Mona
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La peculiare, profondissima, forma d’amore tra Mona, infermiera in un ospedale travolto dalla guerra, e Adam, il giovane soldato che arriva dal fronte con una grave ferita alla gamba, fa qui da collante a grandi temi umani e sociali. La violenza con cui la dittatura e le guerre irrompono nella vita della collettività e del singolo, la condizione della donna, l’infanzia rubata dalla crudeltà degli adulti. Ma anche, più semplicemente, i rapporti che sbiadiscono, le distanze che aumentano, l’adolescenza, col suo carico di strafottenza e apatia che a volte si porta dietro. Nel buio e nella devastazione della guerra, in un ospedale infestato dalla vegetazione della giungla e dalle urla dei pazienti, Mona e Adam trovano un’ancora di salvezza: la parola.
E sono proprio le parole a diventare protagoniste. Quelle che, incise con una calligrafia segreta sulle pareti terrose di uno scantinato-rifugio, salvano Mona bambina dal senso di perdita e solitudine, e quelle che, annotate su un quaderno nascosto sotto il materasso, salvano Mona adolescente dalla desolazione di un collegio-prigione. E infine quelle raccontate al capezzale di Adam, che salvano Mona adulta dalla resa e dall’apatia, restituendole la consapevolezza della donna che è. Con il racconto che ripercorre la storia delle loro vite, i protagonisti si prendono cura di loro stessi e dell’altro. Parole salvifiche. Quelle che Bianca sa scolpire con tanta precisione e premura. Tradurre Bianca Bellová, ormai lo so, è come farsi prendere per mano, con fiducia. Perché lei non si perde mai, va avanti a intagliare fino a condurti alla fine della sua storia. E alla fine, ormai so anche questo, troverò sempre uno spiraglio di luce.
Laura Angeloni
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Anteprima del libro
Mona - Bianca Bellová
Tavola dei Contenuti (TOC)
Mona traduzione di Laura Angeloni
NováVlna
( 9 )
© 2019 Bianca Bellová
© 2019 Miraggi edizioni
via Mazzini 46 – 10123 Torino
www.miraggiedizioni.it
Titolo originale dell’edizione ceca:
Mona (Host, Brno 2019)
Translation of this book was realized with
the support of the Ministry of Culture
of the Czech Republic
Ringraziamo il Ministero della Cultura
della Repubblica Ceca per il sostegno
alla traduzione e alla pubblicazione
Progetto grafico Miraggi
Finito di stampare a Chivasso nel mese di giugno 2020
da A4 Servizi Grafici per conto di Miraggi edizioni
su Carta da Edizioni Avorio – Book Cream 80 gr
e Carta Fedrigoni Woodstok Materica Chalk 180 gr
Prima edizione digitale: giugno 2020
isbn
978-88-3386-133-3
Prima edizione cartacea: giugno 2020
isbn
978-88-3386-131-9
Non sono lunghi i libri di Bianca Bellová, ma ogni volta ti sembra di aver letto un libro di mille pagine, per tutta la vita che hai visto scorrere nel mezzo. È un aspetto che mi ha colpita enormemente da lettrice, e ancora più da traduttrice, perché quando traduci senti il peso di ogni parola sulla pelle.
La peculiare, profondissima, forma d’amore tra Mona, infermiera in un ospedale travolto dalla guerra, e Adam, il giovane soldato che arriva dal fronte con una grave ferita alla gamba, fa qui da collante a grandi temi umani e sociali. La violenza con cui la dittatura e le guerre irrompono nella vita della collettività e del singolo, la condizione della donna, l’infanzia rubata dalla crudeltà degli adulti. Ma anche, più semplicemente, i rapporti che sbiadiscono, le distanze che aumentano, l’adolescenza, col suo carico di strafottenza e apatia che a volte si porta dietro. Nel buio e nella devastazione della guerra, in un ospedale infestato dalla vegetazione della giungla e dalle urla dei pazienti, Mona e Adam trovano un’ancora di salvezza: la parola.
E sono proprio le parole a diventare protagoniste. Quelle che, incise con una calligrafia segreta sulle pareti terrose di uno scantinato-rifugio, salvano Mona bambina dal senso di perdita e solitudine, e quelle che, annotate su un quaderno nascosto sotto il materasso, salvano Mona adolescente dalla desolazione di un collegio-prigione. E infine quelle raccontate al capezzale di Adam, che salvano Mona adulta dalla resa e dall’apatia, restituendole la consapevolezza della donna che è. Con il racconto che ripercorre la storia delle loro vite, i protagonisti si prendono cura di loro stessi e dell’altro. Parole salvifiche. Quelle che Bianca sa scolpire con tanta precisione e premura. Tradurre Bianca Bellová, ormai lo so, è come farsi prendere per mano, con fiducia. Perché lei non si perde mai, va avanti a intagliare fino a condurti alla fine della sua storia. E alla fine, ormai so anche questo, troverò sempre uno spiraglio di luce.
