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Vittima innocente
Vittima innocente
Vittima innocente
E-book467 pagine6 ore

Vittima innocente

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Info su questo ebook

«Raccomando caldamente questo libro.» Joyce Carol Oates

Un thriller tratto da una storia vera

Vivian, una ragazza di origini asiatiche, vive a Londra ma si allontana dal caos cittadino ogni volta che può. Girare il mondo la appassiona. Johnny è un quindicenne irlandese, socialmente emarginato e con un passato difficile. È cresciuto in una famiglia nella quale la violenza era all’ordine del giorno ed è l’unico modo che conosce di relazionarsi agli altri. Vivian ama esplorare luoghi a lei sconosciuti, venire a contatto con culture diverse dalla sua. È giovane ed è abituata a cavarsela da sola. Ma tutto cambia quando, in un luminoso pomeriggio primaverile, a Belfast, la strada di Vivian incrocia quella di Johnny: il loro incontro culmina in un orribile atto di violenza. Dopo quel terribile episodio, le vite di Johnny e Vivian non saranno mai più le stesse. Perché le conseguenze di quello che è successo avranno inevitabili ripercussioni sugli anni che verranno. E sono inimmaginabili. Una storia vera che ha la suspense di un thriller.

Un incontro.
Una vittima.
Due vite che cambiano per sempre.

Ispirato a una scioccante storia vera

«Raccomando caldamente questo libro, un’esperienza personale rielaborata in forma di romanzo.»
Joyce Carol Oates

«Da leggere assolutamente.»
Erin Kelly

«Un sorprendente romanzo d’esordio, una vicenda intensa basata su una storia vera che l’autrice riesce a raccontare con maestria.»
The Guardian

«Questo libro è insieme uno straordinario documento sociale e una lettura emozionante.»
Kirkus Reviews
Winnie M Li
è una scrittrice e produttrice. Laureata a Harvard, ha scritto guide turistiche, prodotto film indipendenti, organizzato festival del cinema e sviluppato progetti di ecoturismo. Dopo la laurea in Scrittura creativa e un dottorato di ricerca in Media e Comunicazione alla London School of Economics, ha lavorato per vari media e festival artistici. Vittima innocente è il suo primo romanzo, pluripremiato e in corso di pubblicazione in 11 Paesi.
LinguaItaliano
Data di uscita11 dic 2018
ISBN9788822728692
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    Anteprima del libro

    Vittima innocente - Winnie M Li

    2155

    Questa è un’opera di fantasia. Sebbene il romanzo tragga ispirazione dallo stupro subìto dall’autrice in circostanze analoghe, e sebbene i due personaggi principali siano vagamente basati sull’autrice e sulle sue impressioni relative allo stupratore, questo libro rimane il prodotto della sua immaginazione. I dettagli delle vite dei personaggi non correlati a quel crimine sono fittizi. A parte gli amici che le sono stati accanto e i sostenitori menzionati nei ringraziamenti, i dettagli sui conoscenti e sui membri della famiglia dei due personaggi principali, in particolare quelli relativi a tutti gli amici e i familiari di Johnny, oltre alle loro vite e azioni, sono completamente inventati. Il processo non ha mai avuto luogo, perché in realtà l’imputato si è dichiarato colpevole, e pertanto è stato immaginato. Qualsiasi somiglianza dei personaggi o delle organizzazioni inventate nel testo con persone (vive o morte) e organizzazioni è da considerarsi del tutto casuale.

    Titolo originale: Dark Chapter

    Copyright © by Winifred May Li, 2017

    By Agreement with Pontas Literary & Film Agency

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Marzio Petrolo

    Prima edizione ebook: febbraio 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2869-2

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Winnie M Li

    Vittima innocente

    Indice

    Prologo

    Parte prima

    Parte seconda

    Parte terza

    Parte quarta

    Parte quinta

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Per tutte le vittime e i sopravvissuti – e per la maggior parte di noi, che si trova da qualche parte nel mezzo.

    Prologo

    Dicono che eventi del genere ti cambino la vita per sempre. Che non sarà mai più com’era il giorno prima. O anche solo due ore prima che mi capitasse quello che è successo, mentre aspettavo quel bus fuori Belfast, lungo Falls Road, a ovest della città.

    Credete che sia melodrammatico pensarla in questi termini? Immaginare una divisione netta che spacca in due la tua intera esistenza, separando i tuoi primi ventinove anni da tutti quelli a venire? Ora guardo dalla parte opposta di questa fenditura, un solco imprevisto che definisce i contorni della mia vita, e cerco di gridare con tutte le mie forze alla versione più giovane di me che si trova sull’altro lato di quel crepaccio, ignara di quel che l’aspetta. Non è che una macchiolina distante. Dal mio punto di vista sembra smarrita, eppure lei è convinta di sapere dov’è diretta. Stringe in mano una guida turistica, ed è intenta a seguire un sentiero che la porterà qui, in cima a questo pendio e poi sul limitare di un altopiano, da cui raggiungere l’altura che si confonde con le colline al di sopra della città. Non sa che qualcuno la sta seguendo. Pensa solo al sentiero davanti a sé. Ma ci sono cose che non può prevedere.

