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Quarant'anni per ricominciare
Quarant'anni per ricominciare
Quarant'anni per ricominciare
E-book196 pagine2 ore

Quarant'anni per ricominciare

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Info su questo ebook

Quante cose si possono dire in una notte intera?
Quante cose possono dirsi quattro amiche che non si vedono da trent'anni?
Lara, Francesca, Anna e Federica sono cresciute insieme nello stesso quartiere.
La vita le ha separate da bambine, ma il loro legame le ha riunite in una notte magica e piena di racconti di amori bellissimi, amori fragili, amori passionali, amori sbagliati.
In poche ore, tutti gli anni che le avevano divise, erano scomparsi in un bicchiere di vino, qualche lacrima e milioni di risate.
LinguaItaliano
Data di uscita22 apr 2020
ISBN9788835815013
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    Anteprima del libro

    Quarant'anni per ricominciare - Patrizia Monari

    Leggerezza

    Introduzione

    Romanzo nato per caso nel 2012 nelle notti successive a una cena fra amiche.

    Finito durante la quarantena 2020.

    "Quella che ho scelto io,

    è un’attività che potrebbe fare chiunque.

    Non ho mai incontrato nessuno che non abbia scritto

    tra i 16 e i 18 anni qualche cosa.

    E qualche cosa anche di molto bello.

    Credo che quindi quasi tutti noi siamo degli artisti.

    Il fatto è che non abbiamo il tempo,

    non abbiamo le condizioni di opportunità,

    per poterlo essere.

    E’ molto difficile, voglio dire,

    che una persona che lavora otto ore al giorno

    a un tornio,

    venga a casa e si metta lì,

    a cercare di comporre una canzone."

    Faber.

    Fabrizio De Andrè.

    Lui, in realtà, era più per il parlare,

    per il confrontarsi che per il cantare o scrivere.

    Si arrabbiava molto quando, alle cene,

    gli veniva chiesto di suonare, strimpellare e cantare,

    eludendo il parlare della situazione del paese,

    degli operai, degli studenti.

    Era dalla parte del popolo, della vita quotidiana.

    Il cantante era rimasto uno di noi; noi, che non ci rimane

    che ascoltarlo strimpellare, suonare, cantare.

    Copertina e impaginazione: Martina Serafini

    Prologo

    Io di anni ne ho quasi quaranta. 1,60 per 57 chili di vita vissuta e a tratti subita.

    I miei lineamenti sono fini: il naso all’insù ma non a punta, gli occhi non piccoli nè grandi, espressivi e scuri, separati da rughe dolci e arroganti al tempo stesso, che ricordano molto quelli dell’Anna Magnani e che mi ricordano ogni giorno il motivo per cui posso passarci un dito al centro.

    Mi dicono spesso che emano profumo di buono, a dire il vero i profumi sono l’unica cosa che nel mobiletto del mio bagno non mancano mai, metto qualche goccia di profumo anche prima di andare a dormire perché mi rilassa. Credo che questa possa essere una di quelle abitudini che riescano a far intuire, agli attenti, una parte del mio carattere: sono abbastanza istintiva, passionale, ‘animale’. Più banalmente potrei dire che non sopporto i cattivi odori e mi attraggono quelli buoni, per tutto; cibi, persone, città, locali. Ma se la si vuole vedere da un punto di vista psicologico mi attraggono le cose pulite, vere e il ‘buon odore’, in realtà lo cerco nelle anime. Sono quasi maniacale in casa, non per l’ordine quotidiano ma per gli odori, da sempre. Ricordo che da bambina riconoscevo cosa aveva cucinato la mamma fin dalle scale, ancor prima di essere entrata in casa. Correvo su, spalancavo la porta e gridavo ciò che si sarebbe mangiato privando mia madre della gratificazione dell’effetto sorpresa. Riconoscevo anche il profumo di persone viste solo poche volte, mi capita spesso anche adesso. Ci sono tre odori in particolare che non riesco a sopportare: l’odore di cipollotti crudi, l’odore di sudore e quello che, dalle mie parti, chiamiamo di cagnuzzo; avete presente quell’odore di cane bagnato e asciugato senza averlo lavato? Oppure quello che lascia sul pavimento uno straccio usato, lasciato ad asciugare e poi reimmerso nell’acqua e riutilizzato? Ecco, quell’odore mi dà il voltastomaco.

