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Odioamore
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E-book328 pagine3 ore

Odioamore

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Info su questo ebook

Dall'autrice bestseller del New York Times e Wall Street Journal

Condividere una casa per le vacanze con un coinquilino sexy da morire dovrebbe essere un sogno che diventa realtà, giusto? Non se si tratta di Justin: l’unica persona che io abbia mai amato... E che ora mi odia. Quando mia nonna è morta e mi ha lasciato metà della casa sull’isola di Aquidneck, l’eredità conteneva una trappola: l’altra metà è andata al bambino che lei stessa aveva contribuito ad allevare. Lo stesso che si è trasformato nell’adolescente a cui io sono riuscita a spezzare il cuore anni fa. E che adesso è diventato un uomo dal corpo mozzafiato e una personalità complicata. Non lo vedevo da anni, e ora ci ritroviamo a convivere perché nessuno dei due è disposto a rinunciare alla casa. La cosa peggiore è che non è solo. Ho capito presto che c’è una linea sottile tra amore e odio. Ho potuto guardare attraverso quel sorriso arrogante. Il ragazzino che conoscevo è ancora lì sotto. E anche il nostro legame. Proprio ora che non posso averlo, non l’ho mai desiderato di più. 

A volte, il silenzio fa più rumore di mille parole

«Un romanzo divertente e ben scritto, come solo la Ward è in grado di fare. Stile scorrevole e discorsi che ti fanno sorridere, arrabbiare, gioire e sospirare.»

«WOW, che libro! Un misto di angoscia folle e intensa e la storia d’amore più commovente che si possa immaginare: un ottovolante emotivo con continui cambi di traiettoria che mi hanno tenuta incollata alla pagina. L’ho assolutamente adorato!»
Penelope Ward
È un’autrice bestseller del «New York Times», di «USA Today» e del «Wall Street Journal». È cresciuta a Boston con cinque fratelli più grandi e ha lavorato come giornalista prima di riuscire a realizzare il suo sogno di diventare una scrittrice a tempo pieno. Insieme a Vi Keeland ha firmato il bestseller Bastardo fino in fondo, mentre Odioamore è il suo primo romanzo pubblicato dalla Newton Compton. Vive nel Rhode Island con il marito e due figli.
LinguaItaliano
Data di uscita10 lug 2017
ISBN9788822712554
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    Anteprima del libro

    Odioamore - Penelope Ward

    1723

    Titolo originale: Roomhate

    Copyright © 2016 by Penelope Ward

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Francesca Barbanera

    Prima edizione ebook: agosto 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1255-4

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Penelope Ward

    Odioamore

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Parte seconda. Otto mesi dopo

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Capitolo 1

    Mentre attraversavo la strada in stato confusionale, dopo aver lasciato lo studio dell’avvocato, per poco non finii sotto a una macchina. Per tanti anni, avevo provato con tutta me stessa a non pensarci. In quel momento, invece, non avevo in testa che lui.

    Justin.

    Oh, mio dio.

    Justin.

    La mia mente fu invasa da flashback che lo riguardavano: i capelli biondi, la risata, il suono della sua chitarra, la tristezza profonda e la delusione nei suoi occhi l’ultima volta che c’eravamo visti, nove anni prima.

    Ero convinta che non ci saremmo più incontrati, figuriamoci condividere la proprietà di una casa. Vivere insieme a Justin Banks non era mai stata un’ipotesi da prendere in considerazione, nemmeno per un’estate. Be’, probabilmente non esisteva la benché minima possibilità che Justin Banks accettasse di abitare con me. Ma che ci piacesse o no, ora la casa sulla spiaggia di Newport era nostra. Non mia, né sua, ma nostra. Cinquanta e cinquanta.

    Ma che diavolo è saltato in mente alla nonna?

    Sì, teneva moltissimo a Justin, ma non mi sarei mai aspettata una simile generosità nei suoi confronti. Justin non era nostro parente, ma lei lo aveva sempre considerato come un nipote.

