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La teoria della stranezza
La teoria della stranezza
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E-book416 pagine6 ore

La teoria della stranezza

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Info su questo ebook

PREMIO MAGNESA LITERA PROSA 2019
La narratrice Ada Sabová, una giovane ricercatrice dell’Istituto di Antropologia Interdisciplinare, è per molti versi una tipica (ma non stereotipata) intellettuale dei nostri tempi, impegnata nella lotta di conciliare vita personale e carriera. Occupata nel tentativo di dipanare il mistero che si cela dietro alla scomparsa del figlio di una sua collega, comincia a notare intorno a sé degli strani eventi, che intuisce in qualche modo essere interconnessi e governati da una sorta di legge universale e misteriosa. Nel cercare di definirli, elabora una vera e propria “Teoria della Stranezza”, non risparmiandosi dal tirare in ballo teoria dei quanti, gatti di Schrodinger e teoria olografica dell’universo e si arrende alla constatazione che la sola ragione non le basterà a capire la complessità del mondo, e che per essere davvero libera dovrà abbandonare ogni sua sovrastruttura.
LinguaItaliano
Data di uscita14 set 2020
ISBN9788833861562
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    Anteprima del libro

    La teoria della stranezza - Pavla Horáková

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    § 1. Di vie di comunicazione, dislivelli del terreno e crisi di mezza età

    § 2. Di simpatie, sfruttamento del sistema e beni immobili

    § 3. Di sogni, bravi uomini, e determinismo nominativo

    § 4. Di memoria degli edifici, ponti bruciati e fine del mondo

    § 5. Di vecchiaia, craniometria e bambino lupo

    § 6. Di comuni, contatto visivo e cosmetica

    § 7. Di scala delle feci di Bristol, peso della storia e case di campagna

    § 8. Di corpi, anime e Mercato del bestiame

    § 9. Di origini, roccia arenaria e žemlovka5

    § 10. Di sincronicità, materializzazioni e soldati

    § 11. Di pube, sovrani e angeli

    § 12. Di sistema scolastico, talento e letteralità

    § 13. Di aerei da caccia, bombardamenti e maturità

    § 14. Di pessimismi mattutini, pazzia e meccanica quantistica

    § 15. Di esecuzioni capitali, soliloqui e frattali

    § 16. Di divisione del lavoro, vasi comunicanti e business plan

    § 17. Di oracoli, bellezza e olografia

    § 18. Di giostrai, copricapi e finitezza

    § 19. Di Faust, contatti fisici e malattie autoimmuni

    § 20. Di incontinenza, impostori sentimentali e crisi psicospirituali

    § 21. Di bugie, anticoncezionali e anni magri.

    § 22. Di polvere, lacca per mobili e peli

    § 23. Di divieti di fumo, puzza, e coscienza esteriore

    § 24. Di palle di Mozart, lombrichi e predizioni.

    § 25. Di reporter, porte della città e autoecolalia

    § 26. Di torti subiti, alcol e microflora.

    § 27. Di gatti, scienziati britannici e leggi naturali

    § 28. Di amore, registri di presenze e caduta libera

    § 29. Di derealizzazione, vasi da notte e oroscopo lunare

    § 30. Di mezzuomini, genetica e polvere stellare

    § 31. Di entanglement quantistico, salsicce e cura del falò

    § 32. Di transustanziazione, dopamina e peculiarità

    § 33. Di Flaubert, re e spontaneità

    § 34. Di normanni, necrofagi e spazio interstellare

    § 35. Di eterno ritorno, tonsura e complesso di Elettra

    § 36. Di neutrini, eventi paralleli e cani smarriti

    § 37. Del cane di Schrödinger, la scaltra montanara28 e la vasca d’acqua calda

    § 38. Di tè bollente, causalità retroattiva e concepimento

    § 39. Di morte, torti subiti e Magnum Opus

    § 40. Di paguri, fratture comminute e immortalità

    § 41. Di morse che si stringono, redditi passivi e finali aperti

    NováVlna

    ( 11 )

    © Pavla Horáková, 2018

    © 2019 Miraggi edizioni

    via Mazzini 46 – 10123 Torino

    www.miraggiedizioni.it

    Titolo originale dell’edizione ceca:

    Teorie podivnosti (Argo, Praha 2018)

