesse degli sbirri romani, ma quel dottore scandito chiaro e forte ha il sapore di una presa in giro, specialmente al bar.

    Tommaso fa un gesto con le mani come a dire: Ricevuto, touché.

    Angela inclina la testa di lato, cerca di non guardarlo in quegli occhioni grigi che sprizzano promesse mai mantenute e rimpiange di non avere scelto un tubino strizzato su tacchi da 12 invece dei soliti jeans e delle Nike taroccate da bancarella. Servirebbe a poco, visto com’è andata tra loro, ma almeno avrebbe la consolazione di vederlo sbavare e, magari, fare un pensierino su quello che ha perso a forza di stronzate, di bugie, di scuse ridicole, di appuntamenti saltati, di feste comandate in famiglia, di meschinità da sbirro sposato che scopa in giro ma non lascerà mai la moglie. Il marito di Michela, almeno…

    «Che fai stasera?». Tre parole che le fanno perdere un paio di battiti, prima di riprendersi e reagire d’istinto che neanche Itto Ogami, il samurai dei telefilm che gira col ragazzino al seguito.

    «Esco». Angela cerca di metterci dentro una vagonata di sottintesi tipo: Ho conosciuto un olimpionico di nuoto e me lo scopo, Partecipo a una partouze con Rocco Siffredi e una quindicina di stalloni afro, Vado a una riunione del gruppo femminista di combattimento contro i rimorchioni da ufficio, ma non riesce a trattenere la frase da donnetta che esce dalla bocca prima di aver inserito il freno d’emergenza antigrezze.

    «Lei, invece, starà a casa con sua moglie, dottore, come sempre…».

    Tommaso Elleni sarà un rimorchione da ufficio ma non è scemo, quindi fa un gesto come a dire: Basta con le cazzate.

    «Ti cercavo per una storia… È arrivata adesso», taglia corto. Modalità professionale. Il Capo e l’ispettore di punta della sezione. Tutto il resto è passato.

    «Dica, dottore».

    «Hanno trovato un cadavere in via Belluzzo… Zona tua, no?»

    «Già. Fino a dieci anni fa, almeno… Adesso vivo a San Giovanni, non te lo ricordi più?».

    Doppio strike. Ogni volta che qualcuno nomina il suo quartiere d’origine le tocca un’occhiata tra il compatimento e lo stupore, come se fosse strano che una nata e vissuta alla Magliana non se ne vada in giro con il giavellotto e la pelle di giraffa sulla spalla. Quanto al resto, Tommaso Elleni ha appena vinto il primo premio al concorso nazionale L’Ipocrita d’Oro. Come se non ci avesse passato due pomeriggi alla settimana per quattro mesi, nel suo appartamento, prima che Angela lo mettesse davanti all’alternativa dentro o fuori e lui ripiegasse in ordine sparso.

    «Chi è il morto?». Angela si rimette in carreggiata al volo, sennò rischia di fare una scena isterica di fronte a tutti. Poliziotte sull’orlo di una crisi di nervi.

    «Non lo sappiamo… Sembra una storia grossa. Lo hanno bruciato ma, stando a quelli del commissariato che sono già lì, gli hanno fatto parecchio di peggio».

    «Cioè?»

    «L’hanno fatto a pezzi, Angela. Una schifezza orrenda, il dottor Spurinni è in arrivo, ti dirà lui».

    «In arrivo, eh? Mi sa che ci faccio notte».

    Marco Spurinni, il dottore dei cadaveri. Motto preferito: Non ho mai visto un paziente vivo. Velocità media d’intervento sul posto: dalle due o tre ore a seconda della digestione. Visto che sono le 9 del mattino e l’ora di pranzo è lontana dovrebbe farcela in un’ora e tre quarti, se va bene.

    «Quindi?». Angela dice addio mentalmente alla seratina tête-à-tête con Michela, senza rimpianti. Lavorare è sempre il top, come anestetico e quando c’è un omicidio di mezzo è difficile che torni a casa prima di notte.

    «Vacci subito, per favore… Poi mi dici», conclude Tommaso che, se non altro, ha il buon gusto di chiederlo come se Angela potesse rifiutare. Stile da manuale: come ottenere il meglio dai vostri subordinati senza mostrarvi autoritari.

    Angela lo guarda come se gli fosse spuntata la proboscide, un gigantesco punto interrogativo sospeso a mezz’aria. Il suo capo non fa una piega.