    Adesso mi trovo su questo lato del crepaccio, e cerco in ogni modo di mettere in guardia la me stessa di qualche anno fa dalla persona che la segue furtivamente nascondendosi tra i cespugli e gli alberi alle sue spalle. Ferma!, vorrei gridare. Non ne vale la pena! Lascia perdere quel sentiero e torna a casa. Ma in ogni caso non mi darebbe ascolto. È troppo cocciuta, troppo decisa a concludere quell’escursione in una giornata così limpida e fresca. E ora è troppo tardi. Si trova in piena campagna, e anche se dovesse voltarsi per tornare indietro, non potrebbe fare a meno di imbattersi in quell’uomo, perché lui l’ha quasi raggiunta. E la sta fissando.

    Ormai ha superato il pendio, e si sta incamminando sul sentiero che si snoda tra i pascoli assolati e la ripida china della vallata. Si ferma un istante per godersi la bellezza di quel panorama verdeggiante, i rami ricurvi degli alberi sospesi sulla sua testa, i campi assolati che si estendono alla sua sinistra. È fuggita dalla città. È qui che inizia la vera campagna. Per un ultimo e placido istante, sembra un pezzetto di paradiso. Si è accovacciata sul ciglio del dirupo, e alla sua destra il terreno sprofonda ripido verso il burrone.

    Il fiume sottostante è un ruggito lontano. L’aria quassù odora di concime e sole ed erba calda, e gli insetti ronzano pigramente nella luce del sole che filtra tra gli alberi. Poi si volta verso il dirupo alberato alla sua destra e vede una sagoma che risale il pendio mentre cerca di nascondersi tra i cespugli della foresta. Il battito del suo cuore si trasforma in un sobbalzo innaturale. Solo a quel punto si accorge di essere stata seguita.

    Ora, anni dopo, è come se fossi io a seguire la mia versione più giovane. Sono io che la tormento a ogni passo, come un angelo custode arrivato troppo tardi. Si fa largo tra i rami che le si parano davanti, e io la imito, invisibile. Affretta il passo per distanziare il suo inseguitore, e io la seguo a ruota. Istintivamente, sa che deve raggiungere il campo aperto prima che lui le sia addosso, così cerca di percorrere in tutta fretta gli ultimi metri del sentiero per superare il crinale. Vorrei trattenere quel bastardo con una mano invisibile, immobilizzarlo come un giocatore di rugby mentre le grido di proseguire, di dirigersi verso la radura e allontanarsi dal sentiero, di lasciar perdere l’escursione e avviarsi subito verso la strada trafficata per tornare a casa. Ma non posso impedirlo. Gli eventi devono svolgersi come hanno già fatto.

    Quel passato è il nostro passato. Perciò sono inchiodata qui, su questo versante del crepaccio, costretta a guardare quell’uomo mentre la raggiunge. Non voglio assistere al resto. L’ho già rivissuto a sufficienza. Se solo potessi fermare tutto – in quell’ultimo istante, mentre me ne stavo accovacciata tra i pascoli assolati e l’abisso vertiginoso – allora ogni cosa sarebbe ancora al suo posto. Soltanto, non si tratterebbe più della mia vita. Sarebbe semplicemente la piacevole passeggiata di qualcun altro nella campagna irlandese in un pomeriggio primaverile. Ma la mia, di passeggiata, è andata in modo piuttosto diverso.

    Parte prima

    È seduta in ufficio, sta aspettando che la sua psicologa finisca di armeggiare con una videocamera. È una stanza angusta, stipata con uno stile accademico, come se fosse stata finanziata dallo Stato, e gli alti scaffali di libri incombono su di lei, pieni di pratici volumi sul recupero dai traumi, il monitoraggio del paziente e i metodi per le terapie cognitivo-comportamentali. Sulla bacheca di sughero alla sua destra, la dottoressa Greene ha fissato con delle puntine alcuni biglietti di ringraziamento spediti da ex pazienti e una cartolina con una palma solitaria nel bel mezzo di una spiaggia di sabbia bianca.

    Volta lo sguardo verso il cielo grigio fuori dalla finestra. La parte sud di Londra a novembre. L’arco del London Eye in lontananza, a cavalcioni di chilometri di case popolari che sembrano estendersi come un’infinita foresta di cemento lungo Denmark Hill, oltre Elephant and Castle, fino a raggiungere il Tamigi.

    Soddisfatta dalla lucina rossa intermittente comparsa sulla videocamera, la dottoressa Greene si siede, si passa una mano tra i capelli biondo granturco e rivolge lo sguardo sulla sua paziente.

    «Allora, raccontami di nuovo tutto quanto. Nel modo più preciso possibile».

