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Mai scudetto fu più meritato
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E-book417 pagine4 ore

Mai scudetto fu più meritato

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Info su questo ebook

La storia della stagione 2000/2001 della grande AS Roma

Prefazione di Damiano Tommasi

2001-2021
Venti anni di un’emozione che non finirà mai

Sono passati vent’anni dall’ultimo scudetto vinto dalla Roma. Eppure, per chi ha vissuto quella stagione calcistica così intensa e indimenticabile, sembra ieri. Non si è estinto il desiderio di ripercorrere ognuna delle partite che hanno portato quella squadra a entrare per sempre nella storia. Dalla lunga, elettrizzante estate che ha preceduto il via al campionato e nella quale c’erano già gli ingredienti per centrare l’obiettivo; passando per tutte le storie nascoste, mai raccontate o dimenticate dietro le 34 giornate di un cammino da record, scandite da speranze, esaltazioni, delusioni, momenti di gioia pura; senza dimenticare la paura, latente e nient’affatto irrazionale, di non farcela: il timore che tutto potesse svanire sul più bello. Fino al trionfo in quel 17 giugno del 2001, sotto un sole accecante. Una festa infinita che ha preso il via nel momento del tradizionale annuncio del radiocronista RAI che pronunciò cinque parole destinate a rimanere scolpite nei cuori dei tifosi giallorossi: «Mai scudetto fu più meritato».
Daniele Giannini
È nato a Roma nel 1973. È giornalista e romanista, non necessariamente in quest’ordine. Curioso osservatore delle persone e alla costante ricerca dell’aspetto meno banale delle cose, divoratore di sport, scrive di calcio dal 2000. Dopo aver lavorato per dieci anni nella redazione di «Il Romanista», nel 2015 ha iniziato a lavorare alla AS Roma. È conduttore di «Roma Radio», redattore e storyteller di «Roma TV».
LinguaItaliano
Data di uscita20 mag 2021
ISBN9788822756114
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    Anteprima del libro

    Mai scudetto fu più meritato - Daniele Giannini

    Prefazione

    di Damiano Tommasi

    Io c’ero

    Celebrare il ventennale di un successo ha il doppio sapore dolce e amaro di un momento incredibile per un’intera città e di un ricordo troppo lontano per non sentirne la mancanza. Oggi parlare di un successo così datato rischia, infatti, di intristire più di quanto non esalti.

    Daniele ripercorre i mesi trascorsi tra l’estate del 2000 e il 17 giugno 2001 come un lungo viaggio in giro per l’Italia. Nei trentaquattro capitoli che rappresentano le trentaquattro giornate di campionato sono raccontati gli esodi di massa dei tifosi giallorossi. Un fiume in piena che col passare delle settimane prendeva sempre più spazio all’interno degli stadi ospitanti, un crescendo ben poco scaramantico e sempre più alimentato da quel desiderio di poter dire: «Io c’ero».

    E «io c’ero» lo posso dire anch’io! È il primo pensiero, infatti, che mi torna alla mente pensando e ripensando, leggendo e rileggendo, emozioni e aneddoti della stagione 2000-01. Non sono sceso in campo solo in un’occasione, l’andata degli ottavi di Coppa Italia contro l’Atalanta all’Olimpico, in cui sono rimasto in panchina per tutti e novanta i minuti, ma c’ero anche quel giorno. In tutte le altre partite ufficiali, quindi, campionato, Coppa Italia e Coppa

    UEFA

    , sono sceso in campo almeno un minuto.

    Basterebbe questo dato per raccontare cosa significhi per me e per la mia carriera da calciatore professionista questo emozionante racconto dettagliato nei fatti e negli umori. Un’annata condita dalla conquista di un titolo che è tappa fondamentale della storia della Roma giallorossa.

    Erano anni complicati per l’ordine pubblico e il susseguirsi di norme sempre più restrittive e repressive nei confronti delle tifoserie più violente condizionava l’accesso agli stadi. Avere il pubblico amico anche in trasferta era spesso una conquista. Il lunedì di Firenze ne è forse l’emblema, come il timore di non giocare l’ultima in casa per i fatti di Napoli o addirittura Roma-Parma col fiato sospeso per un’invasione di campo attesa diciott’anni ma anticipata di una decina di minuti.