Laura Angeloni
Bianca Bellová (1970) è una delle autrici più affermate della Repubblica Ceca.
Ha esordito nel 2009 con Sentimentální román ( Romanzo sentimentale
), ripubblicato in nuova edizione nel 2019, a cui ha fatto seguito nel 2011 Mrtvý muž ( L’uomo morto
), tradotto in tedesco, e due anni dopo Celý den se nic nestane ( Non succede niente tutto il giorno
).
Nel 2016 arriva il grande successo di critica e di pubblico de Il lago, tradotto in più di 20 lingue (in Italia in questa stessa collana) e vincitore nel 2017 di due importanti premi: il Premio Unione Europea per la Letteratura e il premio nazionale Magnesia Litera.
Mona consacra la sua voce unica e inconfondibile, quella di un’autrice tra le più interessanti nel panorama letterario contemporaneo.
A mio marito
Scena di una tarda primavera
La finestra spalancata – io sto seduto, leggo e sogno
il Libro dei mutamenti. Un paio di rondinelle
volteggiano intorno allo scaffale dei libri
E foglia dopo foglia, come gocce di pioggia,
l’inchiostro gocciola con le corone di petali.
Leggo il Libro dei mutamenti, non penso
a quanto ancora durerà quest’anno la primavera.
Je Li (tradotto dalla versione ceca di Bohumil Mathesius)
Mona traduzione di Laura Angeloni
Sul crinale della collina l’erba ondeggia contro il sole e tra gli steli Mona scorge una silhouette. Sono il dorso e le corna di un bue. Di fianco al bue balzella leggera una figura minuta con un ramoscello in mano, è sorprendente che in quest’arsura qualcuno abbia la forza di saltare, è sorprendente, in quest’afa, l’oscillare degli steli d’erba. Dov’è il vento che li muove? E chi è quella figura che balzella?
Mona si asciuga il sudore sulla fronte con la manica. Un ciuffo di capelli le sfugge sul viso e lo rinfila sotto la cuffia. Sente un brontolio nelle tubature, come il guizzo di un animale. Per il resto tutto tace, neppure un lamento.
Di chi è quella silhouette mossa da tanta gioia e vitalità? La nonna era energica, a settant’anni si arrampicava ancora sugli alberi, anche il corpo esile corrisponde, ma questa figura ha l’energia di un bambino, sì, è proprio lei, Mona, che con la gonna spiovente sui fianchi magri scuote la frusta con gesti smodatamente ampi e sprona il bue a camminare. Il bue si chiamava Mun, o meglio era lei a chiamarlo così quando gli parlava. Mun, ti hanno mai raccontato dei trasportatori di morti? chiese, e roteò eloquentemente gli occhi coprendosi la bocca con la mano. Mun girò piano il muso e i suoi grandi occhi ottusi le dissero che no, dei trasportatori di morti non sapeva niente.
A volte, Mun, accadeva che qualcuno morisse lontano da casa. Lo sai vero, Mun, che è brutto essere sepolti lontano? Il bue abbassò la testa ed era dispiaciuto. Se ti seppelliscono lontano da casa non trovi pace. Non puoi, capisci? Sei un morto inquieto. E così c’erano i trasportatori, che riuscivano a riportare il cadavere a casa grazie alla magia. Potevano volerci anche settimane, dipendeva da quanto era lontano. Quindi l’uomo accompagnava il defunto per tutto il viaggio, andavano pianissimo, da questo li riconoscevi, dal loro passo lento, il trasportatore doveva continuamente richiamare il defunto dal regno dei morti, Mun, ma mi stai ascoltando? Mun annuì, sì che ascoltava, e lei gli diede una pacca sulla nuca. Pernottavano in una locanda e al mattino, prima ancora che sorgesse il sole, erano già di nuovo in viaggio. Il cadavere aveva in testa un grande cappello di paglia e un velo davanti al viso. Sia il trasportatore che il morto erano vestiti di viola. Camminavano lenti e tutti quelli che li incontravano cambiavano strada e i bambini gridavano: Guarda, un morto col cappello! e scappavano nel campo. Sì, anch’io.
Mun spostava lentamente una zampa davanti all’altra e pensava ai trasportatori di morti, Mona gli teneva una mano sul fianco. Era un bravo bue, il migliore ad arare i campi, lavorava per due. Poi Mona lo riportava a casa e intanto gli parlava. Lui la guardava coi suoi occhi ebeti ed era chiaro che non la capiva, ma si sforzava. Quando venne il momento di venderlo Mun si rifiutò di uscire dalla stalla finché non arrivò Mona. Fu lei a portarlo al mercato, e quando si trovò un acquirente piansero entrambi. Mun guardava un punto dietro di lei con quei suoi occhi ottusi. Mona continuò poi a sognarlo per molto tempo, e ogni volta si risvegliava piangendo.