    Ancora di più da quando sono diventata mamma.

    E mamma a tempo pieno, adesso, la sono perché disoccupata. Non torno a casa dopo otto ore di lavoro stanca e con il capo chino. Lo vorrei, vorrei star fuori casa 8 ore al giorno e tornare distrutta ma non ho un lavoro e allora, allora racconto la mia storia e quella di 3 amiche.

    Un universo femminile che evolve, cambia, si perde e si ritrova, tramite un social network.

    E poi si racconta.

    Come eravamo

    Erano 30 anni esatti che non ci vedevamo tutte insieme.

    Settembre 1982, Settembre 2012. Un’eternità. Un solo istante, per noi.

    In Via Portorico, la piazzetta che ci accoglieva ogni pomeriggio per farci giocare, era una specie di androne di tre palazzine messe a ferro di cavallo. Potevamo parlarci dai balconi volendo, ma i campi immensi di grano dietro alle nostre case erano troppo invitanti e meno invadenti delle orecchie indiscrete delle vecchie acide nascoste dietro alle tendine delle finestre che davano sulla nostra piazzetta.

    E allora, appena tornate da scuola, un’asse di legno appoggiata in un fosso, tra i campi, era la nostra meta, passavamo pomeriggi interi a saltarci sopra. C’era odore di fango misto ad erba bagnata, profumo di fiori e a volte l’odore del letame. Le nostre giacche a vento d’inverno erano sempre aperte, le mani bollenti e i nasini rossi, simbolo di un’energia esplosiva nonostante un corpicino ancora piccolo e sensibile, erano come targhe su cui vi era scritto dove eravamo state e cosa avevamo fatto per ore.

    D’estate, invece, rimanevamo in canottiera e le zone rosse erano quelle delle gambe nude su cui si vedevano i segni di cadute dalla bicicletta o da quell’asse sottile, leggera e dondolante, su cui cantavamo ritornelli delle canzoncine da hit parade di fine anni ‘70 inizio ‘80 come, Tu sei l’unica donna per me di Alan Sorrenti o Disco Bambina di Heather Parisi. Oppure quelle dei cartoni animati: Remì, Capitan Harlock, Ranaplan e altre trecento circa che conoscevamo tutte a memoria.

    Tutto andava bene fino a che il fosso su cui era appoggiata quell’asse di legno era vuoto, ma se c’era acqua dentro iniziavano i guai.

    Un pomeriggio dovetti cambiarmi gli abiti 4 volte. Alla quarta volta che mi presentai a mia madre bagnata fradicia per esser caduta in quel fosso feci 2 piani di scale con un calcio nel sedere e una scoppola in testa ad ogni gradino, rimasi in punizione tre giorni.

    Alla fine degli anni ‘70, non era ancora periodo di benessere. Si avevano 3/4 cambi per stagione e si doveva fare con quelli. Dovevi rimanere pulita per non mettere in difficoltà la mamma.

    La sera si lavavano calze e mutandine per farle asciugare al sole o sui termosifoni per il giorno dopo. D’inverno era ancora peggio. Si aveva solo un cappottino. Guai a sporcarlo, o dovevi usare quello della mamma più grande di quattro taglie o andare in giro col tuo, ancora bagnato da un veloce e improvvisato lavaggio.

    Mi ricordo che una volta vidi ai piedi delle bambine che giocavano nella strada dietro la nostra, degli stivaletti da pioggia gialli. Erano bellissimi!

    Davanti alla nostra piazzetta c’era un piccolo negozio di scarpe.

    Quegli stivaletti erano in vetrina, belli come il sole in periodo di piogge.

    Li chiesi a mia madre ma mi disse di no.

    Aveva piovuto per 4 giorni e c’erano ancora le pozze d’acqua sotto casa.

    Chiamai mia madre alla finestra, urlando a gran voce. Si affacciò e io stavo saltando, con le uniche scarpe che avevo, dentro alla pozzanghera gridando: Me li comperi gli stivaletti gialli?

