Chiedi a papà
Di Jan Balaban
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Info su questo ebook
Il romanzo di Balabán è pervaso di domande che riflettono sul senso, sulla qualità e sul percorso della vita umana, sui rapporti famigliari, sulla malattia e sulla morte, e su quel che resta dopo. Con un’immediatezza straziante, che porta in sé una dimensione di meditazione e un’urgenza di espressione interiore concreta, l’autore descrive in modo estremamente preciso l’aspetto tragico del destino individuale che tende inesorabilmente al suo punto finale. Non è forse vero che è dalla nascita che si comincia a morire? E nel frattempo, che cosa facciamo, che cosa siamo?
Quarta originale del poeta e amico Petr Hruška
«La morte osserva le nostre vite.
L’evento centrale dell’ultimo romanzo di Jan Balaban è l’agonia e la morte di un uomo, ma ciò che racconta davvero è l’impegnativa ricerca della vita. Poiché questa deve sempre essere trovata nella profondità di ciascuno. E poi di nuovo reinventata. In un certo senso siamo tutti simili ai personaggi della meravigliosa storia di Jan Balabán, traboccante di conversazioni, di soliloqui e silenzi. Una storia in cui si cerca la verità, e si trova la sincerità. Tutti noi, nella nostra parabola mortale, cerchiamo di scoprire qualcosa sull’essenza della realtà, o almeno trovarci per un un momento vicino a qualcosa di importante.
È quasi impossibile, perché ne sappiamo terribilmente poco. La nostra mente è sopraffatta da domande e dubbi, sfiducia e incredulità, nervosismo e aggressività. L’energia viene sprecata nel cieco affanarsi quotidiano. Le parole si ribellano in una inesattezza maligna, le mani sono corte …
Abbiamo ancora un cuore.»
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Anteprima del libro
Chiedi a papà - Jan Balaban
Tavola dei Contenuti (TOC)
Nota di edizione
Il grado zero della speranza Nota all’edizione italiana
©
2010
Jan Balabán – eredi
©
2017
Miraggi edizioni
via Mazzini
46
–
10123
Torino
www.miraggiedizioni.it
Titolo originale dell’edizione ceca:
Zeptej se táty (Host, Brno
2010
).
Translation of this book was realized with the support of the Ministry of Culture of the Czech Republic
Ringraziamo il Ministero della Cultura
della Repubblica Ceca per il sostegno
alla traduzione e alla pubblicazione
Progetto grafico Miraggi
Finito di stampare a Chivasso nel mese di ottobre
2018
da A4 Servizi Grafici per conto di Miraggi edizioni
su Carta da Edizioni Avorio – Book Cream 80 gr
e Carta Fedrigoni Woodstok Materica Chalk
180
gr
Prima edizione digitale: novembre
2018
isbn
978
-
88
-
3386
-
024
-
4
Prima edizione cartacea: ottobre
2018
isbn
978
-
88
-
3386
-
000
-
8
NováVlna
( 3 )
La gente che viaggia col treno diretto non se ne accorge nemmeno di quel canile. Il grido delle creature stremate e senza casa è assorbito dal fracasso delle ruote sugli scambi che portano via il convoglio da questa regione, che continua a sprofondare. Sottoterra le sacche di carbone che i minatori hanno esaurito vengono chiuse. Laggiù nell’oscurità i soffitti vanno a collassare sui pavimenti. In superficie il paesaggio si incrina, e il gestore della ferrovia deve continuamente rialzare i terrapieni sotto i binari per mantenere la linea percorribile a una velocità accettabile. E così la gente che viaggia col treno diretto non deve nemmeno accorgersene di quel posto. Che per loro non esiste. Esiste solo per colui che vi resta inchiodato come a un infimo lettino di cui nulla gli importa, e che tuttavia rimane il suo. Non si alzerà più, non riprenderà più possesso del suo letto, non camminerà più. Al contrario, sarà il letto a prendere possesso di lui. Il letto lo traghetta dal mondo dei vivi a quello delle cose, a quello delle ultime cose, in un luogo sufficientemente asettico e organizzato da non spaventare troppo coloro che hanno ancora il potere di sdraiarsi sul loro letto e alzarsi da esso, in fin dei conti anche di portarselo via, il loro letto. Ci affanniamo di casa in casa con i nostri mobili man mano più ammaccati, alla ricerca di qualcosa di più economico. Così, passo dopo passo, ci avviciniamo all’ultimo rifugio che avremo qui, idea che reprimiamo faticosamente per tutta la vita. Ma come potremmo vivere, se dovessimo solo sempre stare in attesa della pena a cui saremo costretti prima di morire?