    Contenere le emozioni era in quella stagione la vera parola d’ordine, dentro e fuori dal campo. Lo scudetto da scucire faceva salire la rabbia quando i risultati non arrivavano, come dopo Atalanta-Roma di Coppa Italia, o generava eccessiva euforia quando il traguardo era in fondo al rettilineo e sembrava a portata di mano, come in Roma-Bari. Scaramanzie, amuleti e piccole, grandi sliding doors che potevano far svanire o materializzare un tricolore mai così vicino. Ci sono tutti tra le pagine di questo libro. Il pallonetto di Montella in Roma-Milan, il gol di Castromán nel derby di ritorno, l’infortunio di Emerson, Passaportopoli, il nandrolone e le convocazioni delle nazionali. Ogni momento passava per essere definitivo. Cosa sarebbe successo se Van der Sar avesse bloccato il tiro di Hide a Torino? E come sarebbe finita se García-Aranda avesse concesso il rigore ad Anfield Road?

    È forse questo il segreto di quella stagione indimenticabile, la capacità di un gruppo e di una società di gestire le emozioni. A fatica, non senza tensioni, ma con la convinzione che fosse l’anno buono fin dalle prime battute. Credo che simbolicamente la partita di Verona contro l’Hellas sia significativa di come abbiamo vissuto l’intera stagione. Dopo appena quattro minuti un intervento del criticato Antonioli mette la partita in salita. Ecco, la percezione che in quel momento avevamo dal campo era che non fosse successo niente. Eravamo talmente convinti che dovessimo vincere, punto, che il risultato di 1-0 per il Verona non fece altro che caricarci. In altri tempi un colpo a freddo di quel tipo avrebbe generato frenesia o paura di non farcela, avrebbe fatto comparire strani fantasmi o ricordi di tanti, troppi traguardi sfuggiti di mano. Ma quell’anno avevamo ormai in testa un unico pensiero, vincere!

    È per questo che vedo in quella partita il simbolico spirito che ci ha accompagnato fin dal rientro negli spogliatoi dopo Atalanta-Roma di Coppa Italia ed è per questo che sono convinto che il vero capolavoro sportivo di mister Capello non fu tanto nel trasformarci in mezzo al campo, quanto invece nel trasformare la nostra mentalità.

    DAMIANO TOMMASI

    Introduzione

    Travolti da un insolito destino

    In 131 giorni si possono fare tante cose, oppure nessuna. Nei 131 giorni che vanno dal 14 maggio al 22 settembre 2000 la Roma ha vinto e perso almeno tre volte il campionato che sarebbe cominciato di lì a poco. Oddio, poco neanche poi tanto. Perché quella è l’estate (preceduta da una sostanziosa coda di primavera) calcisticamente più lunga che si ricordi. E non è solo una percezione, è un fatto proprio numerico. Colpa, a monte, dell’Europeo di Belgio-Olanda e, a valle, dei Giochi Olimpici di Sydney. Eventi a causa dei quali la serie

    A

    si prende una pausa infinita. Alla Roma del presidente Sensi il compito di riempirla di tutto ciò che serve per vincere uno scudetto che è appena diventato più della prigionia del sogno di cui si liberò Dino Viola col tricolore del 1983. Si è trasformato nella morsa di un incubo da cui risvegliarsi in fretta dopo che il titolo ha preso la strada diretta alla parte sbagliata della Capitale, come conseguenza di quell’inconcepibile splash della Juve nella risaia del Curi di Perugia.

    Quel momento è un punto facile nella linea del tempo per far cominciare questa storia. Facile, ma non necessariamente giusto, certamente non l’unico. Per molti la ferita con la data del 14 maggio impressa sopra è l’evento scatenante. La scintilla che fa infuocare definitivamente un tipo passionale come il presidente Sensi, lo spinge a rompere gli ultimi ormeggi e a tentare il tutto per tutto. Una versione affascinante, quella per cui un grande romanista come lui non ci sta a vedere la sua città tutta (si fa per dire) colorata in quel modo e, senza fare calcoli, getta il cuore oltre l’ostacolo. Forse in parte è anche così, ma in realtà quella scalata al vertice Sensi l’aveva iniziata da tempo e probabilmente l’estate del 2000 sarebbe stata in ogni caso quella della svolta. Da far coincidere con l’anno giubilare, che pone Roma al centro del mondo (quantomeno quello cristiano), e pure con l’ingresso a piazza Affari tramite la quotazione in Borsa, anche quello simbolo del passaggio dal calcio romantico di un tempo a quello moderno e industriale del terzo millennio.