    Mia madre mi mandò a scuola, il giorno dopo, con le scarpe ancora bagnate e il pomeriggio, arrivata a casa, tornai in cortile, chiamai mia madre ancora a gran voce, e con i piedi dentro alla pozzanghera, un’altra volta, le urlai: Me li comperi gli stivaletti gialli?

    Mia madre scese, mi portò in negozio e me li comperò.

    Seppi solo anni dopo, che per pagarli ci mise un mese. Stette sulla macchina da cucire per 18 notti, per saldare il debito degli stivaletti gialli. Avevo 7 anni ma ancora oggi non riesco ad usarla come giustificazione ai miei capricci di bambina.

    Però sono ancora testona come allora. Il mio più grande difetto.

    Io ero piccolina, capelli corti, ricci e mori. Ero la classica bambolina di porcellana, assomigliavo a Shirley Temple ma sempre in disordine per colpa della mia esuberanza e della voglia di correre ovunque, anche tra i banchi di scuola. Mia madre riusciva a farmi due codini alti nonostante i nodi aggrovigliati tra i capelli, li tirava e spazzolava tanto da farmi urlare e piangere e i lacci rossi con le ciliegine di legno che chiudevano le piccole code, quando tornavo a casa, era fortunata se me li trovava in tasca. La mia esuberanza era simile a un tornado imprevedibile.

    Non conoscevo il pericolo, anzi, lo sfidavo. Avevo 3 anni quando andammo al mare per la prima volta. Estate, Gabicce, in vacanza con altre coppie di amici dei miei genitori e colleghi di mio padre.

    Sistemammo le valige in albergo prima di mezzogiorno. Ci cambiammo. Prendemmo i bagnasciuga e l’ombrellone e ci dirigemmo in spiaggia. Spiaggia per modo di dire: era un enorme distesa di sassi appuntiti davanti a quel blu infinito che ai bambini illumina gli occhi. I miei genitori non fecero in tempo a posare le cose tra i sassi che non mi videro più. Mio padre girò lo sguardo verso il mare e, sbigottito e terrorizzato, a piedi nudi e con ancora la maglietta e i pantaloncini, corse in acqua per tirarmi a riva per i capelli.

    Da lontano, tutto ciò che vide, era una manina piccola spuntare tra le onde.

    Mi ero lanciata in acqua senza fare il più piccolo dei rumori.

    Da quel giorno, in spiaggia, andavo con un salvagente messo in vita e legato all’ombrellone.

    Dovettero imparare presto che, con me, prevenire era meglio che curare.

    La mia amica del cuore, Francesca, era il mio opposto: castana chiara, bellissimi occhi verdi, magrissima con le guance scavate e un po’ più alta di me. Lei era timida ma sapeva difendersi, se ce ne fosse stato bisogno. Non gliene ho mai dato motivo e davanti a lei, per lei, c’ero sempre io.

    Ero irruente, selvaggia e prepotente ma solo per giuste cause.

    Fin troppo generosa, a dire il vero; passai un periodo in cui, tutti i pomeriggi, appena scesa dal pulmino della scuola, andavo nel negozio di alimentari dei Mighelli per comperare le merendine a tutte le mie amiche, con Estathè annesso, per poi chiuderci dentro al garage della Francesca e giocare a carte facendo uno spuntino. Lasciavo da pagare: Passa mamma.

    Ci mancavano sigarette e birra e avremmo potuto aprire una bisca a tutti gli effetti.

    Ma ad ogni azione corrisponde sempre una reazione: le botte che presi da mia madre quando venne a sapere di avere un conto in sospeso con Mighelli: 32 mila lire. Come dire 350euro adesso.

    Le presi di santa ragione.

    Ero perennemente in punizione. Tranne che per quando combinavo guai dalla Marta.

    La Marta era la signora che abitava al piano di sopra. Aveva due figlie: l’Alessandra e la Nadia.

    L’Alessandra era sempre chiusa in camera sua ad ascoltare Miguel Bosè.

    Mi dovetti far comperare il disco ‘Superman’ per poter entrare nelle sue grazie.

