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L'Africa vera e selvaggia
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L'Africa vera e selvaggia
E-book194 pagine2 ore

L'Africa vera e selvaggia

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Italiano di origine, ma vissuto principalmente in Sudafrica, dove si realizza in Architettura e Scultura. Ritorna in Italia nel 2011 e si stabilisce sui Monti Sibillini. Qui sarà sfollato dal terremoto del 2016. Dopo varie vicissitudini, si ferma ad Urbino, dove si inserisce bene nel settore artistico. Nel febbraio 2019, preso dal ‘Mal d’Africa’ decide di fare una vacanza diversa andando per alcune settimane in una riserva naturale in Sudafrica, dove svolge volontariato nella conservazione della fauna Africana. A seguito di ciò, decide di descrivere questo periodo anche per incoraggiare gli altri a impegnarsi in un turismo diverso, per quanto riguarda la conservazione della fauna e flora Africana, senza trascurare tutti i vari aspetti della condivisione con gli altri nella foresta.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mag 2020
ISBN9788831670333
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    Anteprima del libro

    L'Africa vera e selvaggia - Severino Braccialarghe

    con­ti­nen­te.

    Note dell’autore:

    Spe­ro di aver con­tri­bui­to, in un cer­to mo­do, a ri­chia­ma­re una par­ti­co­la­re at­ten­zio­ne per quei luo­ghi in­con­ta­mi­na­ti e fuo­ri da ogni con­te­sto che deb­bo­no es­se­re vis­su­ti co­sì co­me so­no.   

    De­scri­ve­re co­sa si pro­va real­men­te al con­tat­to di­ret­to, fuo­ri dal caos quo­ti­dia­no, è quel­lo che ho cer­ca­to di fa­re con la spe­ran­za di at­trar­re un va­sto pub­bli­co ad ama­re la na­tu­ra Afri­ca­na co­sì com’è.

    Espe­rien­ze del ge­ne­re van­no vis­su­te nel mi­glio­re dei mo­di, an­che se a con­tat­to con estra­nei non sem­pre si può es­se­re for­tu­na­ti, per­ciò il mio con­si­glio sa­reb­be quel­lo di an­da­re in quei luo­ghi in pic­co­li grup­pi af­fia­ta­ti per non tro­var­si di fron­te a pro­ble­mi di con­vi­ven­za co­me è ca­pi­ta­to a me, che mi re­pu­to un ti­po mol­to so­cie­vo­le ma an­che con una for­te per­so­na­li­tà. Que­sto pur­trop­po è sta­to il pro­ble­ma più se­rio che ho do­vu­to af­fron­ta­re.

    In tan­ti an­ni vis­su­ti in Afri­ca, do­ve ho vi­si­ta­to le mag­gio­ri Ga­me Re­ser­ves del Su­da­fri­ca, Mo­zam­bi­co, Zim­ba­b­we, Tan­za­nia, Ma­la­wi, Ke­nya, Ruan­da e Con­go, non ho mai avu­to la pos­si­bi­li­tà di es­se­re co­sì vi­ci­no al­la na­tu­ra sel­vag­gia e a tut­ti quei ma­gni­fi­ci esem­pla­ri che vi­vo­no nel­le gran­di ri­ser­ve na­tu­ra­li co­me a Tem­be, per­ciò mal­gra­do tut­to, que­sta espe­rien­za ha su­pe­ra­to tut­te le al­tre.

    Il mio au­gu­rio è di po­ter sti­mo­la­re il pub­bli­co nor­ma­le a po­ter­si av­vi­ci­na­re in que­sti luo­ghi ma­gni­fi­ci, che al­tri­men­ti so­lo i ric­chi pri­vi­le­gia­ti han­no la pos­si­bi­li­tà di far­lo con tut­to il lus­so ed il com­fort di og­gi.

    PS: Le in­for­ma­zio­ni ri­por­ta­te sul­la na­tu­ra ed il com­por­ta­men­to del­la fau­na sel­vag­gia di Tem­be, so­no quel­le for­ni­te dai ri­cer­ca­to­ri spe­cia­liz­za­ti che mi han­no ac­com­pa­gna­to nel­le va­rie escur­sio­ni del par­co, e del­le qua­li ho la mas­si­ma fi­du­cia nel­la sua esat­tez­za.