    C’è dunque questo desiderio irrefrenabile di scucire il tricolore dalle maglie sbagliate per metterlo su quelle giuste che può essere sintetizzato da una frase del tipo: «Lo scudetto lo hai vinto nel momento in cui quelli hanno vinto il loro». Per comodità lo chiameremo Fattore 1.

    Poi c’è il Fattore 2, distante appena nove giorni dal primo. Nove giorni nei quali il malumore dei romanisti smette di essere serpeggiante e sfocia malamente la sera dell’addio al calcio di Giuseppe Giannini. Una festa di saluto alla sua gente che il capitano degli anni Novanta ha programmato da tanto tempo. Per l’occasione ha chiamato a raccolta molti dei suoi compagni di squadra in giallorosso e molti di quelli in azzurro. Il programma è semplice: il primo tempo giocato da una parte, il secondo dall’altra. Solo che il destino decide di collocare tutto questo settantadue ore dopo uno scudetto insopportabile e il secondo tempo non ci sarà mai. Per quella rabbiosa invasione di campo con porte divelte e prato fatto a brandelli a rovinare tutto. L’immagine che resta impressa nella mente è quella del Principe Giannini che piange e al microfono quasi singhiozzante dice: «Non doveva finire così, doveva finire con qualcosa di meglio».

    Non riguarda Giannini, ma in effetti qualcosa di meglio sta per arrivare. Di molto meglio. Il presidente Sensi infatti, attraverso l’opera di Franco Baldini, sta per chiudere un’operazione che lo impegna da tanto, non necessariamente legata allo scudetto biancoceleste. Che al massimo può aver avuto l’effetto di accelerare delle trattative già ben avviate ma non concluse. Perché portare via Gabriel Batistuta alla Fiorentina è già un problema di per sé, ma soprattutto c’è da battere la concorrenza di tutti quelli che vogliono prendere il bomber argentino. In prima fila l’Inter, pronta a offrire al giocatore forse anche più della Roma. Ma l’Inter è un punto interrogativo. Non si ha certezza di chi l’allenerà, non si sa che ruolo potrebbe avere Bati, visto che in rosa i nerazzurri hanno già Ronaldo il Fenomeno e Vieri. In più la Fiorentina si è messa di traverso con Moratti e con i suoi uomini, che sono andati a trattare direttamente col giocatore, a differenza della Roma che si è seduta al tavolo con i viola. Sono settimane concitate, le trattative vanno avanti a oltranza. A un certo punto Sensi lancia una specie di ultimatum: o si chiude nel giro di un paio di giorni o lui è pronto a virare su Fernando Morientes. La mossa produce gli effetti sperati e il 23 maggio arriva l’annuncio: Batistuta è della Roma. Eccolo il Fattore 2 che porta al titolo. Anche qui sintetizzato da una frase che è il pensiero di molti: «La Roma ha vinto lo scudetto nel momento in cui ha presentato Batistuta». Che non è pienamente vero neppure quello. In ogni caso il momento in questione è il 6 giugno, quando la Curva Sud dell’Olimpico viene aperta all’ora di pranzo e sotto un sole rovente quasi 15.000 persone sono lì ad applaudire per la prima volta il Re Leone, che si presenta con una giacca grigio chiarissimo, firma e poi calcia un pallone verso i tifosi promettendo di lottare fino alla fine per lo scudetto e per una maglia scelta, perché la Roma è la squadra che più ha creduto in lui. Quella non è l’unica presentazione in grande stile dell’estate. Ce ne sono altre due. Intanto quella del 3 agosto quando, un po’ come successo per Bati, si radunano in curva migliaia di tifosi, stavolta per applaudire gli altri volti nuovi della faraonica campagna acquisti giallorossa. È il giorno di Samuel, preso già da tempo ma solo in quel momento lasciato partire verso l’Italia, è il giorno di Emerson, strappato alle lusinghe di mezza Europa e alle richieste del Bayer Leverkusen. Ci sono Zebina e Guigou, e c’è anche un ritorno, quello di Abel Balbo, la cui opera di convincimento nei confronti dell’amico Batistuta ha influito in modo decisivo nella scelta di Bati di legarsi alla Roma. Il suo ritorno avviene un po’ per quello, un po’ forse anche per richiesta del Re Leone e perché comunque un sostituto con le sue caratteristiche in rosa può servire. Non verrà utilizzato praticamente mai Abel, visto poco da Capello che, secondo le voci in circolazione in quei giorni, avrebbe voluto fortemente George Weah, il quale invece in quella stagione si accaserà al Manchester City. 70 miliardi per Batistuta, un’altra sessantina per Emerson e Samuel. Già solo per loro tre Sensi ha tirato fuori 130 miliardi di lire per candidarsi prepotentemente alla vittoria del titolo e per cambiare drasticamente umore a una tifoseria che il 24 agosto riempie di nuovo l’Olimpico, stavolta per intero (quasi 70.000 i presenti) per l’amichevole con l’