    Presi subito il cellulare e chiamai Tracy. Appena rispose, tirai un sospiro di sollievo.

    «Dove sei?», le chiesi.

    «Nell’East Side, perché?»

    «Possiamo vederci? Ho bisogno di parlare con qualcuno».

    «Va tutto bene?».

    La mia mente si svuotò del tutto per qualche istante, poi tornò a riempirsi di immagini di Justin. Sentii un peso opprimente sul petto. Mi odiava. Lo avevo evitato in ogni modo per tanto tempo, ma ora ero costretta ad affrontarlo.

    La voce di Tracy mi riportò alla realtà. «Amelia? Ci sei?»

    «Sì, va tutto bene, solo che… Dove hai detto che sei?»

    «Vediamoci in quel posto dove fanno i falafel, su Thayer Street. Ceniamo un po’ in anticipo, così mi racconti cosa sta succedendo».

    «Ok, ci vediamo lì tra dieci minuti».

    Io e Tracy non eravamo amiche da molto, perciò sapeva poco della mia infanzia e adolescenza. Era una collega, insegnavamo nella stessa scuola privata di Providence. Quel giorno avevo preso un permesso per andare dall’avvocato di mia nonna.

    L’aria del fast food mediorientale in cui ci incontrammo sapeva di cumino e menta essiccata. Tracy mi salutò con la mano da una panca in un angolo. Davanti a lei c’era già un vassoio di polistirolo pieno di spiedini di pollo ricoperti di tahina.

    «Non prendi niente?», mi chiese con la bocca piena e le labbra sporche di salsa.

    «No, non ho fame. Magari prendo qualcosa quando vado via. Ora ho solo bisogno di parlare».

    «Che diavolo è successo?».

    Avevo la gola secca. «In realtà, credo di dover bere qualcosa prima di iniziare. Aspetta un attimo». Mi alzai per raggiungere il frigo delle bibite e mi parve che tutta la stanza ondeggiasse intorno a me.

    Comprai una bottiglia d’acqua, poi tornai a sedermi e feci un respiro profondo. «Oggi, allo studio dell’avvocato, mi hanno dato una notizia sconvolgente».

    «Ok».«Sai che dovevo andare dall’avvocato perché mia nonna è morta un mese fa».

    «Sì».

    «Be’, abbiamo passato in rassegna tutte le sue proprietà e… è saltato fuori che mi ha lasciato tutti i suoi gioielli e metà della casa delle vacanze di Aquidneck Island».

    «Cosa? Quella bellissima casa della foto sulla tua scrivania?»

    «Sì, proprio quella. Ci andavamo spesso quando ero piccola, ma negli ultimi anni la nonna la affittava. La proprietà appartiene alla nostra famiglia da generazioni. È molto vecchia, ma è splendida e si affaccia proprio sulla spiaggia».

    «Amelia, ma è fantastico! Perché sei così turbata?»

    «Be’… perché ha lasciato l’altra metà a Justin Banks».

    «Chi è Justin Banks?».

    L’unico uomo che abbia mai amato.

    «Io e Justin siamo cresciuti insieme. Mia nonna badava a lui quando i genitori erano al lavoro. Sai, la casa di mia nonna si trovava esattamente tra la mia e quella di Justin».

    «Quindi era come un fratello per te».

    Magari.

    «Siamo stati molto legati per tanti anni».

    «A giudicare dalla tua faccia, ora non è più così».

    «Sì, infatti».

    «Cos’è successo?».

    Raccontare tutta la storia era troppo per me in quel momento. Avevo già tante cose da metabolizzare, perciò decisi di raccontarle la versione breve.

    «In pratica, a un certo punto scoprii che mi nascondeva un segreto e uscii di testa, ma preferisco non scendere nei dettagli. Diciamo solo che all’epoca avevo quindici anni e non ero molto brava a gestire le crisi ormonali e i problemi con mia madre. Da un giorno all’altro decisi di scomparire e andare a vivere con mio padre». Un nodo doloroso mi strinse la gola a quelle parole. «Abbandonai tutto ciò che avevo a Providence e mi trasferii nel New Hampshire».