    Translation of this book was realized with

    the support of the Ministry of Culture

    of the Czech Republic

    Ringraziamo il Ministero della Cultura

    della Repubblica Ceca per il sostegno

    alla traduzione e alla pubblicazione

    Progetto grafico Miraggi

    Finito di stampare a Chivasso nel mese di settembre 2020

    da A4 Servizi Grafici per conto di Miraggi edizioni

    su Carta da Edizioni Avorio – Book Cream 80 gr

    e Carta Fedrigoni Woodstok Materica Chalk 180 gr

    Prima edizione digitale: settembre 2020

    isbn

    978-88-3386-156-2

    Prima edizione cartacea: settembre 2020

    isbn

    978-88-3386-155-5

    Pavla Horáková La teoria della stranezza

    traduzione dal ceco di Laura Angeloni

    Quarta di copertina

    Ada Sabová potrebbe essere la protagonista di una serie tv: ha passato i trent’anni, è una giovane ricercatrice universitaria e fa così tanti sogni da riuscire persino a venderli per scopi commerciali. Improvvisamente, però, per lei sembra giunto lo spietato tempo dei bilanci: una serie di rapporti falliti alle spalle, una carriera che non decolla e la bizzarra ricerca che conduce all’Istituto di Antropologia Interdisciplinare le appare senza senso. La situazione di stallo in cui si sente imbrigliata la rende insicura e insoddisfatta, ma una serie di strane circostanze iniziano a pervadere la sua vita, o è forse la sua speciale e acuta percezione a permetterle di notare dettagli che agli altri sono preclusi? Perché i suoi occhi si posano sull’orologio sempre alle 22.23 in punto? Perché ultimamente non fa che soffermarsi su notiziari che parlano di bizzarri eventi che accadono nel distretto montano di Šumperk? Dov’è finito Kaspar, amico d’infanzia e figlio della sua anziana collega Valerie, misteriosamente scomparso anni prima? E soprattutto per quale motivo le capita tanto spesso di pensare a lui, o di sentirne parlare? C’entrano qualcosa la fisica quantistica, il gatto di Schrödinger, i riferimenti a un universo parallelo, e l’ipotesi che la vita sia un videogioco in cui si imbatte sempre più spesso? Tutto, riflessioni, accadimenti, incontri e perfino l’ipotesi dell’amore, pare convergere verso un unico scopo: condurre Ada a uno snodo della sua vita.

    La narrazione in prima persona, con uno stile immediato e vivace, ci catapulta in un romanzo che è fatto di profondità e leggerezza, introspezione e humour, domande e coincidenze, rendendoci partecipi delle evoluzioni di una mente occupata a indagare il mistero e le incognite dell’esistenza. Potrà la sola ragione bastare a comprendere la stranezza del mondo? Servirà a qualcosa riuscire a formularne una Teoria?

    Biografia dell'autrice

    Pavla Horáková (1974) è scrittrice, traduttrice, giornalista letteraria, radiofonica e televisiva. Tra il 2010 e il 2012 ha pubblicato una trilogia poliziesca per ragazzi; tra il 2014 e il 2018 ha lavorato a un progetto radiofonico incentrato sull’esperienza dei soldati cechi al fronte durante la prima guerra mondiale, progetto dal quale sono poi nati due libri. Nel 2018 ha pubblicato insieme ad Alena Scheinostová e Zuzana Dostálová la novella Johana e, sempre nel 2018, il suo primo romanzo, La teoria della stranezza, vincitore nella sezione prosa del prestigioso premio letterario Magnesia Litera (2019).

    § 1. Di vie di comunicazione, dislivelli del terreno e crisi di mezza età

    Abbraccio con lo sguardo i palazzoni secolari davanti a cui da anni passo ogni giorno andando al lavoro. Le facciate, nere in basso e sempre più chiare col salire dei piani, sono la prova che i veleni si concentrano per lo più a ridosso del terreno. Trattengo istintivamente il fiato.

    In questa strada, come in quelle dei dintorni, ormai da anni non vive più nessuno. I locali al pian terreno sono vuoti, quando non ospitano negozi loschi che si avvicendano a una velocità inaudita. Non c’è verde, qui non dura nulla, a parte la sporcizia. E l’Istituto di Antropologia Interdisciplinare.

    Il semaforo comincia a ticchettare a velocità convulsa e scatta il verde. Attraverso lo stradone e mi dirigo verso la porta d’acciaio, è un residuo degli anni Settanta e non si intona affatto alla facciata neorinascimentale. Più mi avvicino, più divento consapevole di quanto mi disgusti. In dieci anni di frequentazione quotidiana, inclusi spesso i week end e le feste, ho accumulato nei confronti dell’edificio e di ciò che rappresenta una profonda avversione. E mi assale soprattutto al mattino, davanti alla porta che sembra appartenere a uno di quei caseggiati della normalizzazione, con la lastra sudicia di vetro armato e la maniglia d’alluminio. In tutti questi anni la mia mano ci avrà scavato un solco.

    Respiro l’ultima boccata d’aria dallo stradone ed entro nell’atrio scuro. Il puzzo all’interno è rimasto immutato negli anni. Si compone di un miscuglio di esalazioni dei tubi di scarico provenienti dall’esterno, muffa, umidità, fumo di sigaretta che impregna il gabbiotto del portiere (se vige il divieto di fumare qui nessuno lo rispetta) e dell’aroma di caffè istantaneo. Lo sfarfallio granuloso dello schermo in bianco e nero del vecchissimo TV portatile Tesla Merkur è stato ormai rimpiazzato dalla luce omogenea di un recente modello.