    Cerca di non sospirare, se l’aspettava, ma le sfugge una nota di esasperazione. «Sul serio? Un’altra volta?»

    «So che per te è estenuante. Ma è una parte fondamentale della terapia. Puoi farlo con tutta la calma del mondo».

    «Niente emozioni?»

    «Concentrati solo sui fatti. Sui dettagli. Le emozioni emergeranno comunque, ma va bene così».

    La dottoressa Greene è paziente, non è una sputasentenze, ed è proprio questo che le piace di lei. Quello, il suo gusto da bibliotecaria in fatto di moda e un’ossessione da vecchia signora per i gatti, che davvero non si sarebbe mai aspettata in una donna magra e bionda di poco più di trent’anni. In condizioni normali si sentirebbe intimidita, ma ora da parte della sua psicologa avverte solo un tacito sostegno, un’aria da nerd e l’attenta dedizione con cui cerca di capire i suoi pazienti.

    Rivolge lo sguardo verso la videocamera, esausta. L’ultima cosa che vuole è raccontare tutto ancora una volta. Sono mesi ormai che ne parla, con la polizia, con i medici, con il Centro anticrisi, con la Commissione sanitaria per le malattie mentali che ha valutato se avesse bisogno di qualche tipo di cura, e adesso – diverse volte – con la sua psicologa. Versioni sempre leggermente diverse l’una dall’altra. Alcune si concentrano più sui dettagli clinici: dov’era stata colpita, cosa fosse stata costretta a fare. Altre invece più incentrate sul suo assalitore: che aspetto avesse, il suo modo di parlare. Ma è sempre la stessa scena a riemergere: un luminoso mattino primaverile, la luce del sole che filtra tra gli alberi, la sagoma con il maglione bianco che sale su per il pendio.

    Potrebbe recitare il tutto anche nel sonno. E in effetti, ultimamente è proprio questo che fa la sua mente ogni notte, quando confonde quella miriade di versioni diverse nei suoi sogni. A volte sono popolati da persone che un tempo conosceva, volti sepolti nella sua memoria di ragazzi palestrati che frequentavano con lei le scuole medie, ormai cresciuti. A volte si ritrova in un luogo immaginario – uno scenario fantascientifico, magari assimilato in parte da un film che ha visto. Ma c’è sempre il punto d’incontro tra bosco e campo, quello spazio liminale sospeso come una specie di rifugio sicuro e illuminato oltre gli alberi. Peccato che non sia affatto sicuro, perché il campo assolato non le aveva offerto alcun riparo, e continua a punzecchiarla nel sonno, rilucendo ai confini della sua coscienza.

    La lucina rossa sulla videocamera lampeggia. La palma fa capolino dalla sua cartolina rettangolare.

    Si schiarisce la voce e ricomincia a parlare.

    Un’ora dopo, sta camminando su Denmark Hill diretta verso Camberwell Green, negli ultimi sprazzi di luce del pomeriggio. Ormai per lei è diventata una routine fissa. Martedì mattina: prendere l’autobus fino a Camberwell, fare la seduta con la dottoressa Greene, e poi magari una sosta all’alimentari cinese sulla via del ritorno, mentre raggiunge la fermata dell’autobus per tornare a casa.

    Ultimamente si sente sempre priva di energie. Un’uscita di tre ore è il massimo che le sue forze le permettono. Quella strana e debilitante agorafobia che l’ha afflitta nelle settimane successive all’aggressione minaccia costantemente di tornare. Il sole potrebbe essere troppo luminoso, il vento troppo pungente e la massa di persone per strada troppo chiassosa e incomprensibile. Perché correre il rischio di uscire?

    C’è sempre la sicurezza del suo appartamento, della sua camera, del letto.

    Questo pomeriggio il pensiero del suo letto le appare ancora più allettante del solito, mentre si allontana dal Maudsley Hospital scendendo giù per la collina, verso il mondo reale.

    Concentrati solo sui fatti. Le emozioni emergeranno in ogni caso, ma va bene così.

    Ma il punto è che le emozioni non ci sono. Da mesi, ormai, si sente svuotata di qualsiasi sentimento. Le feste vanno e vengono, gli amici si fidanzano, sua madre la assilla al telefono – e non prova nulla. Solo uno strano distacco dal mondo, come se fosse un fantasma che fluttua nelle terre delle persone reali: che osserva, prendendo atto del modo in cui i vivi conducono le loro vite per poi allontanarsi di nuovo. Non riesce nemmeno a sentirsi triste o arrabbiata per la sua mancanza di sentimenti. C’è solo un’assenza completa di sensazioni. Niente emozioni, nessuna reazione da questa persona. Registrato.