    Per fortuna, Tracy non insistette per sapere cosa Justin mi avesse tenuto nascosto. Non era quello l’argomento di cui volevo parlare quel giorno. Avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse a capire come procedere, e non di riaprire vecchie ferite.

    «Quindi, anziché affrontare la cosa, sei scappata».

    «Sì, sono scappata dai miei problemi… e da Justin».

    «E non hai più parlato con lui da allora?»

    «Dopo la mia partenza, non ci fu alcun contatto per diversi mesi. Lì per lì, il senso di colpa per la fuga mi impedì di cercarlo, ma, una volta riacquistata un po’ di lucidità, provai a contattarlo per chiedergli scusa. Era troppo tardi. Justin non voleva più vedermi né sentirmi. Non posso certo biasimarlo. È andato avanti con la sua vita, ha iniziato a frequentare un nuovo gruppo di amici e, poco dopo il diploma, si è trasferito a New York. Ci siamo persi completamente di vista ma, a quanto pare, lui è rimasto in contatto con mia nonna. Era come una madre per lui».

    «Sai cosa fa, adesso?»

    «Non ho mai cercato notizie su di lui. Ho troppa paura di scoprire cosa fa».

    «Be’, questo è un problema che va risolto subito». Tracy appoggiò la forchetta e prese il cellulare dalla borsa.

    «Ehi, ehi. Che fai?»

    «Sai che sono una stalker professionista, e me ne vanto», rispose lei, sorridendo. «Lo cerco su Facebook. Hai detto che si chiama Justin Banks, no? E vive a New York?».

    Mi coprii gli occhi con le mani. «Non posso guardare. Non voglio guardare. Ci saranno centinaia di Justin Banks su Facebook. Non lo troverai mai».

    «Che aspetto ha?»

    «L’ultima volta che l’ho visto aveva sedici anni, quindi non credo che ora sia come lo ricordo. Aveva i capelli biondo cenere, comunque».

    Era davvero bello. Ricordo il suo volto come se lo avessi visto ieri. Non potrei mai dimenticarlo.

    Tracy cominciò a leggere ad alta voce le informazioni sui vari Justin Banks trovati su Facebook. Non notai nessuno che catturasse la mia attenzione, finché Tracy non disse: «Justin Banks, New York. Musicista presso Chitarra acustica Appena in tempo».

    Il mio cuore sobbalzò e, inaspettatamente, sentii gli occhi riempirsi di lacrime. Una marea di emozioni riaffiorarono in superficie, destabilizzandomi. Era come se Justin fosse tornato dal regno dei morti. «Cos’hai detto? Dove lavora?»

    «Chitarra acustica Appena in tempo. È lui?».

    Non riuscivo a parlare, perciò restai in silenzio a pensare a quel nome. Era lo stesso che Justin utilizzava quando eravamo piccoli e lui suonava la chitarra sulla strada di casa nostra.

    Appena in tempo.

    «Sì, è lui», confessai infine.

    «Oh, mio dio, Amelia».

    Il cuore iniziò a martellare nel petto. «Cosa?»

    «Questo tipo è…».

    «Cosa? Parla!», gridai, sempre più in ansia, prima di buttare giù il resto dell’acqua.

    «È bellissimo. Da rimanere a bocca aperta».

    Mi coprii il volto, commentando: «Oh, Signore, ti prego, non dirmelo».

    «Guarda».

    «Non posso».

    Ma Tracy, determinata, mi spiattellò il telefono in faccia. Mentre lo prendevo, mi accorsi che mi tremavano le mani.

    Oh, buon dio.

    Ma perché ho guardato quella foto?