    Come ogni mattina saluto il portiere, il signor Kožnar, che tutti chiamano Uncino perché ha una mano sola. Lavora qui da talmente tanto che nessuno degli impiegati ne ricorda un altro. Sotto lo sguardo del signor Kožnar l’istituto ha visto avvicendarsi una decina di direttori, ha cambiato nome cinque volte e due volte è stato chiuso e riaperto, con il mutare del clima politico fuori dalle mura dell’edificio.

    Altra costante dell’istituto è Valerie Hauserová, la bibliotecaria. A un primo sguardo non si direbbe che quell’anonima sessantenne col camice bianco di nylon sia la persona più colta e qualificata dell’istituto. La professoressa Hauserová ne è stata infatti per molti anni la direttrice. Poi, prima della scadenza del suo mandato, di punto in bianco si è dimessa. Ha messo un punto a tutte le ricerche in corso, ha distrutto i suoi file e ha trasferito la sua umile persona e i suoi averi personali in un ufficio più piccolo, con una peggiore vista all’esterno e un arredamento più scadente.

    Si è dimessa per ragioni personali. Il suo unico figlio, un ragazzo piuttosto stravagante e molto dotato, era infatti da poco stato dichiarato scomparso. A oggi non è stato ancora ritrovato. Lei non ne parla mai e dopo qualche vano tentativo di incoraggiarla a confidarsi tutti hanno smesso di farle domande. Si presenta al lavoro sempre prima delle sette, quando ancora non c’è nessuno, e alle tre chiude la biblioteca. Ogni tanto gli impiegati danno in escandescenze, visto che il lasso d’apertura coincide ben poco con il loro orario lavorativo, ma finora nessuna protesta ha avuto seguito, non c’è stato alcun cambiamento. A volte al mattino passo da lei, quando sono a corto di forze o motivazione per il mio lavoro.

    « Lo vuoi un tè verde? » mi gracchia con la voce rauca da fumatrice non appena mi vede sulla porta. « L’acqua è ancora calda. »

    Qualcosa non mi torna. Da quando la conosco non ho mai visto Valerie mangiare o bere qualcosa di ascrivibile alla definizione di sana alimentazione. Non ha mai celato il suo disprezzo verso le trovate della nuova era. Consuma enormi quantità di caffè turco, ovvero una brodaglia di acqua bollente mischiata a una polvere di caffè di bassa lega, con due zollette di zucchero. Vedendo la mia espressione confusa mi indica il suo bicchiere fumante, che trabocca di un liquido color pervinca.

    « Acqua bollente e liquore alla menta. Mi sa che sto covando qualcosa. Non dirmi che non l’hai mai provato, Ada. »

    Conoscendo Valerie quella bevanda se l’è appena inventata. Mi torna in mente che oltre alla colazione ho dimenticato anche di lavarmi i denti. Acqua bollente con liquore alla menta, è di certo meglio del dentifricio.

    « Vuoi un po’ di zucchero? » Scrollo la testa. « Vado a fumare una sigaretta in terrazzo, accompagnami. »

    Il suo squallido ufficio ha un accesso al terrazzo della biblioteca. Si affaccia su strada, sedersi lì non è certo un idillio, ma per un’accanita fumatrice come Valerie Hauserová corrisponde praticamente a una vincita al lotto.

    Ci sediamo al tavolino impolverato, scaldandoci le mani intorno al bicchiere pieno di quella bevanda dal colore velenoso. Sotto di noi si trascinano colonne di auto, regolarmente dosate dal semaforo. La peristalsi del traffico. Le macchine procedono in fila da un semaforo all’altro, per poi fermarsi di nuovo. E poi ancora. E come il contenuto intestinale anche le auto producono gas fetidi. Inalare volontariamente altro fumo e rilasciarlo nell’ambiente sembra quasi uno spreco. O forse il contrario: il livello di inquinamento dell’ambiente circostante è così tremendo che inalare qualche sostanza cancerogena in più non dev’essere poi tanto grave.

    « Notizie di Robert? » chiede Valerie subito dopo.

    « Nessuna. »

    « Meglio così » annuisce, per poi precipitare di nuovo nel silenzio.