« Un exitus nella stanza grande » la informa l’infermiera del turno di giorno, « il paziente col polmone perforato. Una grave amputazione per cancrena, una rianimazione ».
« Come siamo messi ad analgesici? » chiede Mona, riemergendo a malincuore dal sogno. L’infermiera del turno di giorno si limita a scuotere stancamente la testa. All’altezza dei loro occhi un geco quasi trasparente attraversa cauto la parete.
« Che caldo oggi » dice Mona preventivamente, si sente sempre a disagio quando nessuno parla. L’infermiera diurna annuisce e intanto si sfila pian piano dai capelli le mollette che fissano la cuffia.
¶
Il ragazzo amputato urla, Mona sa già che sarà un turno impegnativo. C’è carenza di oppiacei, bisogna centellinarli. Il medico di turno dorme e non vuole che lo si svegli a meno che non si tratti di una questione di vita o di morte. Ha alle spalle una giornata difficile, ha lavorato in prima linea e senza un po’ di sonno gli sarebbe impossibile curare i feriti. Ma Mona può farcela anche da sola, è piuttosto esperta.
Dà un’occhiata alla targhetta appesa alla spalliera del letto, il ragazzo si chiama Adam. Ha gli zigomi espressivi tipici delle popolazioni di montagna. La ferita trasuda sangue, bisognerebbe cambiare la fasciatura. Il ragazzo geme e guarda nella sua direzione, ma ha gli occhi offuscati dal dolore, è chiaro che non la vede. Il viso è costellato di gocce di sudore. Mona sospira e gli poggia un impacco fresco sulla fronte. Lui allunga una mano verso di lei. Si lascia toccare, le dita del ragazzo inaspettatamente si intrecciano alle sue. Ha la mano bollente, in preda alla febbre.
« Andrà tutto bene, Adam » dice Mona rassicurante.
« Fa malissimo » geme lui.
Mona annuisce, sì, lo sanno tutti lì in ospedale quanto fa male.
« Mi aiuti ».
Come spiegargli che la chiave dell’armadietto, quasi vuoto, in cui sono conservati gli oppiacei, ce l’ha addosso il medico di turno, che in questo momento sta dormendo?
« È una vergogna » dice l’uomo anziano del letto accanto, sollevandosi su un gomito. « Questi ragazzi rischiano la vita, combattono con coraggio anche per te! Perdono una gamba, se non la vita stessa. E tu lo lasci soffrire come una bestia! Vergogna! »
« Faccia silenzio » gli sibila Mona. « Sveglia gli altri pazienti ».
Sotto la cuffia la fronte si corruga. Dal taschino sul petto tira fuori il termometro e lo guarda severa. Poi lo infila con delicatezza sotto l’ascella del ragazzo.
« Acqua » geme lui.
Mona sguscia nella stanza dei medici, un bugigattolo con un tavolino, una sedia traballante e una branda malconcia accostata al muro. Attraverso la finestra socchiusa penetra il profumo dei mandorli in fiore. Il dottor Kamran dorme con la fronte verso la parete e respira rumorosamente. La chiave è sul tavolo, dunque niente di drammatico, Mona la solleva con cautela per non far tintinnare il metallo.
« Che fai, rubi? » barbuglia il dottor Kamran, con la voce ancora impastata dal sonno.
« Mi serve un sedativo per il ragazzo amputato » sospira Mona stancamente, sa già che non la passerà liscia.
Il dottor Kamran le fa cenno con la mano di avvicinarsi, lei avanza piano, lui si alza dalla branda e nella penombra dello stanzino le si incolla dietro come un’ameba. Mona osserva uno scarafaggio che zampetta sul muro, non bada alle mani lascive che le tastano il seno, il ventre e l’inguine. È contenta di non vederlo in faccia, il dottor Kamran, di non vedere il grande callo al centro della sua fronte.
« Sporca ladruncola! Ti insegno io cosa si fa alle ladre! » le grida dietro, ma lei è già fuori e stringe in mano le chiavi con cui aprirà la stanzetta dei medicinali in fondo al corridoio e l’armadietto degli oppiacei.
Appena la morfina si mescola al sangue il ragazzo inarca la schiena, poi si calma e Mona gli tiene la mano finché i suoi occhi non si chiudono. Il paziente vicino alla finestra piange per un sogno. L’uomo del letto accanto si solleva di nuovo sui gomiti e grida: « Hai scopato col dottore, eh, maiala? I ragazzi, che rischiano la vita per te, muoiono, e tu intanto porti un brav’uomo all’inferno! ».
« Ti avevo avvertito » sospira Mona, e spinge l’attaccabrighe nel corridoio, letto compreso. Prima di centrare l’uscita sbatte due volte sulla cornice della porta, e l’uomo