E il treno se n’è andato, e se qualcuno avesse dato anche solo uno sguardo verso di noi dal finestrino, se infine avesse anche scorto due persone davanti alle inferriate del rifugio per cani, non avrebbe ugualmente sentito questa puzza né udito questo grido. Non avrebbe, in petto, il cuore chiuso da un pesante ricordo.
Che c’è? chiese Jeny, avvertendo tremare le mani di Emil.
Mah… la memoria, la porca memoria.
Era sempre stato orgoglioso della sua memoria, e ora era porca?
Un porco così macilento, che non se ne ricaverebbe nulla. Un giorno o l’altro mi divorerà, e vivrò solo in essa, rispose Emil, ricambiando la stretta delle dita di Jeny. Solo una piccola rassicurazione, la più piccola possibile, e nessuna parola. Questa era lei. Per questo viveva con lei. Per questo era venuto con lei anche al canile, a cercare il cane che si dovevano portare a casa.
Quando Emil era un ragazzino aveva sempre desiderato un cane. Un bel giorno se l’era immaginato, e andava ad accarezzarlo e a nutrirlo sotto la scala della cantina, dove lo teneva nascosto dai genitori, che un cane non lo volevano per seri e gravi motivi. Non ci si deve sprecare a curarsi degli animali, quando ci sono tante persone che hanno bisogno. È una soluzione di ripiego prendersi cura di un cagnolino, e chi si preoccupa di tutte quelle persone anziane e malate?
Ma Emil davvero non lo sapeva, come occuparsi della vecchia signora della casa a fianco, che trascorre tutto il giorno a guardare dalla finestra e a invecchiare. Certo che potrebbe, ma non fa nulla per lei, per quanto il tempo passi. Lui è quel nessuno che va a trovarla. Invece di fare un salto da lei con un pezzo di torta di mele e in qualche modo, chissà come, portarle conforto, si inventa piuttosto con sua sorella minore Kateřina un cagnolino, che sonnecchia su una vecchia coperta sotto la scala della cantina. Alla fine diventano così matti per questa cosa, che sono seriamente turbati che al mattino, là sotto, il cane non li aspetti, dal momento che lì non c’è, e forse non c’è mai stato. Amava Katka per quel misericordioso forse
. In seguito, quando la vecchia signora è morta, hanno tremato insieme di paura e per il senso di colpa perché loro, invece di essere andati a trovarla, si erano presi cura di un cane immaginario. Sono dei peccatori. Questo è certo. Sono dei capri che un giorno saranno separati dal gregge del Signore. In ginocchio nel fango nero del peccato beleranno a dirotto sul lato oscuro del giudizio terreno. Quella landa somiglierà maledettamente a questa terra, che viene a mancare sotto la massicciata della ferrovia.
Allora andiamo per il cane, disse Emil a sua moglie con voce di nuovo ferma, e si avviarono verso le cucce, i cui abitanti erano più simili a persone di qualsiasi essere umano.
Piano, con cautela! La voce bassa e monocorde della custode del canile aveva la prodigiosa capacità di imporsi sull’abbaiare a raffica dei cani agitati. Quella signora con i capelli tinti di giallo paglia era ancora giovane e bella e sicuramente sarebbe stata in grado di fare la sua figura anche altrove che in un cortile pieno di… Attenzione a non pestarne. Ma non c’era granché spazio dove poggiare i piedi.
Non so se lo vorrete ancora, disse indicando la gabbia occupata da un cane catturato sei mesi prima. Dall’oscurità oltre la rete saltò su qualcosa come uno straccio con testa e zampe. Sbatteva sulla rete col fianco scorticato, scivolava giù lungo di essa e andava a nascondersi in un angolo buio, dove si vedevano lampeggiare i suoi occhi chiari, mai fermi.
Lo fa di continuo, disse la custode, cento volte al giorno, guardate quella rete.
Di traverso, in basso, sulla rete metallica si allungava come un fascio di luce una striscia di pelo appiccicato e sangue rappreso. E di nuovo. Bam! E drrrrrr… giù. E di nuovo quegli occhi lampeggianti dall’angolo buio. Emil e Jeny restarono in silenzio, mortificati.