    Fino a qualche mese fa Robert era la mia cosiddetta relazione seria. L’avevo conosciuto in un momento in cui gli intellettuali, incapaci anche solo di montare uno scaffale, cominciavano a darmi sui nervi. E quindi ero rimasta affascinata da quell’uomo a malapena diplomato, ma così adulto, coi suoi muscoli, la sua azienda, la sua macchina di proprietà, e assolutamente indifferente ai miei due dottorati. Mi ero abituata alla sua mascolinità priva di complicazioni, e mi ero convinta che quella era la vera vita e che soffocando me stessa sarei finalmente diventata una donna adulta e migliore. Mentre lui guardava le trasmissioni sportive io passavo i week end a cucinare prelibatezze dal ricettario della Rettigov e ad asciugare le gocce sul pavimento del bagno, e di notte mi infilavo di nascosto i tappi nelle orecchie per riuscire a dormire nonostante il suo russare. Mi ero abituata, avevo imparato a volergli bene e in un certo senso a contare su di lui. L’ultima volta che l’ho visto stava stampando un documento. Non mi interessava cosa fosse, l’occhio mi ci è caduto per sbaglio. Era un certificato penale immacolato, ed era falso. Di una delle condanne sapevo, e di altri reati e pignoramenti ho saputo poi, dopo che Robert è fuggito. Portandosi via tutto, e non solo ciò che gli apparteneva. Non so in quale paese si stia nascondendo dall’estradizione. I soldi che gli ho prestato e che ha dissennatamente investito in macchine e in chissà cos’altro, non li rivedrò più. E spero di non rivedere più nemmeno lui. In verità sono felice che se ne sia andato. Solo che non riesco a perdonarmi di aver completamente stravolto me stessa per adattarmi a lui e soprattutto alle convenzioni. Di Robert mi sono rimasti solo un paio di fori di tassello e una ferita aperta lì dove risiedeva la fiducia negli altri. Mi piacerebbe un giorno fargli pagare i danni per il pezzo di vita che mi ha sottratto. « Ciò che ti accade ora è solo il prologo per i miracoli a venire » mi ha consolato quel giorno Valerie. Sto ancora aspettando.

    Guardiamo in basso, verso la trafficata via di comunicazione. Macchine, persone, merci, idee, tutto si muove da un luogo all’altro. Quando la comunicazione si interrompe arrivano i guai, mi ha spiegato con parole semplici la mia psicologa incoraggiandomi a parlare dei miei problemi, a comunicare.

    « Poco fa pensavo che in questa strada non dura nulla, a parte la sporcizia. » Indico verso il basso. « Quel minimarket all’angolo, per esempio. Quanti negozi si sono succeduti in quel locale negli ultimi anni? E adesso ha chiuso anche questo. »

    « È come il sistema vascolare, cara. » La professoressa Hauserová inala il fumo. « Quest’arteria è malata, ci scorrono solo elementi tossici, per cui la sua parete si è ostruita. Come se i cristalli di colesterolo ci rimanessero impigliati. E su quei depositi si accumulano poi altre schifezze. Per questo i sexy shop, i banchi di pegni e le bische sono le uniche cose che funzionano nei dintorni. La sporcizia chiama altra sporcizia » conclude, soffiando fuori un’altra boccata di fumo.

    « I locali ambigui sono sempre sulle strade in discesa. Ci hai fatto caso? » continuo. « Per esempio alcune strade sono piene di forni, caffetterie, cartolerie e macellerie, finché sono in pianura, ma appena cominciano a scendere ecco che spuntano i minimarket improvvisati, i bar, i negozi di seconda mano, quelli che noleggiano abiti nuziali e le botteghe di cianfrusaglie. »

    Valerie ci pensa un po’. « Forse è perché alla gente non piace salire e scendere, né ai clienti né ai negozianti. E quindi lì gli affitti sono meno cari. E se apri un’attività in quattro e quattr’otto e vuoi avere un ritorno nel minor tempo possibile è più facile trovare un locale in un posto terribile. »

    « O forse è colpa della forza di gravità » osservo. « La qualità rimane in cima, oppure scivola a valle, e nei dislivelli rimangono avvinghiate solo le cose più viscide e appiccicose, e nemmeno troppo a lungo. »

    Valerie mi dà una pacca sulle spalle.

    « Forse potrei parlarne oggi alla riunione, che ne dici? » le faccio l’occhiolino. « C’è qualcuno qui nell’istituto che si interessa di geografia antropologica locale? Sarebbe una bella materia di ricerca: I fenomeni sociopatologici in rapporto ai dislivelli di terreno degli ambienti urbani ».

    « È un argomento scemo abbastanza per ottenere un finanziamento! », Valerie ride tanto che comincia a tossire. A me non viene da ridere. È già da un po’ che la mia ricerca ristagna e non riesco a darle una svolta.

    « Bene allora. Grazie per il tè verde », mi alzo diretta verso la porta.