    AEK

    Atene che è anche l’occasione per presentare la rosa al completo. O quasi. In realtà, manca all’appello uno dei pezzi pregiati del mercato di quella estate. Emerson, infatti, non è in campo con i compagni ma desolatamente seduto in tribuna, nascosto sotto al cappellino d’ordinanza che non riesce però a mascherare il pianto del brasiliano, al quale meno di una settimana prima in allenamento il ginocchio ha fatto crac. La sentenza degli esami strumentali è impietosa: rottura del legamento crociato e stop di sei mesi. Una brutta botta, ma la Roma decide di non tornare sul mercato e di resistere senza di lui di fatto per un girone intero. All’inizio del campionato manca ancora una quarantina di giorni. Da riempire con altre cinque amichevoli, con i sessantaquattresimi di Coppa

    UEFA

    , nei quali la Roma rifila complessivamente undici gol a uno al Nova Gorica, e con gli ottavi di finale di Coppa Italia. Anche detti, seppure indirettamente, Fattore 3. L’accoppiamento prevede il doppio confronto contro la neopromossa Atalanta. Nell’andata all’Olimpico arriva un deludente 1-1, del quale in pochi si preoccupano visto che in campo scende una Roma molto poco titolare, senza gli infortunati Emerson, Batistuta (per una infiammazione al tendine rotuleo che, quella sì, tiene in ansia tutti), Di Francesco (che contro il Nova Gorica si è rotto anche lui il crociato) e Zebina. Mancano anche i nazionali Zanetti e Lupatelli più Nakata (tutti a Sydney per i Giochi Olimpici). E in più inizialmente Capello rinuncia pure a Zago e Aldair. Niente allarmismi, dunque, la qualificazione si può prendere al ritorno a Bergamo. Dove invece arriva un clamoroso 4-2 per i nerazzurri. E il