    Si infila nel negozio cinese di alimentari. Wang’s Supermarket. Non sa leggere le etichette sui prodotti, né parlare con i commessi in mandarino o cantonese, ma trova un certo conforto nel camminare tra gli scaffali di un alimentari che le ricorda la sua infanzia. Pile di pacchetti di ramen a trenta penny l’uno, che luccicano nei loro involucri di plastica promettendo gusti di gamberi al curry, manzo speziato, pollo imperiale. Grosse lattine di castagne d’acqua, funghi di paglia, radici di loto. Ingredienti che fino a un anno prima non avrebbe mai pensato di comprare, ma con cui è cresciuta, saltati in padella nel wok di sua madre o stufati in una zuppa invernale.

    Non ha idea del perché li stia acquistando adesso. Non sono più semplici da cucinare rispetto a un piatto pronto Tesco. Ma quando era venuta a Camberwell per la sua prima valutazione al Maudsley Hospital, il Wang’s Supermarket era proprio lì, in cima alla strada, con lo stesso odore dell’alimentari cinese della sua infanzia.

    Mentre cammina tra gli scaffali, dagli altoparlanti del negozio suona una canzone in cinese, uno di quei pezzi vagamente lamentosi sull’amore e la perdita che sembrano interpretati da una donna di mezza età con tendenze suicide. Forse a sua madre potrebbe piacere, ma per lei non ha significato, se non un imbarazzante senso di familiarità, esattamente come ogni altra cosa cinese in cui si imbatte nella sua vita da adulta.

    Prende quattro pacchetti di ramen, una lattina di minipannocchie e una bottiglia di salsa di soia dalla forma allungata. Paga tutto con una banconota da cinque sterline ed esce in strada, lasciandosi alle spalle quell’ambiente stantio, la colonna sonora cinese ancora nelle orecchie.

    Un gruppetto la supera, sono ragazzi che stanno tornando a casa da scuola con indosso le loro uniformi. Sono neri, tutti e cinque appena adolescenti, parlano ad alta voce, ma lei non presta loro alcuna attenzione. Continua a camminare, come in trance.

    Alla fermata del bus, c’è un altro gruppo di adolescenti. Sono in tre, bianchi, e stanno squadrando due ragazze sul marciapiede. Sghignazzano e fanno commenti che non riesce a sentire.

    La sua spalla struscia contro quella di uno dei ragazzi mentre sale sul bus. Lui si volta e la guarda per un istante. Non riesce a capire con esattezza cosa c’è in quello sguardo – lussuria adolescenziale o rabbia, o forse solo fastidio. Ma gli occhi blu ghiaccio del ragazzo la trafiggono, le sembra quasi di riconoscerli, e avverte un nodo allo stomaco. La fronte le si imperla di sudore. Si fa strada tremante su per i gradini, si siede, cerca di placare la nausea che le si diffonde nelle viscere. Guarda il ragazzo che prosegue lungo la strada, cosciente che non si trattava di lui; era solo un adolescente che gli somigliava appena.

    Ma che vergogna, tutto questo. Che perfino un incontro casuale con un qualsiasi scolaretto possa generare in lei un turbamento simile.

    La nausea torna ad aggredirla, ma riesce a controllarla, mantenendola a un livello accettabile. Non ha intenzione di sentirsi male. Perseguitata, al massimo. Porta le ginocchia al petto e le stringe, si raggomitola, lo sguardo fuori dal finestrino, mentre l’autobus si allontana dal marciapiede.

    Per un attimo, non riesce a ricordare come sia tornato a casa. Ha ancora addosso i vestiti della sera prima, la testa che gli pulsa. Dev’essersi addormentato sul divano. È mattina inoltrata, e i raggi del sole filtrano dalla finestra, troppo luminosi. Da qualche parte gli uccellini cinguettano.

    Pa’ è fuori, e anche suo fratello.

    Poi ricorda: appena qualche ora prima stava barcollando per la strada buia con Gerry e Donal, a scolarsi del whisky da quattro soldi, una sorsata dopo l’altra. Avevano preso delle pasticche quella notte. E anche altra roba. Si ricorda di essere entrato in un pub con i ragazzi, e che poco dopo erano stati cacciati dal proprietario. Poi si erano rintanati da Gerry a guardare un porno.

    Questo l’aveva già visto. Quello in cui lei si mette a novanta per succhiarglielo e si vede tutto, tutto. Quella fessura rosa aperta tra le gambe, così strana e aliena. Come una specie di bocca extraterrestre appena uscita da un film di fantascienza, solo che questa è accompagnata dalle tette, tette giganti, abbastanza grosse da fartelo venire duro al solo pensiero.

    Ripensa a quelle tette e, con il sole che brilla alto e gli uccellini che cinguettano, si sente già in subbuglio.

    Si accorge che è troppo presto. Nonostante sia solo.

    Si guarda intorno. Di sicuro Pa’ e Michael sono fuori. Ma decide di trattenersi per dopo. E poi ha un mal di testa martellante ed è affamato. Si mangerebbe un bue, cazzo.

    Ancora barcollante per il doposbornia, ciondola fino all’angusta cucina della roulotte. Apre il frigorifero, la dispensa, trova un pacchetto di biscotti da quattro.

    Biscotti. Dei cazzo di biscotti per colazione.