    IN­TRO­DU­ZIO­NE

    L’In­ver­no que­st’an­no ci col­se all’im­prov­vi­so, quan­do cre­de­va­mo che il cli­ma mi­te au­tun­na­le per­si­stes­se an­co­ra per un po’. So­no an­ni che nel me­se di Ot­to­bre si pos­so­no go­de­re gior­na­te bel­lis­si­me e so­la­te, co­sì sem­bra che le sta­gio­ni si sia­no ri­dot­te al cal­do estre­mo esti­vo ed al fred­do ge­li­do in­ver­na­le, co­me che la pri­ma­ve­ra e l’au­tun­no sia­no qua­si scom­par­se dal ci­clo del­le sta­gio­ni. So­no con­vin­to che ora­mai l’area me­di­ter­ra­nea si stia tra­sfor­man­do in cli­ma tro­pi­ca­le, con gran­de cal­do che su­pe­ra le me­die sta­gio­na­li an­che quan­do, spe­cial­men­te nei cam­bi di sta­gio­ne, in pri­ma­ve­ra ed in au­tun­no.

    In­fat­ti, a me­tà Ot­to­bre cad­de la pri­ma ne­ve e con sor­pre­sa le pri­me ge­la­te. Scuo­le chiu­se, at­ti­vi­tà a ri­len­to e le so­li­te in­com­ben­ze del­la sta­gio­ne fred­da. Il tut­to la­scia­va pre­sa­gi­re una sta­gio­ne dif­fi­ci­le da su­pe­ra­re, co­me du­ran­te tut­to l’in­ver­no. Ol­tre al­le dif­fi­col­tà ne­gli spo­sta­men­ti, quan­do con le stra­de ghiac­cia­te pre­fe­ri­sco la­scia­re l’au­to in ga­ra­ge piut­to­sto che ri­schia­re, cer­co di usa­re il ser­vi­zio pub­bli­co ab­ba­stan­za ef­fi­cien­te al­me­no ad Ur­bi­no.

    Con que­ste pre­mes­se vi­ste le ca­ris­si­me bol­let­te del gas per ri­scal­da­men­to, cir­ca Eu­ro 300 men­si­li, pen­sai che for­se me­ri­ta­va una scap­pa­ta in Afri­ca a go­der­mi il cal­do afri­ca­no. Ave­vo an­che un gran­de bi­so­gno di ri­ge­ne­rar­mi in un am­bien­te a me mol­to fa­mi­lia­re e dal qua­le ero as­sen­te da al­me­no tre an­ni. Mal d'Afri­ca? Di­co­no co­sì e sem­bra che sia pro­prio ve­ro, ma in­ten­dia­mo­ci, una cer­ta par­te d'Afri­ca, quel­la ve­ra e sel­vag­gia, do­ve for­tu­na­ta­men­te la ci­vil­tà mo­der­na non è ar­ri­va­ta e non ar­ri­ve­rà mai, gra­zie al gran­de im­pe­gno di quel­la gen­te che si sa­cri­fi­ca gior­nal­men­te per con­ser­va­re e pre­ser­va­re quel­lo che la na­tu­ra ci ha da­to e che in­ten­do­no la­scia­re co­sì com'è per l'eter­ni­tà.

    Non è sol­tan­to que­stio­ne di sen­si­bi­li­tà, ma l’amo­re che si ma­tu­ra in se stes­si a con­tat­to con la na­tu­ra afri­ca­na, co­sì in­con­ta­mi­na­ta e pie­na di in­si­die: in­ten­dia­mo­ci, è mol­to più pe­ri­co­lo­so an­da­re a pie­di nel­le vie del­la cit­tà che in mez­zo al­la sa­va­na Afri­ca­na!