    Stando a quell’immagine, Justin era ancora bellissimo, proprio come lo ricordavo, ma allo stesso tempo anche molto diverso. Cresciuto. Nella foto indossava un berretto grigio e aveva la barba incolta (da ragazzino, non riusciva a farsela crescere, nonostante ci provasse in ogni modo). Era chino su una chitarra e davanti a sé aveva un microfono. Sul volto aveva un’espressione così intensa che mi fece venire la pelle d’oca. Provai a curiosare tra le altre foto, ma non ci riuscii perché il profilo era privato.

    Tracy riprese il suo telefono. «È un musicista?»

    «Immagino di sì», risposi.

    Una volta scriveva delle canzoni per me.

    «Proverai a contattarlo?»

    «No».

    «Perché no?»

    «Perché non saprei cosa dirgli. Che le cose vadano come devono andare. Prima o poi sarò costretta a incontrarlo e a parlargli, ma non sarò io a fare il primo passo».

    «Come funziona questa faccenda della comproprietà?»

    «Be’, l’avvocato mi ha dato un mazzo di chiavi e mi ha detto che ne ha spedito uno anche a Justin. Il contratto sarà a nome di entrambi. La nonna ha anche messo da parte una somma di denaro da destinare alla manutenzione della proprietà durante la bassa stagione. Immagino che Justin sia stato messo al corrente della situazione, come me».

    «Non vuoi vendere la casa, vero?»

    «No, neanche per sogno. Ho troppi ricordi lì, e poi la nonna ci teneva tantissimo. La utilizzerò quest’estate e forse poi la affitterò, se lui è d’accordo».

    «Quindi non hai idea di come Justin voglia utilizzare la sua metà della casa? Cosa pensi di fare? Presentarti tra qualche settimana senza sapere se lo troverai in casa o meno?»

    «Sì, esatto».

    «Oh, ci sarà da divertirsi».

    * * *

    Quattordici anni prima

    Il bambino era seduto di fronte la casa della nonna, che quell’estate aveva iniziato a occuparsi di lui. Non potevo farmi vedere nelle condizioni in cui mi trovavo, così lo osservavo da dietro le tende della mia camera. Volevo solo guardarlo senza che lui si accorgesse di me.

    Non sapevo molto sul suo conto. Si chiamava Justin, aveva circa dieci anni, come me (o forse undici) e si era appena trasferito nel Rhode Island da Cincinnati. I suoi genitori erano ricchi; dovevano esserlo per forza visto che avevano comprato la bellissima casa vittoriana accanto a quella della nonna. Lavoravano tutti e due a Providence e pagavano la nonna perché badasse a Justin dopo la scuola.

    Finalmente riuscivo a vedere che aspetto avesse quel bambino: capelli biondo cenere, arruffati, aria intenta sulla chitarra che stava imparando a suonare da solo. Devo essere rimasta almeno un’ora a guardarlo strimpellare, quel giorno.

    Poi, di colpo, mi è scappato uno starnuto. Lui ha girato la testa di scatto verso la mia finestra. I nostri sguardi si sono incontrati per qualche secondo, poi mi sono nascosta in fretta. Avevo il cuore in gola perché si era accorto che lo stavo osservando.

    «Ehi… Dove ti sei nascosta?», lo sentii chiedere ad alta voce.

    Rimasi accovacciata, in silenzio.

    «Amelia, so che sei lì».

    Sapeva il mio nome?

    «Perché ti nascondi da me?».

    Mi alzai lentamente, di spalle alla finestra, e infine risposi: «Ho un occhio pigro».

    «Un occhio pigro? È la stessa cosa dell’occhio lungo?»

    «Cos’è l’occhio lungo?»

    «Non lo so, ma la mamma dice sempre che mio padre ha l’occhio lungo».

    «Occhio pigro significa che sono strabica».

    «Cioè hai gli occhi che si incrociano?», chiese lui, ridendo. «Non ci credo! Troppo forte! Fammi vedere!».

    «Pensi che sia una bella cosa avere un occhio storto?»

    «Sì, a me piacerebbe un sacco! Potrei guardare chi mi pare e nessuno se ne accorgerebbe».

    Stava quasi riuscendo a farmi ridere.

    «Be’, non sono messa così male… ancora».