    Sul ripiano della cucina è appoggiata una tazza mezza piena d’acqua; la beve, trangugia i biscotti, si appoggia al tavolo. Ispeziona ancora la dispensa ma non c’è nulla, solo un filone di pane ammuffito, scaduto sei giorni fa.

    Il suo stomaco borbotta, ancora più affamato di quanto non fosse prima dei biscotti.

    Cristo, da quant’è che Pa’ è fuori? Quattro giorni?

    Torna a sedersi sul divano, la testa stretta tra le mani. Forse l’effetto di quelle pasticche ancora non è svanito. Forse è ancora fatto e può stare qualche altra ora senza mangiare. Non sarebbe fantastico?

    Oh, Giiiesù, era stata proprio una gran bella serata. L’espressione sul volto del proprietario del pub, mentre loro tre scappavano dalla porta sul retro con le mani piene di pacchetti di patatine. Il bruciore del whisky in gola, l’ebbrezza dell’aria notturna dopo aver buttato giù l’ecstasy.

    Sorride mentre ci ripensa, vorrebbe che uno dei ragazzi fosse con lui adesso. Ma non riesce a ricordare che fine abbiano fatto, né in che modo lui sia tornato da casa di Gerry.

    Silenzio. La luce del sole. Poi sente l’urto di un sassolino sull’esterno della roulotte.

    È lo storpietto della porta accanto.

    Ovviamente, la voce di un ragazzino risuona nel mattino, la madre che gli grida qualcosa di spiacevole dal loro caravan. Un altro sassolino colpisce la parete.

    Serra la mandibola, si accorge che è ancora dolorante dalla sera prima.

    Un altro sassolino. Plink.

    Infastidito, si precipita fuori dalla roulotte e mentre la luce del sole lo abbaglia se la prende col ragazzino.

    «Vuoi farla finita?».

    Il bambino ridacchia e si avvicina di corsa di qualche passo. Riccioli castani e stupidi occhi pallidi e distanti che lo guardano divertito. Come se stesse giocando o roba del genere.

    Rivolge un altro sguardo torvo al bambino, solleva una mano per dargli un ceffone, e questa volta il piccolo lancia un gridolino e scappa dentro la sua roulotte.

    Sbuffa, strizza di nuovo gli occhi per ripararsi dalla luce troppo accecante del sole. Oggi fa più caldo del solito. Dieci roulotte ammassate in una mattina d’aprile, il bianco brillante in contrasto con il verde e il marrone del campo, il cielo primaverile che si staglia all’orizzonte, fresco e cristallino.

    Per un istante il suo doposbornia scompare, e riesce a sentire l’odore dell’erba falciata e della terra smossa. Odori gradevoli, ma rovinati dal diesel di qualche motore nel campo accanto. Il sole gli riscalda le palpebre, e potrebbe rimanere lì per un altro minuto o due, gli occhi chiusi, solo lui e il campo. L’estate sta arrivando, e con essa le lunghe giornate assolate in cui poter uscire con indosso solo una

    T

    -shirt, i turisti rilassati che diventano bersagli facili. Le sere calde, le ragazze con i loro vestiti succinti, in attesa solo di qualcuno che le tocchi.

    La voce di un bambino irrompe nei suoi pensieri.

    «Il tuo papà è andato giù ad Armagh».

    Riapre gli occhi. «Sì, lo so».

    Il ragazzino lo osserva da qualche metro di distanza, appoggiato all’angolo della roulotte. Cristo, qui non puoi nemmeno farti una pisciata senza che lo sappiano tutti.

    A proposito, è il momento di cambiare l’acqua al pesce. Si volta e si incammina verso il limitare del campo.

    «Dove vai?».

    Non risponde. Continua solo ad allontanarsi, sentendo addosso gli occhi del bambino. Dopo una ventina di metri, si ferma sul ciglio dell’altopiano e apre la cerniera per pisciare.

    Il vento spazza le nuvole lungo l’orizzonte, e vede Belfast che si estende davanti a sé, un agglomerato di edifici marroni e grigi che si ergono nell’orribile nodo del centro cittadino prima di raggiungere il mare.

    Tra lui e la città, la vallata sprofonda verso il basso, sotto complessi residenziali e campi irregolari. Lo scroscio del fiume, pieno per le piogge primaverili, rimbomba con forza e lo raggiunge mentre lascia cadere a terra le ultime gocce di urina.

    Fa un respiro nell’aria del mattino. Il miglior panorama del mondo per una pisciata, cazzo.

    «La West Highland Way. Questa è l’ultima».

    Affonda la puntina sulla mappa, trafiggendo le montagne da qualche parte a nord di Glasgow, per poi sedersi soddisfatta.

    «D’accordo, quindi si tratta solo di cinque sentieri lunghi», dice Melissa con una nota di sarcasmo.

    «Cinque sentieri», annuisce lei. «Posso farcela. Una volta o l’altra nella mia vita».

