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Colle Tre Pietre
Colle Tre Pietre
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E-book295 pagine4 ore

Colle Tre Pietre

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Info su questo ebook

È trascorso tanto tempo dall'ultima volta che gli abitanti di Graugasi hanno ricordato e temuto l'antica leggenda del Colle Tre Pietre, l'altura ai cui piedi sorgono le loro case. Hanno smesso di credere che i tre menhir in cima al colle siano stregati molto prima che la radura nella quale si ergono diventasse il campo da gioco domenicale dei bambini dei Del Gaudio, una famiglia che da undici anni vive in una villa immersa proprio nella pineta dell'altura. Il sindaco sta persino adoperandosi affinché il sito megalitico torni a essere un'attrazione e ospiti un festival estivo in grado di attirare i turisti.

Ma a Graugasi c'è già uno straniero interessato al Colle Tre Pietre, un turista giunto anzitempo per – parole sue – eccellere nelle vesti di diavolo. Si fa chiamare Domenico Maltempo, è il solo a conoscere il segreto del colle che la leggenda non ha tramandato e la sua missione è resuscitare i morti assassinando i vivi. Sarà grazie a lui che si compirà la vendetta di Caio Averzerio, orgoglio degli arcidemoni, e delle sue tre discepole Sibilla, Jole e Sophia, secoli addietro arse vive sui menhir eretti per l'asterismo sotto il cui segno torneranno a vivere.
LinguaItaliano
Data di uscita24 giu 2020
ISBN9788831682305
Colle Tre Pietre

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    Anteprima del libro

    Colle Tre Pietre - Bruno Maiorano

    TU FUI EGO ERIS

    1

    Alle porte del comune di Graugasi, borgo cilentano di 10.329 abitanti, c’è un’altura boscosa che tra la primavera del 2010 e l’estate del 2011 ha resuscitato la sua antica fama di luogo stregato facendo da teatro a eventi tragici, straordinari e agghiaccianti. Si tratta del Colle Tre Pietre, sulla cui cima, nel mezzo d’una radura, si ergono tutt’oggi tre menhir risalenti a un periodo databile tra il 3300 e il 2500 a.C, alti cinque metri e posti ai vertici di un triangolo ispirato da quello ben visibile in cielo nel corso dei mesi estivi, lo sfavillio dell’asterismo formato dalle stelle Altair, Deneb e Vega. È opinione comune degli esperti che le croci visibili su questi megaliti siano state incise dopo il deliberato annientamento di tre ignote icone pagane su essi precedentemente scolpite, scempio che sarebbe avvenuto durante le persecuzioni condotte tra il XV e il XVI secolo a discapito di presunte streghe: numerose tracce rinvenute suggeriscono che i menhir abbiano funto da pira per i condannati a morte dall’Inquisizione, dunque sopportato più di un infame rogo. Per centinaia di anni, gli abitanti di Graugasi si sono fatti il segno della croce al passaggio dei loro compaesani di ritorno dal colle, persuasi che gli antichi spiriti di tre streghe relegati nei megaliti attendessero i viandanti bramando di possederne i corpi e di obbligarne le anime a scontare la pena dell’eterna reclusione in loro vece – di porre fine alla propria secolare prigionia. Da ciò la credenza che chi avesse visitato la radura dei menhir sarebbe potuto tornare al paese nelle vesti di un simulatore diabolico, di un commediante del demonio. Tale leggenda ha conosciuto il suo tramonto negli anni Novanta, quando l’allora gioventù di Graugasi, più istruita, impegnata a fuggire la noia come la peste e catturata dai videogiochi e dal World Wide Web, smise di lasciarsi intrattenere dai racconti dei nonni, temendo di ascoltare tediose e imbarazzanti sciocchezze. Eppure, proprio a pochi mesi dall’inizio del suddetto decennio, un ragazzo grauganese non ancora maggiorenne era morto in circostanze sospette subito dopo il girare delle voci d’ignoti pettegoli che lo avevano accusato di aver frequentato il sito megalitico e di vivere la vita della morte. Ai tempi delle vicende qui di seguito narrate, invece, i grauganesi non chiamavano neppure più Tre Streghe il colle, bensì, come già rivelato, Tre Pietre.