    «Dài, girati. Voglio vedere».

    «No».

    «Dài, ti prego!».

    Presa da non so quale strano impulso, decisi di voltarmi e farmi vedere. In fondo, non potevo evitarlo per sempre.

    Quando mi girai, lui trasalì. «Cosa hai fatto all’altro occhio?»

    «C’è ancora». Indicai il mio occhio destro. «Solo che porto una benda».

    «Perché l’hai presa color carne? Da qui sembri senza occhio. Per un attimo, me la sono fatta sotto».

    «L’occhio c’è, ma è nascosto sotto la benda. L’oculista dice che devo portarla quattro giorni a settimana. Oggi è il primo giorno. Adesso capisci perché non volevo che mi vedessi?»

    «Non devi vergognarti. Mi sono solo spaventato perché non sapevo cosa aspettarmi. Quindi l’occhio strabico è lì sotto? Voglio vederlo».

    «No, l’occhio coperto è quello buono. Il dottore dice che se non uso quello sano, l’occhio pigro si rafforzerà e si raddrizzerà con il tempo».

    «Ah, capisco. Allora puoi uscire adesso, visto che non devi più nasconderti da me?»

    «No. Non voglio farmi vedere da nessun altro».

    «E cosa farai domani, quando rientreremo a scuola?»

    «Non lo so».

    «Vuoi restare dentro casa tutto il giorno?»

    «Sì, per ora sì».

    Justin non disse nulla, appoggiò la chitarra e filò verso casa sua.

    Pensai di averlo spaventato sul serio, dopotutto.

    Invece, cinque minuti dopo, tornò di corsa al suo posto, di fronte la casa della nonna. Quando alzò lo sguardo verso la mia finestra, lo osservai attentamente. Non potevo credere ai miei occhi (anzi, al mio occhio): si era messo un’enorme benda nera sull’occhio destro. Sembrava un pirata. Si sedette, riprese la chitarra e ricominciò a suonare. Poi, con mia grande sorpresa, iniziò a cantare. La canzone era Brown Eyed Girl (Ragazza dagli occhi marroni), ma lui aveva modificato il testo in ragazza con un occhio solo. In quel momento capii che Justin Banks era tanto pazzo quanto adorabile.

    Finita la canzone, tirò fuori un evidenziatore dalla tasca.

    «Colorerò anche la tua benda. Dài, esci», mi disse.

    Una sensazione di calore sconosciuta mi riempì il cuore. A ripensarci ora, probabilmente fu quello l’istante esatto in cui Justin Banks divenne il mio migliore amico. Fu anche il giorno in cui mi affibbiò il soprannome che mi avrebbe accompagnato per tutta l’adolescenza: Benda.

    Capitolo 2

    Sì, era proprio la quiete prima della tempesta, solo che io ancora non lo sapevo.

    La proprietà era in buono stato perché Cheri, la vicina, che era anche una grande amica della nonna, se n’era presa cura. Dopo due settimane in casa della nonna (anzi, in casa mia) mi ero quasi convinta che la pace e la tranquillità sarebbero durate a lungo. Non avevo avuto notizie di Justin, né di nessun altro. Ero sola, con i miei libri, a godermi l’inizio dell’estate nell’aria salata dell’oceano che circondava l’isola.

    In vita mia, non avevo mai apprezzato così tanto quel genere di quiete. Poco più di un mese prima, tutto il mio mondo era andato in pezzi. Non solo era morta la nonna, ma avevo scoperto che Adam, il mio ragazzo da ben due anni, mi tradiva. La sera in cui lo smascherai, avevamo appena fatto sesso e Adam era andato in bagno per buttare il preservativo e farsi la doccia. Aveva lasciato il cellulare sul comodino e così vidi i messaggi di una certa Ashlyn. Di solito Adam portava il telefono con sé ovunque, perfino in bagno, ma quella sera se lo dimenticò. Più tardi, cercai quella puttana su Facebook e scoprii che il suo profilo era pieno di foto insieme al mio ragazzo. Negli ultimi sei mesi, avevo percepito che c’era qualcosa di strano in lui e quella fu la conferma definitiva del tradimento. Poco prima di partire per la casa sulla spiaggia, scoprii anche che Adam si era trasferito a Boston per andare a vivere con lei.