    « Di niente, » risponde Valerie, « stammi bene. »

    Quante volte negli ultimi tempi ho sentito queste due parole, o le ho pronunciate io stessa? Esiste un momento concreto nella vita in cui gli amici smettono di salutarsi con un ciao e lo sostituiscono con quello stammi bene ? O sono io che, influenzata dalle emozioni del momento, vedo problemi ovunque? Forse è l’inflazionata crisi della mezza età che comincia a farsi sentire, solo che nel mio caso è arrivata prima che riuscissi ad accumulare le esperienze e il patrimonio generalmente acquisiti in questa fase della vita. Puoi vestirti e comportarti in modo giovanile, posticipare l’età adulta e tutte le responsabilità che comporta, ma il tempo non lo inganni. Nel mio curriculum aumenta solo l’elenco delle perdite.

    § 2. Di simpatie, sfruttamento del sistema e beni immobili

    « Ogni cosa scaturisce dal pensiero » ho scritto questa mattina sul quaderno in cui annoto i sogni. Ho guardato la frase per un po’, poi l’ho sottolineata e l’ho richiuso. In quel momento mi è sembrata un’idea grandiosa. Ero seduta sul letto e strizzando gli occhi ho messo a fuoco la stanza. È vero che tutti gli oggetti che ho intorno sono esistiti prima di tutto nella mia fantasia. Anche il mio appartamento in origine non è stato che un puro oggetto di desiderio. È tutto nato da pensieri, sogni e aspirazioni, e si è materializzato grazie a soldi anch’essi guadagnati col pensiero. Per un attimo mi sono chiesta se l’enunciato fosse frutto della mia testa, o se me ne fossi appropriata leggendolo da qualche parte. Mi sono alzata e ho aperto le tende.

    La vista non ha ancora perso il suo fascino. La fila di case e la cattedrale, tutto perfettamente collocato sulla collina al di là del fiume. Un panorama da francobollo, e da cartolina, che solo pochi hanno la fortuna di ammirare quotidianamente dalla finestra.

    Avevo fame, ma nella cassetta del pane ho trovato solo il sacchetto vuoto. La porta della camera degli ospiti era chiusa. Il che significava che mio fratello se la prendeva comoda dopo i bagordi notturni, e oltretutto prima di coricarsi mi aveva saccheggiato la cucina. Gli permetto di dormire a casa mia quando non ha un tetto sopra la testa. Ovviamente se è un periodo in cui non convivo con qualcuno, come questo. Mio fratello in genere bivacca da me per un paio di settimane, completamente a mie spese, finché non trova di nuovo qualcuno che lo prenda con sé. Sesso, età, nazionalità o status sociale non hanno importanza. Gregor, mio fratello minore, frutto di una passione tardiva o di un anticoncezionale fallito. Grazie a lui i nostri genitori sono riusciti a posticipare l’apice della loro crisi matrimoniale, ma in quegli anni frenetici successivi alla rivoluzione è stato anche un peso, occupati entrambi com’erano con le loro nuove carriere e nevrosi. E quindi è sempre gravitato più che altro intorno a noi sorelle e soprattutto a me, forse perché Sylva, la più grande, vive ormai da tempo all’estero. Nessuno di noi è stato programmato. Potremmo tranquillamente chiamarci Distrazione, Svista ed Errore, forse come la maggior parte dei nostri coetanei. Forse come la maggior parte degli uomini.

    Il cielo autunnale sulla collina di Petřín era limpido, e la luna indietreggiava a ovest, pallida come una mongolfiera schiacciata.

    Un’ora e mezza dopo, il mentolo e l’alcol in gola mi rammentano con insistenza che non ho fatto colazione. Apro l’ufficio con la chiave, lancio la borsa sul davanzale e accendo il computer e la radio. Una voce femminile annuncia:

    Notizie dall’interno: la polizia di Šumperk è alle prese con un insolito caso provocato dalla caduta di un fulmine. Nel corso del temporale che ha colpito nel mese scorso la regione, una scarica elettrica si è abbattuta su una mandria di mucche che riposava sotto un albero, uccidendole tutte. Gli esperti del servizio veterinario hanno dichiarato di non aver mai visto un evento di pari entità. Sotto il tiglio ha trovato la morte una mandria di venti esemplari. L’allevatore ha rilevato un danno di trecentomila corone. Secondo gli esperti la probabilità che un fulmine possa uccidere un’intera mandria è molto bassa, ma possibile. Se le mucche sono strette l’una all’altra la terra bagnata può diventare conduttiva. E ora le notizie sportive…

    Spengo a tentoni la radio, perché intanto lo schermo del computer si è illuminato, gli aggiornamenti finiscono di caricarsi e cominciano ad aprirsi i vari programmi. Al centro del desktop si accende il file dal titolo provvisorio: La percezione soggettiva della compatibilità visiva reciproca .