    L’au­to­stra­da per Ro­ma

    PREPARATIVI PER LA PARTENZA

    No­tai per ca­so su fa­ce­book, un in­ser­to pub­bli­ci­ta­rio di un pro­get­to di vo­lon­ta­ria­to a pa­ga­men­to in ri­ser­ve fau­ni­sti­che del Su­da­fri­ca. Ve­lo­ce­men­te riem­pii il mo­du­lo d’iscri­zio­ne tan­to per cu­rio­si­tà. Si trat­ta­va di tra­scor­re­re dei pe­rio­di di due set­ti­ma­ne cia­scu­no, in va­rie ri­ser­ve del­lo Zu­lu­land, (Su­da­fri­ca) a sud del Mo­zam­bi­co, fa­cen­do ‘vo­lon­ta­ria­to’ per va­ri sco­pi, che com­pren­de­va: la con­ta de­gli ani­ma­li, il mo­ni­to­rag­gio di al­cu­ne spe­cie e tut­ti i va­ri ser­vi­zi an­nes­si, in­clu­so quel­lo di po­si­zio­na­re e con­trol­la­re le fo­to­ca­me­re per il pas­sag­gio de­gli ani­ma­li.

    Ogni ri­ser­va ave­va il suo pro­gram­ma, si­mi­le ma di­ver­so uno dall’al­tro. L’ini­zia­ti­va cu­ra­ta da un con­sor­zio di pri­va­ti e ba­sa­ta mag­gior­men­te su do­na­zio­ni, vol­ge­va a da­re un con­tri­bu­to al­la con­ser­va­zio­ne del­la fau­na sel­va­ti­ca, di ap­pog­gio al­la di­re­zio­ne na­zio­na­le dei par­chi di pro­prie­tà sta­ta­le.

    I par­chi stes­si met­te­va­no a di­spo­si­zio­ne de­gli al­log­gi mo­de­sti, con cu­ci­na e ba­gni in co­mu­ne, mol­to spar­ta­ni, ed im­mer­si nei va­ri par­chi na­zio­na­li. Con­si­de­ra­to il co­sto ra­gio­ne­vo­le, e la pos­si­bi­li­tà di tra­scor­re­re un pe­rio­do nel­le ri­ser­va tan­to am­bi­ta, non co­me tu­ri­sta ma ben­sì co­me sup­por­to al­la con­ser­va­zio­ne, pen­sai di po­ter pro­va­re. An­che se mal­gra­do lo spi­ri­to di av­ven­tu­ra fos­se an­co­ra vi­vo in me, non avrei avu­to più l’età per far­lo. Con mia sor­pre­sa ac­cet­ta­ro­no im­me­dia­ta­men­te la mia ri­chie­sta. Non ci pen­sai più di tan­to: l’idea di an­da­re in Afri­ca ri­sve­glia­va il mio spi­ri­to di av­ven­tu­ra.

    Mi re­cai co­sì, sen­za pen­sar­ci due vol­te, all’agen­zia viag­gi che mi pro­cu­rò, ad un prez­zo mo­di­co, una par­ten­za nel gi­ro di po­chi gior­ni per Jo­han­ne­sburg, con un vo­lo ‘Ethio­pian Air­li­nes’ con sca­lo ad Adis Abe­ba.

    De­ci­si di tra­scor­re­re due set­ti­ma­ne cia­scu­no in due par­chi ben di­stin­ti: il pri­mo TEM­BE Ele­phant Park, al con­fi­ne col Mo­zam­bi­co, ed al­tre due set­ti­ma­ne ad ITHA­LA, al con­fi­ne con lo Swa­zi­land, che an­ni pri­ma ave­vo già vi­si­ta­to. Non eb­bi nean­che il mo­do di ec­ci­tar­mi per il po­co tem­po che mi ri­ma­ne­va pri­ma del­la par­ten­za, co­sì ap­pros­si­ma­ti­va­men­te cer­cai di or­ga­niz­zar­mi.

    Mi sa­reb­be­ro ser­vi­te mol­te co­se da por­ta­re pre­ve­den­do l’ab­bi­glia­men­to da sa­fa­ri, il cal­do e la piog­gia, mac­chi­na fo­to­gra­fi­ca ecc. per­ciò riu­scii so­lo a ri­me­dia­re un im­per­mea­bi­le di pla­sti­ca dai ci­ne­si sot­to ca­sa per la piog­gia, con­si­de­ra­to che il tra­spor­to al par­co era su un Jeep aper­to.