A Emil tornò in mente la volta che avevano portato fuori dalla casa il corpo della vecchia signora astiosa, coperta da un lenzuolo. Coprire con un telo! Questa gabbia, tutto il canile, tutta questa terra, bisogna coprirli con un telo e portarli da qualche parte nel luogo della morte misericordiosa. Separiamoli da noi con un telo verde come nel reparto di rianimazione, per non vederli, dato che ormai non possiamo più farci nulla se non pensare alla morfina. E così avevo caracollato fino a casa dall’ospedale dove mio padre non poteva più alzarsi, tantomeno riprendere il suo letto. Ero caduto a faccia in giù sul cuscino e avevo pianto, farneticando di un’iniezione che mettesse fine a quella sofferenza, cioè alla sua vita.
Avanzarono verso un’altra gabbia. Il cane era molto bello e doveva essere caro e con un buon pedigree. Un lungo pelo bianco con un accenno di peluria marrone, denti bianchi affilati come una sega. Le orecchie erano due triangoli bianchicci, cime di montagne, cappelli a punta da eretici, incollati sul capo di persone sospinte alla frontiera. Fino a quel momento si era appuntato all’inferriata con la forte zampa, protendendosi e ripiegandosi con un sospiro profondo. Tremolava come una mano per aria in cerca di un appoggio, che lì non c’era. Il suo muso spalancato con i denti bianchi, il palato roseo e la lingua smaniosa come se avesse voluto strozzarsi con la corda di sicurezza, che nessuno avrebbe mollato. Restò incurvato terribilmente a lungo tendendo la corda, perché la sua supplica fosse terribilmente esaudibile. E di nuovo nulla. I triangoli bianchi si abbassarono. Rimase a giacere sul pavimento lercio e il suo lamento di speranza si trasformò in un guaito, che faceva meno male e aveva meno significato. Più volte al giorno sapere e avere la prova che l’insostenibile istante presente da cui occorre solo e soltanto sfuggire è il mio letto, da cui non scenderò più. E dopo un momento quei triangoli si sollevano di nuovo e di nuovo ci viene incontro con una speranza incomprensibile inarcandosi smanioso, e proprio per quel dolore qualcuno ormai deve, maledizione!, deve farsene carico!
Arretrano con vergogna. Un cane così grande non lo possiamo prendere. La signora con la tinta color paglia annuisce comprensiva. Ha sentito almeno mille volte quelle frasi evasive. Le sue labbra, al protendersi doloroso e vano del cane, sono attraversate come da un sorriso amaro, ma senza rimprovero.
Poi, finalmente, davanti a Emil spalanca il muso un cane che si capisce bene. Un pastore tedesco. Il labbro superiore è sollevato, le zanne gialle sfoderate. Baf! Baf! Baf! Risuonano come colpi di fucile. Sul dorso i peli sono minacciosamente ritti. Via! Filate via! Ringraziate Dio per quell’inferriata. Prask! Prask! Gli occhi, due nocciole immerse nel sangue. Il sangue, solo il sangue, anche se fosse il suo stesso sangue, solo quello vuole quella lingua che schiuma tra i denti. Sparatemi! Io non mi aspetto nulla di buono da voi.
Emil, con ancora la paura addosso, si allontana dalla cuccia malandata e vede Jeny chinarsi al centro del cortile su una cagnolina con un occhio nero ferito. La attacca al guinzaglio e se la prende per riscattarla da quel posto perduto, davanti a cui stava rimbombando un altro treno di passaggio. Tutti e tre salirono in auto e sfrecciarono sulla strada ondulata da Karviná a Ostrava, i cartelli con le scritte Attenzione, strada ondulata per terreno minerario! gli ricordavano che il cedimento di quella regione non aveva ancora fine.
¶
Hans aveva una specie di superstizione. Valutava il giorno che veniva dal fatto se al mattino incontrava più belle donne, o se ne incontrava più di brutte.
Per quegli occhi profondi sbirciati qua e là furtivamente, per quelle labbra sensuali, per quell’inclinare il capo o quel sorriso che attraversa il volto come un’affermazione della vita terrena Hans non rimpiange di stare in tram e non al volante del fuoristrada nero che in quel momento è fermo al semaforo rosso accanto al tram. Il conducente tamburella nervosamente con le dita sul cruscotto, visibilmente in preda alla rabbia perché l’incrocio lo sta tenendo fermo allo stesso livello di quegli sfigati che osservano la sua auto dai finestrini. Può ascoltare il suo stereo ma non vedere con quanta bellezza quella ragazza appoggia la testa all’asta di sostegno, non al lucente palo da striptease di un dancing bar, ma qui, accanto alle porte della vettura. Lei ascolta la sua musica con le cuffie, appesa al giorno, senza sospettare che qualcuno sia così incantato dalla sua grazia. Hans sente il brusio delle cuffie e immagina come la musica a pieno volume fluisca nei suoi rosei canali uditivi, come con quella musica lei vibri tutta, e vibri il cerchietto argentato coperto per metà dai suoi capelli. Hans ci crede, a quell’istante. Non alla ragazza. Sa bene che può accadere che apra la bocca e che da essa fuoriesca qualcosa di volgare o di stupido. Hans crede di aver scorto il lembo tondeggiante della splendida giornata che oggi potrebbe essere, che certamente per qualcuno è.