    «Ti stai chiedendo perché non vado io di persona?». Il fatto è che, rimorchione, adultero e tutto il resto, Tommaso Elleni ha un unico grande amore nella vita: il suo lavoro. E non è certo uno di quegli investigatori da scrivania: schizzare come una palla da biliardo da un delitto a una rapina, da uno stupro a un furto con scasso è sempre stato il suo scopo nella vita da quando ha vinto il concorso per vicecommissario in prova. Chi vuole va, chi non vuole manda è sempre stato il suo motto. Classico sbirro da strada.

    «Devo andare in tribunale, porca troia…», geme lo sbirro da strada, frustratissimo. «Se non mi presento mi denunciano. Spero di sbrigarmi e di raggiungerti ma, adesso, sul posto mi ci vuole una tosta, come te…».

    Angela sta per fare le fusa, poi ci ripensa, decide che è ancora incazzata e la butta sul laconico.

    «Ok, vado».

    «Sapevo di poter contare su di te».

    Angela fa per tirare fuori il portafoglio ma Tommaso la stoppa con un gesto che dice lascia stare e accenna alla porta del bar.

    «Bodoni è giù che ti aspetta in macchina».

    Mentre scende le scale per andare in cortile, dove l’aspetta la vecchia Ritmo grigia che è uno dei cimeli dell’autoparco della omicidi, Angela cerca di ricordarsi di chiamare Michela appena possibile per annullare la cena: i commenti al veleno sul genere maschile, la metà stronza del cielo, possono aspettare.

    Andrea Bodoni lascia mezzo chilo di gomme sull’asfalto e spreme il vecchio motore della Ritmo come se avesse fatto voto di stripparlo. Angela s’aggrappa al cruscotto come un bradipo, allaccia la cintura di sicurezza (cosa che di solito non fa mai) e cerca di non mostrare la strizza. C’è chi entra in polizia per arrestare i cattivi, chi per lo stipendio sicuro, chi perché da ragazzino ha visto troppi thriller, chi perché l’unica alternativa era diventare un malavitoso. Andrea Bodoni è una categoria a sé: lui è diventato uno sbirro per correre. Al corso di formazione s’è guadagnato il nomignolo di Speedy che gli è rimasto appiccicato per tutti i venticinque anni che ha passato in uniforme. Dategli un volante, un acceleratore da schiacciare a tavoletta e una leva del cambio da smanettare ed è un uomo felice. Molto meno quelli che hanno la sventura di salire a bordo, tranne Tommaso Elleni che si diverte come un pazzo e, in una sorta di duello maschilista a chi ce l’ha più lungo, lo sfida ogni volta a pistare di più. «Ma che ti sei rincoglionito, Andrea? Guidi come un cazzo di pensionato…».

    «Guarda che il tizio è già morto, mica resuscita anche se ci spiaccichiamo da qualche parte», boccheggia Angela quando la Ritmo brucia il semaforo di via Nazionale e punta dritto verso la pedana del vigile urbano di piazza Venezia come se volesse travolgerla per sterzare all’ultimo istante, sfiorandola e puntare verso il Circo Massimo. Il pizzardone, vecchio amico dello sbirro, fa il gesto dell’ombrello anziché fischiare: cose che solo a Roma possono succedere.

    «Storia di merda», mugugna Angela sperando che l’autista faccia un po’ di conversazione e magari si distragga un po’ e si dia una calmata.

    Mugugno. Scalata assassina da quarta a terza, contagiri sul rosso, i pistoni che rischiano di spuntare dal cofano.

    «Non sappiamo neanche chi cazzo è…».

    Grugnito. Inchiodata d’emergenza, paraurti che sfiora il dietro di un camion, sorpasso in contromano.

    «E poi lì è peggio che in Sicilia, nessuno parla». Curva a pelo, terza, seconda, terza. Poi di nuovo a tutta battuta. Ma dov’è il traffico della capitale quando ne hai bisogno?