    Pen­sa­vo pu­re che, es­sen­do iso­la­to per tut­to quel tem­po, avrei do­vu­to sca­ri­ca­re dei film o mu­si­ca per rom­pe­re la mo­no­to­nia che si sa­reb­be crea­ta in un po­sto fuo­ri dal mon­do. Pur­trop­po non mi riu­scii di far­lo, e più tar­di mi ac­cor­si che que­sto fu un gra­ve er­ro­re.

    Pas­sai dal me­di­co per far­mi pre­scri­ve­re del­le me­di­ci­ne in ca­so di qual­che pro­ble­ma. Per l’an­ti­ma­la­ri­ca non c’era tem­po, co­sì re­sta­vo sco­per­to. Per il re­sto fe­ci be­nis­si­mo per­ché mi ri­tro­vai a do­ver usa­re an­ti­bio­ti­ci. A di­re il ve­ro pre­si que­sto viag­gio al­la leg­ge­ra, nel sen­so che non mi re­si con­to di do­ver spen­de­re un me­se iso­la­to nel­la fo­re­sta del­la ri­ser­va in mez­zo al nul­la e lon­ta­no dal­la ci­vil­tà. Mal­gra­do fos­si pra­ti­co dei luo­ghi, non pre­stai mol­ta at­ten­zio­ne ad una buo­na or­ga­niz­za­zio­ne: ero trop­po pre­so dal­la nuo­va av­ven­tu­ra per pen­sa­re ai det­ta­gli, per­ciò la pre­si co­me una va­can­za nor­ma­le in afri­ca. Mi ri­tro­vai co­sì sprov­vi­sto di mol­te co­se che sa­reb­be­ro sta­te uti­li, ol­tre il man­ca­to ap­prov­vi­gio­na­men­to ali­men­ta­re e qual­co­sa per fer­ma­re la se­te: que­sta fu una mia leg­ge­rez­za!

    In vo­lo per l’Afri­ca

    SI PARTE PER IL SUDAFRICA

    Era pre­sto ar­ri­va­to il 10 Feb­bra­io, da­ta del­la par­ten­za. Al­quan­to ec­ci­ta­to, mi di­res­si in mac­chi­na di pri­mo mat­ti­no ver­so il Fer­ma­no, do­ve avrei do­vu­to pren­de­re un au­to­bus che mi avreb­be por­ta­to di­ret­ta­men­te a Fiu­mi­ci­no.

    Ar­ri­va­to a Fer­mo do­po due ore di viag­gio, mi mi­si in cer­ca del­la sta­zio­ne au­to­bus: nes­su­no sa­pe­va dov’era. Il na­vi­ga­to­re dell’au­to co­me al so­li­to non in­di­ca be­ne la de­sti­na­zio­ne, il Goo­gle map sul te­le­fo­ni­no era an­co­ra peg­gio, co­si an­dan­do avan­ti e in­die­tro per il pae­se, in­tra­vi­di il gran­de au­to­bus ver­de par­cheg­gia­to in pro­cin­to di par­ti­re per Ro­ma.

    Par­cheg­giai l’au­to nel­le vi­ci­nan­ze, e mi pre­ci­pi­tai di cor­sa ver­so l’au­to bus. Non era un buon ini­zio: se aves­si per­du­to la cor­sa, ad­dio va­can­ze afri­ca­ne: e co­sì con tan­ta an­sia ini­ziai il mio viag­gio ver­so l’ae­ro­por­to di Ro­ma.

    La stra­da per Ro­ma era lun­ga, ol­tre cin­que ore di viag­gio se­guen­do la co­sta mar­chi­gia­na, San Be­ne­det­to del Tron­to e poi at­tra­ver­so l’Abruz­zo fi­no a Ro­ma.