    KO

    riaccende i malumori della piazza, che evidentemente continuavano a covare sotto la cenere. Due giorni dopo l’eliminazione, a Trigoria si presenta un migliaio di tifosi per una contestazione che presto va fuori controllo. Vengono prese di mira e danneggiate le auto di Assunção, Zago, Montella e Poggi. Calci e pugni vengono sferrati verso quella di Cafu a bordo della quale, insieme al giocatore, ci sono i due figli piccoli. Il brasiliano resta scioccato da quanto accaduto e medita di lasciare la Capitale. Alla fine, per evitare guai peggiori, si aprono i cancelli e si permette ai tifosi di entrare ad assistere all’allenamento che si svolge in un clima surreale. Quella protesta dai modi inaccettabili per alcuni avrà un discutibile e non comprovato rapporto di causa-effetto, con la nascita nel gruppo di quella cattiveria e quella voglia di vittoria che alla fine risulterà decisiva. Il cosiddetto Fattore 3. Fattore 1, Fattore 2 e Fattore 3. Come le buste dei quiz di Mike Bongiorno. Qual è quello decisivo? Forse tutti oppure nessuno. Certo è che, dopo un’estate piena zeppa di cose, non sembrano minimamente esserci le condizioni giuste per sperare nello scudetto. Nello spogliatoio c’è freddezza nei confronti del tecnico, che dopo la sconfitta di Bergamo ha scaricato le responsabilità sulla squadra. Dopo un confronto serrato, dagli attriti si passerà a una sorta di patto per puntare al titolo, ma senza alcuna certezza che questo porterà a qualcosa. Perché bisogna comunque fare i conti con una serie di elementi avversi. Ci sono stati due infortuni gravi, c’è il ginocchio di Batistuta che tiene in apprensione, c’è Montella che non ha voluto cedere la maglia numero 9 a Batistuta e pure quello ha creato un po’ di malumore, c’è Samuel che non è ancora neppure lontanamente il muro che diventerà poi. Tutto sta andando per il verso sbagliato. Per non parlare delle rivali, che invece sembrano pronte. C’è la Juve di Ancelotti con una voglia di rivincita infinita dopo il finale del campionato precedente. Ci sono i campioni uscenti che anche solo per il fatto di essere ancora in carica vanno considerati. C’è l’Inter che è un’incognita ma che, se Ronaldo e Vieri trovano la forma giusta, diventerà un pericolo per tutti. C’è il Milan di Ševčenko e non solo lui, c’è il Parma, c’è la Fiorentina. Ci sono insomma le sette sorelle, che forse non sono tutte ugualmente belle, ma che non vedono l’ora di partecipare al grande ricevimento al Palazzo Reale. E al via delle danze del campionato manca solo una settimana…

    Giornata 1

    Un tempo per scacciare le nuvole

    Roma-Bologna – 1° ottobre 2000

    La mattina della prima partita di campionato, Roma si sveglia sotto una pioggia battente. In realtà ci è già andata a dormire con quella pioggia. Segno che l’estate è davvero finita, ma anche motivo di scaramantica preoccupazione, come se quelle nuvole fossero portatrici di cattivi presagi. Vale per alcuni, per i pessimisti. Per altri, invece, quell’acqua sta cadendo per lavare via quel che resta del ricordo di uno scudetto che pochi mesi prima è finito, sempre a causa dell’acqua (al Curi di Perugia), nell’unico posto nel quale non sarebbe dovuto finire.

    Quella stessa mattina da Sydney arrivano, con la cerimonia di chiusura, le ultime immagini di quei Giochi Olimpici che un po’ hanno aiutato ad addolcire l’attesa del campionato e un po’ hanno contribuito a peggiorare la situazione. Perché aspettare fino al 1° ottobre per ritrovare la Roma è stata una cattiveria del calendario e comunque ha richiesto una pazienza enorme.

    Quella pazienza che alla vigilia ha perso persino Fabio Capello. Colpa non della partenza posticipata della serie

    A

    , ma della partenza e basta di Roma Channel, il canale

    TV

    tematico della Roma che ha acceso per la prima volta le sue telecamere alle 12:30 del 27 settembre. Giusto in tempo per il debutto in campionato ma, ancora prima, giusto in tempo per mostrare le immagini dell’allenamento di rifinitura. Per la gioia di tutti tranne uno: Fabio Capello, infuriato per aver concesso questo vantaggio strategico agli avversari.

    Cioè al Bologna di Francesco Guidolin che alla fine sarà decimo e che in organico ha tanti giocatori bravi. C’è l’allora fresco arrivo dall’Argentina, con deviazione in Olanda, Julio El Jardinero Cruz. C’è il meno fresco Luís Lulù Oliveira. C’è Tomas Locatelli, c’è Beppe Signori che in rossoblù è arrivato già da un po’. C’è Gianluca Pagliuca in porta. C’è sulla fascia sinistra di difesa Max Tonetto, che Roma la scoprirà qualche anno più tardi e l’amerà talmente tanto da restarci a vivere, ma per il quale al momento è solo un’avversaria. Anzi, sono due avversarie. Perché tra i tanti grandi record della stagione, ce ne sta anche uno piccolo piccolo: il futuro romanista Tonetto, complice il mercato ancora aperto, giocherà contro la squadra del suo destino ben due volte nel giro di quindici giorni, la prima giornata con la maglia del Bologna e la seconda, dopo la sosta per le nazionali, con quella del Lecce. Quella esperienza di vita lo porterà a raccontare che quando un triestino va a Lecce piange due volte: quando arriva e quando se ne va.