    Era più grande di me, aveva già 15 anni. Viveva in un suo mondo, uno che non capivo.

    Nadia era quasi un’adulta, di anni ne aveva 18, non era mai a casa e se c’era, studiava.

    La Marta, mi trattava come se fossi una delle sue figlie, aveva sempre tempo per me, aveva sempre qualcosa da mangiare o un abbraccio caldo, aveva sempre una giustificazione alle mie marachelle. Mia madre, con lei, ci rimetteva sempre. Io ero la piccola e dolcissima ricciolina, mia mamma era quella che doveva portare pazienza perché è vivace ma intelligente, lasciala fare.

    E a lasciarmi fare, infilai la testa tra la ringhiera del balcone: dovettero chiamare i vigili del fuoco.

    Insomma, una ne pensavo e cento ne facevo. Neanche quando buttai lo stendi panni giù dal balcone schivando la testa della Marta per un pelo, mi sgridò, lo fece mia madre, ma alla Marta glielo dissi!

    Povera mamma. Dovrebbero farla santa. C’era sempre. Mio padre, un po’ meno.

    Invidiavo la Lara, la seconda mia migliore amica che abitava di fronte a me, perché lei aveva sempre suo padre a casa. Non sapevo fosse disoccupato, pensavo stesse a casa perché voleva bene alla Lara più di quanto mio padre ne volesse a me. E allora, spesso, la imitavo.

    Cercavo di assomigliarle perché pensavo che così mio padre, volendomi più bene, sarebbe stato a casa un po’ di più.

    Tutte volevamo sposare i nostri papà. A me sarebbe bastato fosse un po’ più presente.

    Lo avevo tutto per me solo la domenica mattina, quando mi caricava in bicicletta e insieme andavamo a fare la consegna dei giornali agli abbonati de l’Unità.

    Tornata a casa prendevo la mia di bicicletta, e giravo per il quartiere cantando a squarciagola le canzoncine che fischiettavano di solito i vecchi, o quelle imparate a scuola o sentite alla radio.

    Qualche volta i miei genitori mi portavano alle riunioni del partito e, puntualmente, mi addormentavo sopra a tre sedie messe in fila. La mattina non ricordavo mai come ero arrivata nel letto, ma non so perché ricordavo perfettamente che la sera prima litigavano tutti, tranne mio padre.

    Di mio padre ho sempre avuto soggezione. Con lui è impossibile litigare, perché davanti alle liti preferisce defilarsi e cambiare stanza, oppure grugnisce un uhm...si va bhé non ti risponde e tu rimani così, come se al posto di un essere umano avessi un muro. Però dopo qualche giorno, lui arriva e ti trova la soluzione, senza darti spiegazioni. Ti aveva ascoltata, e con i suoi tempi metabolizzato i concetti, le tue convinzioni, ragioni, ideali o stupidaggini che fossero.

    Semplicemente, ti risolve i problemi, in silenzio. Forse è per questo che, ancora oggi, a quasi quarant’anni, non ho ancora trovato un uomo da poter amare e stimare quanto lui.

    Federica. Anche lei abitava in una di quelle tre palazzine di Via Portorico.

    Lei è la terza amica con cui ho condiviso gli anni più belli della mia vita.

    Aveva un fratello fighissimo. Ero piccola ma di vedute molto futuristiche.

    Aveva i capelli lunghi, la moto, e suonava la chitarra. Oggi so che è in Brasile, a far cosa non lo so ma so che fugge, un po’ come vorrei fare io, da sempre, lui ha avuto il coraggio di farlo.

    Rimane fighissimo, ma credo sia più felice sua sorella di lui.

    La Francesca, la Lara, la Federica ed io, eravamo inseparabili.

    Nel bene e nel male, eravamo sempre insieme. Anche quella volta che ci diedero per scomparse.

    Era un sabato pomeriggio di fine estate. Faceva ancora caldo e dopo pranzo decidemmo di allargare i nostri orizzonti. La piazzetta e il campo di grano dietro le nostre spalle ci erano diventati stretti, così partimmo per un’escursione in campagna.

    Arrivammo in fondo a Via Portorico, ci fermammo e dicemmo con la Lara di avvisare i nostri genitori

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