    Il pa­no­ra­ma dai fi­ne­stri­ni dell’au­to­bus era fan­ta­sti­co: si scor­ge­va­no le mon­ta­gne in­ne­va­te del Gran Sas­so e la Ma­iel­la, fin­ché spa­ri­ro­no dal­la vi­sta per­ché si en­tra­va in una se­rie di tun­nel che at­tra­ver­sa­va la mon­ta­gna, nell’au­to­stra­da che col­le­ga la co­sta del­le bas­se mar­che con Ro­ma, pas­san­do per l'Aqui­la. Ce ne so­no ad­di­rit­tu­ra due dal­la co­sta: l'al­tra che par­te da Pe­sca­ra, gra­zie ai po­li­ti­ci abruz­ze­si che sfrut­ta­ro­no be­ne il lo­ro po­te­re al go­ver­no per tor­na­re a ca­sa in fret­ta.

    Giun­to al­la sta­zio­ne di Ro­ma Ti­bur­ti­na sem­bra­va es­se­re ar­ri­va­ti in una cit­tà del ter­zo mon­do! Mu­ri im­brat­ta­ti, spor­ci­zia ovun­que, er­bac­ce e de­po­si­ti ve­ri e pro­pri di mon­nez­za!

    Po­ve­ra Ro­ma ca­pi­ta­le del mon­do, la ca­pi­ta­le del­la spor­ci­zia e dell’in­ci­vil­tà, un de­gra­do as­so­lu­to at­tra­ver­san­do quei luo­ghi ric­chi di sto­ria mil­le­na­ria con tut­ti i suoi mo­nu­men­ti ri­dot­ti a non­cu­ran­za, traf­fi­co in­ten­so di­sor­di­na­to e ru­mo­ro­so. Nes­sun ri­spet­to per i luo­ghi che han­no se­gna­to l’ini­zio del­la ci­vil­tà mo­der­na, e tut­to que­sto si de­ve, ol­tra all’in­ci­vil­tà dei cit­ta­di­ni ro­ma­ni che ci abi­ta­no, i tan­ti im­mi­gra­ti ed an­che all’in­ca­pa­ci­tà e la in­com­pe­ten­za del­la nuo­va clas­se po­li­ti­ca nel ge­sti­re il cen­tro del­la cul­tu­ra mon­dia­le.

    Da qui si pro­se­guì pri­ma per Ciam­pi­no e poi Fiu­mi­ci­no lun­go stra­de con traf­fi­co re­so pe­ri­co­lo­so da uten­ti ma­le­du­ca­ti e stra­fot­ten­ti che si cre­do­no di es­se­re i pa­dro­ni del­la stra­da. Di fron­te a que­ste si­tua­zio­ni, gli stra­nie­ri in vi­si­ta ci han­no eti­chet­ta­to co­me il ter­zo mon­do e si fan­no una ri­sa­ti­na al­lo stes­so tem­po, per­ché il tut­to è ri­com­pen­sa­to dal man­giar be­ne: an­zi agli an­glo­sas­so­ni pia­ce il mo­do in cui si so­prav­vi­ve in que­sto caos, pur non in­vi­dian­do­ci!

    Ar­ri­va­ti all’ester­no del ter­mi­nal dell’ae­ro­por­to, ave­vo di­ver­se ore di at­te­sa pri­ma del­la par­ten­za. Una vol­ta orien­ta­to­mi da qua­le par­te sa­rei do­vu­to an­da­re, mi re­cai al pia­no di so­pra do­ve c’era­no dei se­di­li di at­te­sa con at­tor­no ne­go­zi e caf­fet­te­rie, ol­tre che a cer­ca­re un pun­to per ri­ca­ri­ca­re il cel­lu­la­re. Na­tu­ral­men­te bi­so­gna­va fa­re la fi­la per usu­fruir­ne.

    Ad un cer­to pun­to, ar­ri­vò un bar­bo­ne con il suo mi­nu­sco­lo cel­lu­la­re: pro­ba­bil­men­te ne ap­pro­fit­ta­va an­che lui del­la pre­sa per ri­ca­ri­ca­re.