    Come poche altre volte prima, e probabilmente anche dopo, si attende l’annuncio della formazione iniziale. La gente vuole sapere a quali scelte ha portato quel lunghissimo precampionato. Vuole sapere soprattutto, e in questo caso non è questione di scelta ma di necessità, se Gabriel Omar Batistuta potrà giocare la sua prima partita in campionato con la Roma. Tra lui e il debutto, infatti, c’è questo fastidio al tendine rotuleo che spinge molti a non metterlo nell’undici iniziale. E poi ci sono le sue parole di un paio di giorni prima, quando ha chiesto di non esser considerato un salvatore. Come a dire che, se anche non dovesse esserci lui, gli altri dovranno vincere comunque, anche se non sarà facile come nell’ultima partita prima dell’inizio del campionato, con quel 7-0 al Nova Gorica in Coppa

    UEFA

    che ha visto anche la prima rete ufficiale di Batigol. L’urna europea ha già decretato che al turno successivo ci sarà il Boavista, ma a quella partita che si giocherà tra un mese non pensa davvero nessuno. Così come nei giorni che precedono la partita col Bologna non si era pensato al mercato, benché sui giornali si parlasse di interessamenti per giocatori che, da Vieira a Petit, passando per Van Bronckhorst, in giallorosso non arriveranno mai.

    Ore 15 del 1° ottobre. Si va in campo. All’Olimpico ci sono 60.000 persone. Ha smesso di piovere, ma il campo pesante e quelle nuvole grigie che coprono l’azzurro del cielo sembrano appiattire tutto. Pure l’entusiasmo dovuto alla per nulla scontata presenza di Batistuta dall’inizio. Montella va in panchina per quello che si capirà presto essere uno dei tormentoni della stagione. In mezzo al campo, Capello sceglie la quantità di Zanetti che, fino al ritorno ancora lontanissimo di Emerson, sarà il motore della squadra, e accanto ci mette la qualità di Assunção. Ma quel giorno la qualità non sembra avercela nessuno. O almeno nessuno della Roma. Dopo il calcio d’avvio di Totti per Batistuta, che va segnalato per il semplice fatto di essere il primo pallone giocato nell’anno dello scudetto, e dopo il primo tiro che invece è di Delvecchio, la Roma non produce nulla. A differenza di quelli del Bologna, svelti, spigliati, attenti, coraggiosi. Il friccicore dei primi minuti scompare presto. Tra i 60.000 dell’Olimpico comincia a farsi largo una strana sensazione di disagio. Tornano alla mente il campionato precedente e la fresca eliminazione in coppa per mano dell’Atalanta. Si riaffaccia tutta una serie di fantasmi che nel presente hanno la forma del piede ruvido di Renato Olive, il quale non lascia un centimetro a Totti, e il volto indio di Julio Cruz, che invece per due volte ha la possibilità di prendere i sogni e le speranze estive di una intera tifoseria e di gettarle nel cestino. Solo che tra lui e lo sconforto del popolo romanista ci stanno i 187 centimetri silenziosi di Francesco Antonioli da Monza. E se dici Monza dici scuola Milan, da dove infatti è cominciata la sua carriera. Passata poi per Pisa, Reggio Emilia e pure Bologna. Ed è da lì che la Roma lo ha preso senza che i tifosi romanisti, chissà perché, lo abbiano mai amato veramente. Troppo poco personaggio? Troppo poco star? Troppo poco da copertina? Comunque abbastanza per dire al Jardinero Cruz: stop, oggi no che noi abbiamo un lavoro da svolgere. Due mezzi miracoli che tengono a galla la Roma ma che non impediscono alla mezz’ora di far piovere i primi fischi spazientiti. Anche perché nel frattempo le due milanesi vanno in vantaggio mentre la Juve, che ha giocato in anticipo, ha già vinto. Insomma, sembra andare tutto storto dal primo boccone. E invece quella pioggia di fischi è l’ultimo rovescio di quella giornata iniziata con un acquazzone e con una mareggiata a Ostia. Pochi istanti dopo, infatti,

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