    «Perciò… te ne andrai in giro a fare escursioni del genere anche a cinquant’anni?».

    Scoppia a ridere. Dio, cinquant’anni. «Si spera che prima dei venticinque sia riuscita a farle tutte. Magari trenta?».

    Ha diciott’anni ed è seduta sul letto nella sua stanza del dormitorio. Melissa è accanto a lei, i capelli arruffati che cadono alla rinfusa sul copriletto verde scuro. Per un istante rimangono sul letto in silenzio, a fissare la mappa dell’Europa costellata di puntine colorate.

    «Viv, è una follia. Hai intenzione di fare tutte queste escursioni da sola?».

    Si stringe nelle spalle. «Non ci ho ancora riflettuto, ma perché no?».

    In fondo, non è proprio quello il punto? Thoreau che vive in solitudine nella sua baita nei pressi di Walden Pond. Walt Whitman e i suoi voli pindarici sui fili d’erba, scritti sotto un albero mentre la sua barba si fa sempre più lunga e spavalda al passare delle stagioni. Edward Abbey che attraversa un vasto canyon nelle regioni sudorientali americane, le pareti di roccia che si ergono su entrambi i lati, lui e il canyon da soli.

    «Sei completamente fuori», commenta Melissa scuotendo la testa. «In tutto ciò, io mi accontenterei di convincere Danny Brookes a bere un caffè con me».

    «Davvero? Ti piace ancora?»

    «Be’, finché non arriva qualcuno di meglio per cui prendermi una cotta».

    Sorride tra sé e sé. Al momento, non c’è nessuno – nemmeno un ragazzo in tutto il campus – che le interessi. È possibile che ogni tanto nella folla abbia intravisto un tizio dall’aspetto pensieroso, diverso da tutti gli altri. Ma i ragazzi in generale, con le loro battute per nulla divertenti, la loro sfrontata necessità di mostrarsi sempre sicuri di sé a lezione… al momento i ragazzi non la interessano granché.

    Melissa sta ancora fantasticando. «A volte becco Charlie Kim a fissarmi durante economia».

    «Credi che possa piacerti?»

    «Sembra abbastanza interessante. Non sono mai stata baciata da un ragazzo asiatico prima d’ora».

    «Nemmeno io!».

    Scoppiano a ridere entrambe.

    «Ma i tuoi genitori non sarebbero contenti?», domanda Melissa.

    «Cosa, se baciassi un ragazzo asiatico? Al momento, credo che i miei non vorrebbero che baciassi alcun ragazzo, a essere onesta».

    «Sei fortunata». Melissa allunga una mano e accarezza i capelli della sua amica. «Mia madre fa di continuo questi commenti fastidiosi. Non hai ancora trovato un bravo ragazzo? C’è qualcuno di speciale nella tua vita?. Insomma, siamo al college da soli quattro mesi!».

    «Sono felice che mia madre non mi chieda cose del genere».

    Un’altra pausa. È venerdì sera e fuori si sentono gli studenti che si preparano per andare alla ricerca della festa più rumorosa e piena di alcol. I ragazzi in fondo al corridoio stanno urlando; la ragazza della porta accanto grida loro di tacere. Qualcuno al piano ha alzato il volume di uno stereo e le note degli Oasis risuonano tra i muri.

    «Hai dei capelli davvero fantastici», dice Melissa ammirata. Passa le dita in mezzo alla folta chioma nera di Vivian.

    «Sono solo i miei capelli. Mi crescono in testa».

    «Già, ma hai visto cosa cresce sulla mia?». Melissa indica la sua chioma castana, piatta e senza forma. «Se avessi dei capelli del genere…». Si interrompe, ma continua ad accarezzare le lunghe ciocche nere dell’amica.

    «Cosa?», chiede Vivian curiosa. «Che cosa faresti se avessi i miei capelli?»

    «Io… io… non lo so, ne approfitterei per sperimentare delle acconciature fantastiche. Ne proverei una diversa ogni giorno».

    «Sarebbe una gran seccatura», sbuffa.

    Ma Melissa scatta su, tutta eccitata. «No, facciamolo! Hai qualche forcina e della lacca per capelli?». Perlustra con gli occhi la stanza, ma sul comò non ci sono prodotti per capelli né accessori di alcun tipo.

    «Non importa. Mi inventerò qualcosa. Sul serio, sarà fantastico». Si mette in ginocchio e inizia a spazzolare i capelli di Vivian. «Potrai sfoggiarli alla festa dei Sigma Chi più tardi».

    E per un attimo, l’idea le piace. Basta con l’insicura adolescente che ha iniziato a indossare lenti a contatto appena due anni fa. E chissà, potrebbe incontrare un ragazzo carino che non sia uno stronzo ragliante. Qualcuno in grado di farle sobbalzare il cuore.