    In poche parole, quello era un periodo di grandi cambiamenti. Avevo ventiquattro anni, ero single e stavo cominciando una nuova vita a Newport per l’estate. Grazie al mio lavoro di insegnante, a Providence, avevo tutte le estati libere. Speravo di trovare un’occupazione temporanea per guadagnare un po’ di soldi, ma per il momento volevo godermi qualche settimana di puro relax.

    Iniziavo la giornata con un buon caffè nella terrazza che si affacciava su Easton’s Beach. Ascoltavo i gabbiani, bighellonavo su Facebook, sfogliavo qualche rivista oppure me ne stavo in silenzio a pensare, poi mi facevo un bel bagno al piano di sopra, in tutta calma. Infine, mi vestivo e davo inizio alla giornata, che voleva dire sdraiarmi sul divano con un libro.

    A metà pomeriggio, preparavo il pranzo e mangiavo in terrazza. Prima che facesse buio, raggiungevo in auto Thames Street, a Newport, e facevo un giro per i negozi, ammirando oggetti di vetro soffiato, gioielli e dipinti a tema marino, poi mi gustavo un bel gelato o un caffè.

    Spesso, nel tardo pomeriggio, raggiungevo il molo e compravo un’aragosta o le vongole appena pescate. Una volta a casa, le cuocevo al vapore in cortile, poi mi sedevo e cenavo con una bottiglia di ottimo vino bianco, godendomi il tramonto sull’Atlantico.

    Questa sì che è vita.

    La mia routine quotidiana rimase inalterata per due settimane, finché non venni brutalmente riportata alla dura realtà.

    * * *

    Una sera, di ritorno dal centro di Newport con la mia solita busta di pesce, notai che la porta di casa era spalancata. Mi ero forse dimenticata di chiuderla? Era stata una folata di vento?

    Entrai in cucina con il cuore in gola e trovai una ragazza alta, tutta gambe, con un caschetto corto biondo platino. Sembrava una Mia Farrow giovanissima. Stava riempiendo gli scaffali della cucina come se niente fosse.

    Mi schiarii la voce. «Salve».

    Lei si voltò, poi appoggiò le mani sul cuore. «Oh, mio dio, mi hai spaventato». Si avvicinò sorridendo, con la mano tesa. «Ciao, io sono Jade».

    Con quel bel volto e quel taglio di capelli perfetto, Jade poteva spacciarsi con facilità per una modella. Fisicamente, io ero il suo opposto: capelli lunghi e scuri e fisico formoso.

    «Ciao, io sono Amelia. Chi sei?»

    «Sono la ragazza di Justin».

    Sentii il cuore sprofondare nel petto. «Ah, capisco. Dov’è lui?»

    «È andato a fare la spesa».

    «Da quanto siete qui?»

    «Pochissimo, siamo arrivati da un’ora».

    «E quanto rimarrete?»

    «Non lo sappiamo. Vedremo dove ci porterà l’estate. Non ci aspettavamo questa notizia. Sai, la casa».

    «Sì. Neanche io». Notai che Jade aveva la french perfino alle unghie dei piedi. «Che lavoro fai?»

    «Sono un’attrice, lavoro a Broadway. In realtà, al momento non sto lavorando, ma probabilmente tornerò spesso a New York per dei provini. E tu cosa fai?»

    «Insegno alle scuole medie, quindi sono libera per tutta l’estate».

    «Wow, fantastico».

    «Sì, non è male. E Justin dove lavora?»

    «Al momento da casa. Vende software, perciò può lavorare ovunque. Spesso si esibisce anche. Sai che è un musicista, no?»

    «In realtà non so quasi niente di lui, ormai».

    «Se non sono indiscreta, posso sapere cos’è successo tra di voi?»