    Nel 1999, una diversa – nonché priva di qualunque fama – radura del colle vide sorgere la casa dei coniugi Fulvio ed Elvira Del Gaudio, il giovane direttore di un villaggio turistico distante pochi chilometri dal paese e un’insegnante dell’Istituto Comprensivo Sant’Elena di Graugasi. Da allora, nell’arco di undici anni, i Del Gaudio ebbero quattro figli, tre bambine e un bambino (tra cui due gemelle), che chiamarono Aurora, Gioia, Matilde e Gabriele – rispettivamente, nel 2010, undici, sette e nove anni. Sul finire della primavera del 2010, i bambini s’avventurarono su un sentiero che s’inerpica sull’altura e finirono col raggiungere la radura dei menhir, che in seguito vollero frequentare ogni domenica pomeriggio e ribattezzare dapprima Campo delle Libellule, poi Terra delle Fate: la più giovane e fantasiosa dei Del Gaudio, Matilde, s’era figurata che tre fate imprigionate secoli addietro nelle grandi pietre da un potente e malvagio stregone fossero tornate a vivere e a volare libere reincarnandosi nelle libellule che sorvolavano il prato. Allorché vollero dar loro dei nomi, anziché inventarseli, le ragazzine presero in prestito quelli delle eroine di una serie d’animazione italiana che aveva per protagoniste proprio delle fate, Bloom, Stella e Flora del Winx Club. Poi scelsero ognuna un megalite e, armate di piccole pietre aguzze raccattate tra l’erba, incisero il nome della propria fata preferita appena sotto le croci intagliate nel XVI secolo.

    Non ci volle molto perché, ispirate dal luogo e dalle lamentele di Gabriele che non rivestiva mai un ruolo di prim’ordine nei loro fantasiosi svaghi – e che per di più si era visto negare la possibilità di assegnare il nome di un proprio eroe dei cartoni animati a uno dei megaliti –, le tre sorelle inventassero il gioco Indovina la fata. Quest’ultimo vedeva Gabriele seduto e bendato nel centro della radura a contare fino a dieci ad alta voce, mentre le bambine correvano in cerchio in prossimità dei menhir, alle spalle dei quali si fermavano una volta finita la conta. Allora lui tentava d’indovinare dove si trovasse la sorella di cui aveva provato a seguire con l’udito i passi e i risolini, quindi ne pronunciava il nome insieme a quello della fata assegnata al megalite dietro il quale credeva che si fosse nascosta. In caso di successo, la sorella scoperta prendeva il suo posto e il gioco ricominciava daccapo.

    Ad eccellere in Indovina la fata fu Matilde, che più di una volta e sbalordendo tutti riuscì a indovinare in un sol colpo chi ci fosse dietro ciascun menhir – Aurora è con Flora, Gioia è con Stella, Gabriele è con Bloom. All’accusa di barare sollevando la benda posta sugli occhi, Matilde rispondeva che erano le fate stesse – delle quali sentiva le voci – a suggerirle chi si nascondesse dietro un dato megalite, e che talvolta le concedevano addirittura di poter guardare attraverso le pietre, vedere cosa suo fratello e le sue sorelle facessero nell’attesa d’essere o meno scoperti – Gioia ha fatto pipì, Gabriele si è infilato le dita nel naso, Aurora ha fatto la ballerina sulle punte dei piedi. Non riuscendo a persuadere nessuno che sul colle vivessero davvero le fate da lei stessa inventate, si sentì dare della bugiarda, ma anche attribuire dei poteri straordinari.

    Durante una di queste domeniche, sollevandosi dal prato mentre giocava, Gabriele poggiò la mano su una piccola pietra aguzza fra l’erba, che gli lacerò il palmo. Il sangue, copioso – la ferita aveva bisogno di qualche punto di sutura –, si riversò ai suoi piedi e irrigò il terreno. Allora i bambini lasciarono la radura e, tra gli alberi che affiancavano il sentiero del colle, un Gabriele in lacrime trovò conforto nella dolcezza e nella premura di Aurora e Gioia. Matilde, ancora eccitata dalla propria fervida fantasia, tenne invece a supporre che se le fate – nelle vesti di libellule – avessero bevuto il sangue di Gabriele e l’avessero trovato buono, raggiungere di nuovo la radura avrebbe comportato un serio rischio. In quell’occasione, anziché riconoscerle un’invidiabile immaginazione, le venne data della sciocca.

    Era il pomeriggio del 27 maggio e Graugasi stava per ricevere la visita di un uomo capace di grande fede, uno straniero convinto d’incarnare le speranze dell’inferno e di dover figurare come protagonista nelle future leggende ispirate proprio dalla Terra delle Fate, a lui nota come prigione e tomba millenaria di Caio Averzerio, discipulus ac decus archidaemonum.