    La mia tesi di abilitazione. Il tema l’ho scelto io, ma sinceramente non so più che pesci prendere e l’ipotesi mi si sta sgretolando tra le dita. I colleghi più esperti mi avevano consigliato di scegliere un argomento verso cui non nutrissi un interesse personale, per non ritrovarmi troppo coinvolta. Ma io volevo lavorare con scrupolo scientifico a qualcosa che mi appassionasse davvero. In parole povere la mia tesi dovrebbe quantificare il grado di probabilità con cui se uno mi sta simpatico, allora automaticamente io sto simpatica a lui, e viceversa. E questo solo sulla base dei tratti del viso e dell’espressività, prima che chiunque dei due apra la bocca. Un po’ come l’effetto alone, ma non esattamente.

    Fissando l’icona del documento sullo schermo mi chiedo se non sarebbe meglio uscire un attimo a procurarmi qualcosa da mangiare. In quel momento si spalanca la porta ed entra il collega con cui condivido l’ufficio. Non ci si incontra spesso tra colleghi, perché quasi tutti hanno anche altre occupazioni, e in più insegnano all’università. C’è sempre qualcuno che è impegnato in un lavoro sul campo, o che sta usufruendo di un congedo per studio.

    « Che ci fai qui così presto? » dice appena entrato. Ivan Mrázek non arriva mai in ufficio prima delle undici, è dunque sorpreso di vedermi lì già alle nove del mattino. Oggi in via eccezionale è qui a quest’ora perché è arrivato col primo autobus dal suo paese natale al confine. Già da qualche anno si sta occupando di ristrutturare la casa di campagna che ha ereditato sulle colline pedemontane degli Jeseníky. I suoi nonni l’avevano acquistata dai tedeschi, subito dopo la guerra, a un prezzo stracciato. Un centinaio d’anni fa era parte di un villaggio abbastanza popolato, ma ormai è in mezzo al nulla. Da sempre il sogno di Ivan è di aprirci una pensione. Alla ristrutturazione dedica tutto il suo tempo libero e i suoi guadagni. Una volta avviata la sua impresa dirà addio alla scienza e si trasformerà in un albergatore di montagna, si costruirà una famiglia, adotterà un cane e vivrà lì felice per sempre.

    Non ha mai fatto mistero del fatto che per lui l’accademia è solo la strada più praticabile per ritagliarsi un posto nella società. Non ha mai osato proporsi in una multinazionale, non si sente adatto né per la competizione di un ambiente lavorativo concorrenziale né per la cultura corporativa. Esattamente come me. Solo che per avviare un’impresa sua gli mancava il capitale. L’unica strada era un impiego statale. Già durante il suo percorso di studio ha capito che il lavoro accademico gli avrebbe lasciato il tempo per occuparsi della sua idea imprenditoriale, garantendogli contemporaneamente una certa libertà e, se avesse lavorato con solerzia, anche dei consistenti guadagni. Qualche incarico da assistente all’università, la paga da ricercatore dell’istituto, pubblicazioni, traduzioni, diarie dei viaggi all’estero, sommando tutto poteva risparmiare parecchio e senza l’inevitabile stress di una posizione di responsabilità. E oltretutto la sua materia di ricerca è anche divertente. Lavora sulla probabilità di incidenza dei fenomeni avversi, ovvero sulla famosa legge di Murphy, si tratta di una tesi dimostrabile oppure è solo un’impressione soggettiva?

    Il metodo del massimo risultato col minimo sforzo nel mondo accademico sembra dargli dei frutti, e finora nessuno dei superiori ha smascherato il suo camuffamento. Nessuno ha mai messo in dubbio la sua morale professionale, i risultati delle sue ricerche, il suo stile di insegnamento. A chi converrebbe del resto? Col rischio di vedersi rendere la pariglia? Nel nostro istituto è così che funziona, e d’altronde è quello che noi della nostra generazione abbiamo imparato durante gli anni universitari. Dopo la rivoluzione i comunisti sono stati espulsi dall’università, che si è ripopolata degli insegnanti che ne erano stati banditi. Molti dei quali non sapevano più orientarsi nel mondo accademico.

    In carenza di docenti erano gli assistenti a fare lezione e si cercava di rattoppare in ogni modo possibile. Molti pedagoghi temevano di essere tacciati come amici del vecchio ordinamento e quindi preferivano chiudere un occhio, e la libertà studentesca confinava spesso con l’anarchia.

    Mi sono laureata in un periodo in cui gli insegnanti fingevano di insegnare e gli studenti fingevano di studiare. Agli esami vigeva un nobile accordo: « Noi vi facciamo passare e voi non vi lamentate del fatto che non vi abbiamo insegnato niente ». Durante le lezioni i professori si limitavano spesso a leggere gli appunti dai quaderni consunti di quando erano stati studenti. E i discenti annotavano quelle verità vecchie di trent’anni e agli esami le ripetevano diligentemente. Era raro che qualcuno fosse buttato fuori, e quando avveniva era più per una generale inettitudine allo studio che per ignoranza. La maggior parte degli iscritti alla mia facoltà si sono laureati con successo, per essere bocciati a un esame bisognava essere davvero stupidi. E il livello della nostra università, rispetto a quello degli altri paesi, è calato a picco.