    Via della Magliana è così ingolfata di macchine che Bodoni è costretto a mettersi in coda buono buono. Angela prende fiato, guarda la sfilata di palazzoni sui lati della strada e si meraviglia di vedere tanti bar, tanti negozi che sembrano perfino eleganti, tanta gente alle fermate degli autobus, tanti stranieri. Lei c’è arrivata bambina, alla fine degli anni ’60, quando il quartiere era nato da poco e gli abitanti affluivano come rivoli incessanti dalla Campania, dalla Basilicata, dalla Puglia, dall’Abruzzo, dal sud pontino spopolato dalla disoccupazione, dando vita quasi subito a una miscellanea di dialetti, di intonazioni, di usanze, di sapori, di odori… a un caleidoscopio di alleanze, rivalità, faide tribali, amicizie, parentele, sospetti, guerre di territorio. Donne nerovestite col fazzoletto in testa e il medaglione della Vergine al collo, uomini baffuti, sussiegosi e collerici sempre pronti a prendere fuoco alla prima mancanza di rispetto vera o presunta, ragazzini scatenati che s’aggregavano subito in piccole bande di strada, giocavano nei palazzoni ancora in costruzione, davano la caccia ai sorci grossi come gatti, s’azzuffavano di continuo in una eterna battaglia per la supremazia. Edifici tetri, lugubri, già vecchi prima ancora di essere finiti, costruiti al risparmio col cemento armato gonfiato di sabbia, sotto il livello dell’ansa del Tevere, che s’allagavano a ogni temporale. Fogne che rigurgitavano liquame. Baracche. Discariche abusive. «La Magliana non è il Bronx», ha scritto Sandro Onofri, poeta e scrittore, uno dei pochi nativi che s’è emancipato e ha conquistato una fama tra romanzi, raccolte di poesie, giornalismo e premi letterari. «Nel Bronx, almeno, ci sono ospedali, centri sportivi, cinema, biblioteche… Qui non c’è niente».

    Se ci sei nato o ci sei arrivato da piccolo, alla Magliana, hai due scelte: te ne vai appena possibile o impari a sopravvivere. Angela ha imparato. Essere una femmina non è un gran vantaggio in una gang di dodicenni coi primi peli sul pube e gli ormoni in subbuglio per un anticipo di adolescenza, che hanno una voglia matta di metterti le mani addosso anche solo per vedere come sei fatta. Puoi strillare, frignare, correre a casa e chiuderti dentro sperando che, in mancanza di un fratello, qualche amico più grande si decida a prenderti sotto la sua ala protettrice. Oppure puoi fare da sola. Angela si sfiora la piccola cicatrice al lato della bocca e non riesce a trattenere il solito ghigno che le viene sempre quando ricorda come ha ridotto l’altro, il più grosso e il più prepotente di tutti. Da quella volta, nessuno ha più tentato di infilarle le mani sotto la gonna, ma, in compenso, le hanno appioppato un soprannome che nemmeno le dispiace troppo: la Jena. Sempre meglio di Culomoscio, Sorcanera o Cazzo in Testa. O quella povera disgraziata di Fregna, sic et simpliciter, che appena possibile se n’è andata per non sentirsi chiamare più in quel modo.

    Se ci sei nato o la bazzichi spesso, la Magliana, sai riconoscere al volo una grana grossa come una casa e questa è stratosferica. Angela scende dalla macchina e inquadra subito la situazione. Via Belluzzo, traversa della Portuense, una strada ad arco lambita da una sterpaglia rognosa tenuta a bada a malapena da una recinzione mangiata dalla ruggine, palazzoni color mattone in lontananza, la Parrocchia della Sacra Famiglia e l’Ambrit International school a un tiro di sasso ma che sembrano a distanze siderali, la solita folla di facce chiuse, ottuse, sardoniche assiepata attorno alle transenne rosse e bianche. Il resto glielo dicono le espressioni stravolte dei colleghi del commissariato, i primi ad arrivare sul posto dopo la solita telefonata anonima partita dalla solita cabina telefonica. «C’è un morto nella discarica». Clic. Pensare di rintracciare qualche testimone, da queste bande, è un po’ più improbabile di mettersi a caccia di elefanti. A chi chiedi se ha visto qualcosa? Ai tossici pencolanti che barcollano come zombi tra le piazze di spaccio, il sert del San Camillo o la cooperativa antidroga Magliana ’80 di via Vaiano? Ai sorvegliati speciali che firmano il registro al commissariato tre volte alla settimana? Agli ultrà della curva sud o a quelli della curva nord, divisi dalla fede, uniti nell’odio per chiunque indossi un’uniforme? Ai barabba stravaccati al bar dalla mattina alla sera? Ai detenuti ai domiciliari che scendono in strada a orari regolari per smerciare o comprare qualche bustina, puntualmente avvisati da una rete di sorveglianza occhiuta e onnipresente se per caso arriva un controllo di sbirri o carubba? Ai bru bru che ricettano gioielli rubati o armi nel retrobottega di un negozio di copertura?