Poi diventa verde. Il SUV nero, in basso sotto il finestrino del tram, scatta con tutta la sua velocità, a capofitto e lesto come un maiale verso la greppia. La ragazza si gira verso Hans, lo guarda, poi si perde tra la gente.
Le cose stanno in modo del tutto diverso, gli aveva detto un giorno suo fratello minore Emil a proposito di quella sua indagine stregonesca. Statisticamente deve esserci ogni giorno più o meno la stessa quantità di belle e di brutte. Sono solo i tuoi occhi che a volte riescono a selezionare le belle, in quella massa di persone, e altre volte quelle che fanno schifo.
Che fanno schifo, così aveva detto, aveva usato quella parola. Diceva tranquillamente di una donna, solo così allo sguardo, che fosse uno schifo. Emil era fatto così già dall’infanzia. Tutte e tutti sono schifosi, per contro è bella solo quella a cui sta pensando lui. Così fantastica, che non può davvero esistere. Può presentarsi solo per un momento, solo per un secondo, e la cosa peggiore è che in Emil la delusione non arriva con la bellezza, ma la precede. E questo, Emil, sono di nuovo i tuoi occhi a farlo. Sono occhi che la bellezza non la vogliono vedere, ma vorrebbero lanciarla sulla gente. Un po’ come tu ti getti sulle persone, come un cane lupo su una recinzione sormontata da filo spinato.
Emil sarebbe stato d’accordo con quel cane. Sì, la bellezza deve ferire, strappare la cortina dell’indifferenza.
Ma questa cortina qualche volta è necessaria, perché l’uomo non si esasperi e impazzisca. Perché, Emil, possa essere normale almeno nelle cose normali.
E cosa sono le cose normali? Hans richiamò alla mente l’aspetto furente – e la voce – di Emil. Il suo rancore verso tutto ciò che proprio in quel momento non è suo. Verso tutto ciò su cui non ha messo da solo le mani, come il cacciatore sul cervo.
Le cose normali non esistono. Solo un idiota può desiderare delle cose normali. Hans, tu lo sai cos’è che mi ferisce, per me non è così. Le tue persone normali vorrebbero vedermi rinchiuso in riformatorio, in manicomio, in caserma con una baionetta nel culo, impiccato.
Emil era capace di mettersi subito a urlare e subito offendersi violentemente, di umiliarsi e vendicarsi da solo di quell’umiliazione, e tutto in un solo minuto, in un solo secondo che non fosse dedicato a lui.
Hans prosegue verso il suo posto di lavoro, come ogni normale persona onesta, ma sente che gli è sfuggito qualcosa, di aver dimenticato di pagare, compilare, inviare, di dire qualcosa a qualcuno. Tutto ciò è probabile, ma non gli fa male. Neppure quella cosa della bellezza. A fargli male è l’angoscia di Emil. Il ricordo di quando ce l’avevano entrambi, insieme. Di quando tutti e due guardavano il mondo solo dall’angusta feritoia di una cittadella tutta loro. Gli fa male come il ricordo di una vecchia consuetudine. Il ricordo di un uomo che è morto, di papà, sulla cui tomba la terra non si è ancora assestata. E come la prendeva lui? In realtà più come Emil, ma ha trascorso tutta la vita nell’idea che il mondo è buono, perché fatto da Dio.
Il tram si fermò al parco nella piazza. Un tempo qui avevo l’ufficio, ma non mi è andata bene. Hans si ricorda di come restava in attesa di un lavoro qualsiasi per giorni interi. Controllava la posta nevroticamente, ogni ora. Telefonava. Stupidamente domandava alle segretarie dei suoi perlopiù ex clienti se non avessero qualcosa per lui. Fingeva di non essere sul lastrico, e con sempre maggiore difficoltà allontanava la voglia di fare un salto attraverso il parco al negozio a prendere una bottiglia. Non ne aveva i soldi, o meglio, non ne avrebbe dovuti avere, dato che gli mancavano per l’affitto di casa e per le tasse.
Una volta, finalmente, dopo una giornata del genere uscì da quella trappola del lavoro senza lavoro e incontrò al parco, sotto un alto pioppo nero, una ragazza che risplendeva nel suo