    Accenna una smorfia mentre Melissa si accanisce sul suo scalpo, con colpi di spazzola fin troppo energici. Ma poi si rilassa mentre le dita dell’amica si insinuano tra i suoi capelli, ora intrecciandoli, ora legando le ciocche con degli elastici. Siede pazientemente guardando la mappa sul muro davanti a sé. La West Highland Way. Il Cammino di Santiago. La

    GR15

    . Sentieri che si snodano su colline e attraversano vallate chissà dove dall’altra parte del mondo.

    «Dove l’hai beccata questa?», chiede Gerry aprendo un’altra lattina di Carlsberg.

    «Nel parco».

    «Che ci faceva nel parco?»

    «Non lo so, una passeggiata».

    «E qualcuno ti ha visto?»

    «No». In giro non c’era anima viva. Se n’era accertato.

    «Allora di cosa hai paura? Credi che possa spifferare?».

    Si stringe nelle spalle. Come se volesse dire di sì.

    «E poi era un po’ più grande», osa alla fine.

    «Quanto più grande?».

    Ma non ricorda. È tutto troppo confuso. Sapeva che era più grande, e gli piaceva questo di lei. Sa di averle chiesto quanti anni aveva, e che lei aveva risposto immediatamente. Non aveva ridacchiato come fanno certe ragazze. Solo che non riusciva a ricordare cos’avesse detto.

    «Non so. Più di venti».

    «Tipo ventuno o ventotto?»

    «Giiiesù, Gerry, non me lo ricordo! Ero ancora fatto. Era più grande di quanto dava a vedere».

    «E sembrava avere il controllo della situazione?»

    «Be’, sì, diciamo di sì. In un modo strano».

    Anche se aveva dovuto colpirla diverse volte e stringerle la gola per convincerla a dargli ascolto.

    Ha otto anni quando vede il libro da Barnes and Noble per la prima volta. Nel centro commerciale di Edgewood Hills, New Jersey. Leggende e racconti d’Irlanda. Sulla copertina ci sono un cerchio di pietre, una collina verde, la luna piena. Un sentiero immerso nella nebbia. Un viaggiatore solitario percorre quel sentiero, oltre i menhir, sotto la luce lunare.

    «Mamma», dice. «Ti prego, posso prendere questo libro? Costa solo due dollari».

    E ovviamente, se è un libro ed è economico, la mamma non può dirle di no tanto facilmente. I libri sono una cosa buona. Ti fanno diventare intelligente.

    Sorride mentre sfoglia le pagine del volume, guardando le figure prima di leggere le storie. Immagina di essere quella persona in copertina, che percorre quel sentiero. Da qualche parte in Irlanda. Da sola. La luce della luna che si riflette argentea sulle pietre. Immagina ogni dettaglio.

    «Tuo fratello, Michael… sarà la mia rovina». Ma’ sta piangendo, come al solito, e lui vorrebbe schiaffeggiarla per farla tacere. Come fa Pa’. «Continuamente dentro e fuori dalla prigione. Già così giovane, per di più. Mi preoccupo da morire quando penso a lui».

    Non le dice nulla. Lei si lamenta costantemente di Michael. È imbarazzante quanto tempo passi a piagnucolare.

    Guarda fuori dalla finestra, verso i campi oltre la roulotte. Hanno trovato un bel posto, stavolta, qui a Cork. Non ci sono molte case nei dintorni. Né troppi tizi che li fissano. Un sacco di spazio dove lui e gli altri figli dei nomadi possono correre.

    «Esco», dice. «Solo un po’. Prima che faccia buio».

    «Johnny, fai il bravo», dice Ma’ allungando un braccio per sfiorargli il volto.

    Lui si allontana di scatto. Non è più un poppante. Non ha bisogno che la sua mammina lo tocchi in quel modo. Che direbbero i ragazzi?

    In seconda elementare, all’età di sei anni, una logopedista viene in classe per fare una chiacchierata con tutti i bambini che parlano in modo buffo. Il che include anche lei.

    Uno a uno, entrano in un’altra stanza e siedono con la signora delle parole. Ha i capelli corti e si chiama Jason. È buffo che una donna abbia un nome da uomo e voglia assomigliare a un uomo.

    «E tu come ti chiami?»

    «Vivian».

    «Che nome delizioso».

    La signora delle parole le fa leggere alcune frasi. Poi le mostra una serie di immagini chiedendole cosa rappresentino. Lepre, Rosso, Limone, Ruota, Giraffa, Serpente.

    Riesce a dire le parole molto lentamente?

    Così le dice di nuovo. Leee-pre. Rooos-so. Liii-mooo-ne.

    La signora delle parole annuisce.

    «Molto bene», dice. «Sei molto brava a leggere».

    La volta successiva che incontra la signora delle parole, la mamma è con lei. Chiedono anche alla mamma di pronunciare qualche parola. Le stesse parole. Lepre, Rosso, Limone.

    «Ah», commenta la signora delle parole. «Vedi, l’hai preso dalla mamma».

    La mamma scoppia a ridere. «Davvero?», chiede.