    Do­po ol­tre qua­ran­ta­cin­que an­ni nell’aver per­cor­so la trat­ta Ro­ma Jo­han­ne­sburg, ed aver in pra­ti­ca vo­la­to con tut­te le li­nee ae­ree che por­ta­va­no in Su­da­fri­ca e nel mon­do, mi ri­tro­vo ora a do­ver vo­la­re con una li­nea afri­ca­na, la Ethio­pian Air­li­nes. Sa­reb­be sta­ta tut­ta una sco­per­ta: mi do­man­dai se i pi­lo­ti fos­se­ro eu­ro­pei o me­no. Chis­sà, spe­ria­mo be­ne! Al ban­co­ne dell’im­bar­co, l’agen­te mi ras­si­cu­rò che gli ae­rei era­no nuo­vi e che i pi­lo­ti po­te­va­no an­che es­se­re ita­lia­ni, per­ciò si po­te­va star si­cu­ri. Mah!

    Sfor­tu­na­ta­men­te pe­rò do­po so­lo due set­ti­ma­ne dal mio im­bar­co, un ae­reo di li­nea Boeing 737 Max 8, del­la Ethio­pian Air­li­nes, lo stes­so con cui avrei vo­la­to da Ro­ma ad Adis Abe­ba, cad­de sei mi­nu­ti do­po il de­col­lo schian­tan­do­si con tut­ti i 157 pas­seg­ge­ri. Ero sta­to for­tu­na­to?

    La lun­ga at­te­sa all’ae­ro­por­to di Ro­ma mi fa­ce­va ca­pi­re che i tem­pi in cui viag­gia­vo con pia­ce­re era­no sva­ni­ti. Una gran mas­sa di gen­te co­mu­ne che ora af­fol­la gli ae­ro­por­ti, una vol­ta non esi­ste­va­no.

    Viag­gia­re un tem­po in ae­reo era con­si­de­ra­to un lus­so ed era ac­ces­si­bi­le so­lo a po­chi. Ci si ve­sti­va di tut­to pun­to e di so­li­to si fa­ce­va­no del­le buo­ne co­no­scen­ze a bor­do che ren­de­va­no il viag­gio mol­to pia­ce­vo­le. Ora, la con­cor­ren­za spie­ta­ta del­le com­pa­gnie ae­ree low-co­st han­no co­stret­to quel­le tra­di­zio­na­li ad ab­bas­sa­re il lo­ro stan­dard, di­mi­nuen­do lo spa­zio del se­di­li per au­men­ta­re il nu­me­ro dei pas­seg­ge­ri e li­mi­ta­re il ba­ga­glio nel­la sti­va. Un tem­po si po­te­va­no gu­sta­re in ae­reo dei piat­ti ben pre­pa­ra­ti e sen­za li­mi­ta­zio­ne sul be­re, gior­na­li e ri­vi­ste da leg­ge­re: an­che il li­vel­lo pro­fes­sio­na­le de­gli stewards era di gran lun­ga mi­glio­re. Quel­lo era un tem­po che fù! Og­gi viag­gia­no tut­ti, di qual­sia­si co­lo­re, cre­do e con­di­zio­ne so­cia­le. I nu­me­ro­si vo­li low-co­st fan­no il pie­no con gio­va­ni squat­tri­na­ti che si re­ca­no nel­le cit­tà eu­ro­pee con po­chi Eu­ro; mol­ta gen­te di co­lo­re e asia­ti­ci, ed un gran nu­me­ro di mus­sul­ma­ni. Se ne van­no tut­ti in gi­ro per il mon­do. Que­sta glo­ba­liz­za­zio­ne ha mes­so tut­ti in mo­vi­men­to: ma do­ve caz­zo an­dran­no! Fat­to sta’ che an­che la si­cu­rez­za agli ae­ro­por­ti ha re­so mol­ti di­sa­gi per i pas­seg­ge­ri co­mu­ni ed una gran per­di­ta di tem­po per im­bar­car­si.

    So­sta ob­bli­ga­to­ria a quei so­li due pun­ti di ri­ca­ri­ca del cel­lu­la­re, co­sa og­gi in­di­spen­sa­bi­le ma che scar­seg­gia in tut­ti gli ae­ro­por­ti. Con­si­de­ra­to che il mio ae­reo par­ti­va so­lo al­le 23,30, eb­bi tut­to il tem­po per man­gia­re qual­co­sa.

    Mi re­cai ai pun­ti di ri­sto­ro, ca­ri e con scar­sa qua­li­tà: e di­re che sia­mo in Ita­lia! Bè, mi ac­con­ten­to

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