    Poi gli anni post rivoluzione sono passati e la situazione ha cominciato a stabilizzarsi. Ma il caos nelle università in parte persiste, soprattutto nelle facoltà più marginali. Riguardo al livello dei seminari di Ivan per esempio non mi faccio illusioni. Chi non sa fare insegna, dice il detto, e la vita quotidiana lo rispecchia. A volte ho il timore che possa riguardare anche me. Svolgo il mio lavoro con serietà, eppure non riesco a liberarmi dalla sensazione di millantare qualifiche che non ho e ho sempre paura che qualcuno mi smascheri. Pare che sia una diagnosi comune per i nevrotici come me, si chiama sindrome dell’impostore. Negli ultimi tempi non sono più sicura di niente. Al contrario di Ivan, che non dubita mai di se stesso.

    « Pensa, quel piastrellista di Hanušovice invece di attaccarmi le piastrelle in verticale me le ha attaccate in orizzontale, e in ben due bagni. Menomale sono arrivato in tempo. Gliele ho fatte smantellare tutte. Per fortuna l’ordine era nero su bianco, quindi il danno ricade sulla sua ditta. Bisogna sempre stargli col fiato sul collo, o rovinano tutto quello che toccano » si lamenta impomatandosi le mani. È l’unico uomo che conosco che tiene sulla scrivania un tubetto di crema, che spalma sulle mani varie volte al giorno.

    Ivan mi allieta con le sue storie edilizie almeno una volta a settimana, quindi non mi sforzo nemmeno più di dimostrare interesse, né faccio domande. Mi limito ad annuire e ogni tanto borbotto qualcosa. Non sono proprio a digiuno di ristrutturazioni. Come un giorno disse un amico alla nostra festa comune dei trent’anni: « Se c’è un tema che accomuna la nostra generazione sono i beni immobili ». Abbiamo raggiunto l’indipendenza economica alla fine degli anni Novanta, con l’avvento del mercato immobiliare libero. Nelle città c’era un gran movimento di privatizzazioni, restituzioni, compravendite, decreti di regolazione degli affitti, speculazioni e ogni tanto costruzioni di nuovi palazzi. Le regole dei contratti di locazione e il continuo flusso di stranieri verso Praga hanno sovvertito il mercato degli affitti, per i giovani è diventato più conveniente acquistare un appartamento con un mutuo, e versare ogni mese alla banca la quota che altrimenti sarebbe finita in tasca ai proprietari. Un’intera generazione si è indebitata prima del dovuto, rendendosi sottomessa, ricattabile e ubbidiente.

    Rispetto alla maggioranza io sono stata fortunata. Anch’io, come Mrázek, ho acquistato durante la privatizzazione, a basso prezzo, l’appartamento tre più uno in cui viveva la nonna, situato sul lungofiume. Solo che andava ristrutturato. Il martirio con gli operai è stato sopportabile, gestire l’ufficio edilizia mi ha causato qualche problema in più. Avendo ignorato la loro richiesta di bustarelle mi c’è voluto un anno per ottenere il collaudo statico. È un ricordo che mi lascerei volentieri alle spalle, se non fosse che Ivan continua a mettere il dito nella piaga ogni settimana con le storie sulla sua pensione.

    « Anche per il pavimento ho dovuto fare reclamo, perché in un angolo era due centimetri più alto. Gli ho fatto staccare di nuovo le doghe e hanno dovuto versare un altro strato di malta, pensa. »

    Per quanto riguarda il suo alloggio a Praga Ivan ha risolto la questione nel modo più economico possibile. A dispetto dell’età e del titolo di studio vive ancora allo studentato. Grazie a una falla nelle clausole del regolamento riesce a dimostrare ogni anno di averne diritto. Anche nel nuovo sistema applica il motto collaudato nel socialismo: chi non ruba deruba la propria famiglia. Riesce a estorcere il massimo senza mai oltrepassare i confini della legalità. Ho giurato di augurargli il meglio nei suoi intrallazzi a patto che non si vanti troppo spesso.