    La signora delle parole dice che ha bisogno di allenarsi con le lettere

    R

    e

    L

    . E magari un po’ anche con la

    S

    .

    Al momento, non pronuncia le

    R

    in modo corretto.

    «È perché la tua mamma viene da un altro Paese, per questo pronuncia le parole inglesi in modo diverso».

    Non si era mai accorta di pronunciare le cose in modo diverso dagli altri. O che la sua mamma lo facesse.

    «Quindi noi ci incontreremo ogni martedì, faremo qualche gioco per lavorare sulle tue

    R

    e

    L

    , e vedrai che inizierai a pronunciare delle belle

    R

    vibranti. Che ne pensi?».

    Annuisce. Le piace la proposta. Ma si rende conto che a parlare con la signora delle parole sono i bambini lenti (quelli nel gruppo di lettura per principianti), oppure Priya, che è indiana, o ancora Mo, che tutti prendono in giro perché la sua sorella più grande indossa una sciarpa intorno alla testa.

    È un po’ imbarazzante trovarsi insieme ai bambini lenti. Ma se non altro la signora delle parole è gentile.

    Ogni settimana, deve fare alcuni esercizi per la dizione. Cose buffe, come mettere in equilibrio una caramella Polo sulla punta della lingua e ripiegarla all’indietro per cinque volte. Così le sue

    R

    non suoneranno più così piatte.

    Oppure premere la lingua sulla parte posteriore dei denti e pronunciare la

    L. L-L-L.

    Cinque mesi di

    R-R-R-R

    e

    L-L-L-L

    ogni martedì pomeriggio.

    La sua lingua si stanca, ma lei continua a provare. A rrripiegarrrla all’indietro. A toccare il palato con la punta della lingua.

    E poi, un giorno di primavera, la signora delle parole le dice che non dovranno più rivedersi.

    «Le tue

    R

    hanno un suono perfetto! Ce l’hai fatta!». Le consegna un certificato con un nastro blu d’eccellenza, e una grande

    R

    con una lepre che può colorare di rosso.

    «Ora dimmelo un’altra volta: Rachel la lepre è rossa».

    «Rachel la lepre è rossa».

    La signora delle parole applaude. «Dovresti essere molto orgogliosa di te stessa». La stringe in un abbraccio.

    Non incontra più la signora delle parole. Dopo quella volta, niente più corso di dizione del martedì pomeriggio con i bambini lenti e Priya e Mo. È di nuovo con il resto della classe, e le sue

    R

    le sembrano diverse ora. Come le

    R

    di qualcun altro. La lingua le si piega all’indietro in modo automatico. Non ricorda più com’era un tempo, quando giaceva piatta sul fondo della bocca.

    Rrripiegare. Da adesso in poi, ci saranno solo quelle splendide

    R

    vibranti, con il suono che dovrebbero avere.

    Ha tre anni e questo è il suo ricordo più vecchio: la musica. Le risate. Il calore di un fuoco all’aperto. Di notte, in un campo. Gli occhi rivolti alle stelle. I brividi di freddo. Il fiato che si condensa nell’aria. Il nascondino in mezzo al fango, tra le roulotte. Le risate con la sua sorellina, Claire. Michael che lo butta a terra, e gli mostra come tirare un pugno. Il nonno che lo lancia in aria, il suo anello che scintilla illuminato dalle fiamme. Il rifugio tra le braccia di Ma’, quando la notte si fa troppo fredda.

    L’odore del whisky che gli altri continuano a passarsi. Gli adulti che ridono. Il fuoco che si spegne.

    Più tardi, una volta dentro, Pa’ grida e Ma’ gli urla addosso di rimando. Quando succede lui si nasconde sotto al tavolo. Pa’ che colpisce Ma’, più e più volte. Pa’ che si addormenta. Ma’ che continua a piangere, rannicchiata in un angolo.

    Alza lo sguardo su di lui, il volto nero e umido. Gattona fino a raggiungerla. «Forza, Johnny. Ora fila a letto».

    È domenica mattina, e come sempre lei è distesa sul pavimento della cucina a leggere il giornale. Le piastrelle del pavimento aderiscono alla sua pelle, soprattutto in estate, visto che per risparmiare qualche soldo sua madre non accende mai l’aria condizionata.

    Ma non le dà fastidio. Il giornale della domenica ha la forma di un grosso mattone di carta stampata, le varie sezioni ripiegate a strati l’una sull’altra. Ha dodici anni, quasi tredici, e può stare a leggerlo per ore, mentre Serena è impegnata a esercitarsi al pianoforte. Sfoglia le grandi pagine del giornale appoggiata sui gomiti, la pancia contro il pavimento e le gambe che ciondolano rivolte verso l’alto.

    Mamma le gira attorno e va a lavare i piatti della colazione. Papà legge sempre le pagine economiche, ma sono troppo noiose. Per il corso di attualità del lunedì deve scegliere un articolo dalle prime pagine e parlarne in classe. Una volta ha ritagliato un

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