    Angela un’idea ce l’ha ma deve ancora decidere se ne vale la pena. Intanto, da brava poliziotta, segue le norme del galateo questurino e, per prima cosa, si presenta ai colleghi in divisa.

    «Ispettore Angela Blasi, squadra mobile, buongiorno».

    «Sovrintendente Massimo Carlucci, buongiorno a lei». Il poliziotto sulla cinquantina ha la classica faccia di chi ne ha viste di tutti i colori ma questa proprio non se l’aspettava. Rughe che sembrano incise col bulino, pancione straripante, dita macchiate di nicotina e tutto il resto.

    «Cosa abbiamo qui?».

    Carlucci fa un cenno verso qualcosa di nero e di informe, al centro del piccolo immondezzaio. Angela capisce che è una specie di test, si avvicina con decisione e si china con le mani sulle ginocchia a guardare.

    Anche lei ne ha viste di tutti i colori ma questa proprio non se l’aspettava.

    «Per me è una storia di mafia…».

    «Hai visto che gli hanno fatto? Cazzo, a momenti vomitavo».

    «Dovevano essere proprio incazzati…».

    «Magari è uno che ha fatto una soffiata… In un film ho visto che li puniscono così».

    «E se fosse uno straniero? Tipo cinese… Sai, le tong, quella roba lì? Non mi sembra una storia tra italiani, manco i mafiosi sono così boia».

    «Ehi, quello chi cazzo è?»

    «Il

    PM

    , mi sa».

    I due poliziottini smettono di scambiarsi commenti al top dell’idiozia, si raddrizzano e cercano di assumere un’aria vagamente operativa. La piccola folla irriducibile che continua a presidiare il luogo del delitto si agita, nell’intuizione collettiva che sta per succedere qualcosa. Qualcuno, alla vista della 131 blu ministeriale e dell’uomo basso e snello, in completo color Rattus norvegicus e cartella di pelle logora che scende dal sedile posteriore, si defila discretamente all’inglese: qualche domiciliare fuori zona che sa chi è il magistrato o, comunque, sa riconoscere una faccia da palazzo di giustizia, quando la vede.

    Angela fa un respirone come se stesse per immergersi in apnea e si prepara all’incontro con Sua Supponenza. Ci mancava solo lui. La ciliegina sulla torta di una giornata di merda.

    «Bngrrrnn, dov’è il dottor Elleni?». Saluto che è un grugnito, tono da preside che entra in una classe disertata dal professore. Ottimo inizio.

    «È in tribunale, dottor Lori… Cerca di venire appena può, nel frattempo ha mandato me, ispettore Angela Blasi, sezione omicidi».

    «Bngrrrnnn, ispettore… Mi relazioni, per favore». Giuseppe Lori stringe la mano di Angela con l’entusiasmo di chi raccoglie una cacca di cane e ha finito le bustine di plastica, i baffetti grigi e sottili fremono di delusione. Non c’è alcun funzionario da mandare ai pazzi e, per giunta, gli tocca un investigatore donna. Sull’altra metà del cielo nelle forze dell’ordine, Giuseppe Lori, il più tignoso, puntiglioso, vanaglorioso rompicazzo della procura di Roma, ha le idee molto chiare. Idee che si guarda bene dall’esternare a parole ma lascia chiaramente intuire con mimica facciale, linguaggio del corpo, sbuffi, mugugni, grugniti e tutto il resto.

    «Ah, quindi c’è solo lei?»

    «Come le spiegavo, appunto… E naturalmente gli agenti del commissariato». Angela fa un cenno verso il sovrintendente Carlucci che si sta accendendo una sigaretta e si limita a sventolare distrattamente una mano. A un anno dalla pensione e senza alcuna prospettiva di salire di grado, se ne strafotte dei giudici. Beato lui.

    «Be’, mi relazioni allora…». Lori apre un immaginario registro di classe pronto ad appioppare un bel tre meno meno.

    Angela si stringe nelle spalle e gli sferra un immaginario uppercut da ko.

    «Sono appena arrivata, dottore, e stiamo ancora aspettando il medico legale. Da quello che vedo, la vittima è un uomo, una scarpa è rimasta intatta. Sembra che gli

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