    « E poi ho beccato il pittore che dipingeva le cornici delle finestre senza aver prima scartavetrato, ti rendi conto? »

    « Sai cosa dicono architetti e costruttori? » lo interrompo. « Che bisognerebbe estrarre a sorte un operaio ogni mattina e sparargli in via di avvertimento. In ogni caso non sarà di sicuro innocente. Vado a comprarmi qualcosa da mangiare. Torno fra poco. »

    Ho una perversione tutta mia. Prima di addormentarmi la sera, per esempio quando sono già a letto a leggere, mi assale all’improvviso l’irresistibile desiderio di una colazione. Non è una fame normale, appagabile con un panino o una banana. È proprio una voglia concreta di tè bollente o caffellatte, cornetti fragranti, pancake con lo sciroppo d’acero e pane tostato col burro e la marmellata di arance. Non mi concedo mai una colazione di questo calibro, al mattino non ho tempo e comunque non mi capita mai di avere tutti gli ingredienti a casa. E soprattutto non mi va di fare una colazione di questo tipo al mattino. Quando mi alzo ho lo stomaco chiuso e riesco a malapena a inghiottire un pezzo di pane con qualcosa sopra. Ma ora ho la possibilità di esaudire il mio desiderio di colazione.

    Le auto strisciano nelle viscere della città come un verme che prolifera di sempre nuovi anelli. Ci passo in mezzo e svolto verso una strada più tranquilla, ma non meno squallida. Sotto il portico all’ingresso della metro è seduto tra le pozzanghere un tossicomane spossato, che con un flauto a becco suona la melodia El Condor Pasa. Con le dita dalle lunghe unghie nere tappa i buchi e ricomincia da capo a ogni stonatura. Dopo il ritornello aspira da una sigaretta tutta ciancicata e riprende a suonare. In un angolo una coppia di drogati, un ragazzo e una ragazza con la faccia piena di piaghe, lei quasi sdentata, si tirano addosso un insulto dietro l’altro. Tra le auto parcheggiate davanti al marciapiede un uomo piscia in direzione della strada.

    La caffetteria invece è piena di giovani belli e sani. Stanno seduti ognuno al suo tavolo, con una tazza di caffè e il computer portatile acceso. Il locale ha aperto da poco e offre le ultime novità del momento, per cui è subito diventato il fulcro catalizzatore di quelli che devono sentirsi sempre all’avanguardia.

    Il mio desiderio di una colazione tranquilla va in fumo appena vedo un collega dell’istituto. Ormai non posso fingere di non averlo notato. Patrik Sváček, anche detto L’uomo senza qualità . Si alza subito per baciarmi sulle guance. Anche Patrik non ha avuto problemi a orientarsi nel sistema. Anche se dev’essergli stato chiaro fin da subito di non essere un granché portato per gli studi, con la diligenza e la forza di volontà è riuscito a superare i vari gradi scolastici e a farsi strada fino al mondo accademico. Lì dove l’ingegno e le conoscenze generali non arrivano sopperiscono disponibilità e sollecitudine, sorrisi, lusinghe, informazioni utili, buoni contatti o piccole attenzioni. Ora che ci penso a darmi sui nervi non sono tanto i suoi calcoli, quanto il fatto che la passi liscia. Anche la sua intelligenza sociale sembra acquisita dai manuali e dalle serie americane. È una specie di homunculus, il prototipo di un uomo nuovo, un prodotto di laboratorio con dentro installato un solo programma che gli permette di trovare sempre il modello di comportamento più conveniente e di aggiornarlo con regolarità. Quell’uomo non ha mai espresso un’opinione sua, ha sempre appoggiato con grande entusiasmo quelle che nel momento dato erano le più accreditate nella sua cerchia: che si parlasse di sostenibilità ambientale, di politica, o di qualità degli alimenti. Non ha mai detto una parola storta su qualcuno per non perdere la reputazione; non ha mai pronunciato niente di controverso per non doversi poi trovare a difendere la sua posizione senza essersi preparato in anticipo. Quando non trova modelli emozionali o argomentativi cui attenersi, sparisce di scena. Non l’ho mai visto manifestare un’emozione spontanea – gioia, entusiasmo o rabbia – il suo software opportunistico deve prima valutare la situazione per poi estrarre dall’apposito scomparto l’imitazione giusta dell’espressione di quella data emozione. Ma in verità: la cosa che più mi irrita è che mi sono fatta abbindolare. Che non l’ho smascherato subito. E soprattutto che aveva superato il mio test di compatibilità visiva. Patrik Sváček è il fulcro su cui proietto tutta la collera contro me stessa e contro le mie valutazioni errate.

    « Devi provare il drip, è magnifico » mi suggerisce con aria esperta.

    Patrik si distingue dagli altri colleghi dell’istituto anche per il suo aspetto. Mentre la maggior parte degli accademici si veste con uno stile pratico, piuttosto sciatto, lui si presenta sempre in tiro, con scarpe e accessori di qualità. Cambia pettinatura a seconda della moda e con lo stesso criterio cambia fidanzata. Una stagione e via. Per ogni moda una ragazza. Mi vergogno di essere stata una di loro. Neanche il tempo di accorgermene ed ero stata sostituita da un nuovo modello, per lui era come cambiare telefono o

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