    «Non ti ha mai parlato di me?»

    «Mi ha detto solo che siete cresciuti insieme e che sei la nipote di Mrs H. A dire il vero, non ti aveva mai nominata prima di ricevere quella lettera dall’avvocato».

    Anche se me lo aspettavo, saperlo mi rattristò. «La cosa non mi sorprende».

    «Perché dici così?»

    «È una storia lunga».

    «Siete stati insieme?»

    «No, eravamo solo buoni amici, ma ci siamo persi di vista quando io mi sono trasferita».

    «Capisco. È un po’ strano, non credi? Insomma, ereditare una casa così, di punto in bianco».«Be’, mia nonna era molto generosa e gli voleva un gran bene. Mia madre è figlia unica e nonna amava Justin come un figlio, perciò…».

    «Come mai tua nonna ha lasciato la casa a te e non a tua madre?»

    «Negli ultimi anni, la mamma e la nonna hanno avuto dei problemi. Per fortuna, hanno ricucito i rapporti prima che la nonna morisse, ma le cose tra loro non sono più state le stesse».

    «Mi dispiace».

    «Grazie».

    Jade mi diede un abbraccio amichevole. «Be’, vorrei tanto che diventassimo amiche. Sarebbe carino poter fare shopping e girare per l’isola con una ragazza».

    «Sì, sono d’accordo».

    «Ceni con noi, stasera?».

    Non ero ancora pronta a rivederlo. Dovevo assolutamente inventarmi una scusa e andare via da quella casa.

    «Purtroppo stasera non posso, anzi ora devo andare».«Sei ancora brava in questo, vedo», si intromise una presenza dalla voce profonda che faticai a riconoscere.

    «A fare cosa?», chiesi, deglutendo nervosamente e rifiutandomi di voltarmi verso di lui.

    «A scappare», rispose la persona dietro quella voce. «È sempre stata la tua specialità».

    Avevo il respiro affannato, ma quando mi voltai rimasi senza fiato.

    Porca puttana.

    Capitolo 3

    Mi ritrovai di fronte Justin: era come se il ragazzo che conoscevo fosse stato inghiottito da una massa di muscoli tonici. Era molto diverso da come lo ricordavo. Sul suo volto si leggeva chiaramente la rabbia che provava nei miei confronti e, chissà come, quell’espressione riusciva a renderlo ancora più bello. Solo, avrei preferito che quel rancore fosse diretto a qualcun altro e non a me.

    La sua pelle aveva una splendida tonalità bronzea, perfetta con le sfumature naturali che schiarivano i capelli biondo scuro. Il viso liscio che ricordavo ora era scurito dalla barba incolta. Intorno al braccio aveva tatuata una corda con del filo spinato; indossava un paio di pantaloni corti mimetici e una maglietta bianca che aderiva al petto muscoloso.

    Non so per quanto tempo rimasi a fissarlo. Anche se ero troppo sconvolta per parlare, il mio cuore stava gridando. Dentro di me, sapevo che quella reazione non era dovuta solo all’attrazione fisica, ma anche al fatto che, nonostante il cambiamento, una cosa era rimasta identica ad allora: i suoi occhi. Nel suo sguardo, lessi lo stesso dolore dell’ultima volta che ci eravamo visti.

    Finalmente riuscii a pronunciare il suo nome. «Justin».

    «Amelia». Il suono profondo e intenso della sua voce mi attraversò come un’onda vibrante.

    «Non sapevo se ti saresti mai presentato qui».

    «E perché non avrei dovuto?», chiese lui in tono sprezzante.

    «Be’, credevo che preferissi evitarmi».

    «Non darti troppa importanza. Certo che sono venuto, questa casa è mia per metà».

    Le sue parole mi ferirono. «Non ho detto che non lo sia, ma solo che… non ho avuto tue notizie».

    «Ragionamento curioso».

    Chiaramente imbarazzata dal nostro battibecco, Jade si schiarì la voce. «Ho chiesto ad Amelia se

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