    2

    Verso le dieci di sera, lasciatosi alle spalle l’albergo Villa Sofia attraversando il Viale dei Faggi, un forestiero giunto a Graugasi da meno di un’ora entrò nel bar di Lorenzo Petraglia detto il Pirata, deciso a mandar giù un bicchiere di rum Zacapa prima di andare a dormire. Nel locale c’era una comitiva alticcia e chiacchierona formata da uomini e donne impegnati in due diverse partite al biliardo, che ignorarono l’ingresso dell’uomo. Lorenzo, che si predispose per servire il cliente, lo squadrò invece da capo a piedi e pensò che si trattasse certamente di uno straniero. L’uomo indossava una camicia leggera di lino nera con maniche lunghe e colletto alla coreana, pantaloni larghi e scarpe dello stesso colore e tessuto. Era alto, aveva un fisico asciutto e tonico, gli occhi azzurri, i capelli biondi che gli sfioravano le spalle larghe e la barba di un paio di giorni. A Lorenzo vennero in mente gli hippy, Kurt Cobain e Bruce Lee nella sua uniforme Wing Chun nera.

    Il forestiero raggiunse il bancone del bar, si sedette su uno sgabello e, dopo aver salutato il Pirata con un cenno della mano, gli chiese se avesse lo Zacapa. Lorenzo annuì, agguantò un bicchiere pulito adatto alla bevanda, recuperò il rum dalla mensola dei distillati e ne versò una dose abbondante. Servito il cliente, gli disse: Scommetto un Zacapa che alloggi a Villa Sofia.

    Un alcolizzato squattrinato potrebbe mentirti, scolarsi due Zacapa al prezzo di uno e poi vagare per le strade di Graugasi badando a tornarsene all’albergo solo dopo che hai chiuso bottega, lo allertò il forestiero, sorridendo.

    Ah, beh… sei un alcolizzato squattrinato?

    Senz’altro. Ma sono anche l’inequivocabile straniero che non può che alloggiare nell’albergo più vicino.

    Già, commentò Lorenzo, ricambiando il sorriso. Si accese una sigaretta e aspirò un paio di tiri, poi aggiunse: A un turista offro volentieri il bicchiere della staffa.

    Mr. Zacapa espresse la propria gratitudine sollevando il bicchiere come per brindare, dopodiché ringraziò il Pirata a voce: Apprezzo molto la tua generosità.

    Ti ho chiamato turista come se sapessi che sei in vacanza. Cosa ti porta a Graugasi, svago o lavoro? Sempre che tu abbia voglia di chiacchierare, si capisce. Gestisco questo bar da ben dieci anni e ancora non so se i clienti solitari vanno intrattenuti o lasciati in pace a bere ciò che ordinano.

    Mr. Zacapa degustò un primo sorso di rum, poi rispose.

    Direi per lavoro. Ho in programma di raggiungere il vostro colle dei menhir, dove mi aspetta una gran bella fatica.

    Menhir cosa?

    Già. Qui a Graugasi, sul vostro colle, ci sono tre menhir.

    È così che si chiamano quelle pietre?

    Si chiamano anche pietre.

    Ho capito, tu sei...

    Lorenzo poggiò i gomiti sul bancone e guardò nel vuoto mentre tentava di farsi venire in mente la parola archeologo. Dopo qualche istante, rinunciatoci, disse: …uno scienziato.

    Mr. Zacapa scosse la testa in segno di diniego e replicò: Sono solo uno dei rari pellegrini di questo mondo che raggiungono specifici luoghi e vi si adoperano nella speranza d’intraprendere una brillante carriera demoniaca, dunque eccellere nelle vesti di diavolo.

    Il Pirata tentò di comprendere quella che presumeva fosse una battuta di spirito riascoltandola nella propria testa, tra sé e sé. Non ci riuscì. Che? domandò.

    Tu cosa fai, qual è la tua occupazione? chiese a sua volta Mr. Zacapa.

    Quello che sto facendo: gestisco un bar.

    Lorenzo notò che lo straniero aveva cambiato espressione. Gli sembrò di potergli leggere in volto che lo credesse un sempliciotto e un ignorante, qualcuno da prendere in giro con giochi di parole, per di più impunemente. Ora il suo sorriso era tronfio e beffardo.

    Dai da bere agli assetati, commentò Mr. Zacapa. Ti fa onore. Io mi ubriaco e dico sciocchezze stravaganti, ecco la mia vera occupazione.

    Lorenzo, sempre più perplesso, tacque. Lo straniero alzò di nuovo il bicchiere e brindò da solo, in silenzio. Sai, continuò poi, più si è intelligenti e istruiti, più si è annoiati dalle chiacchiere della gente. Forse dovresti lasciare che i clienti solitari bevano in pace ciò che ordinano, limitarti a servirli.

    Mi stai dando dell’imbecille?

    Sto solo attribuendomi un’intelligenza e una cultura superiori alla media.

    Parli così a chi ti ha appena offerto da bere? Non capirò mai voialtri stramboidi.

    Altra certezza, convenne Mr. Zacapa.

    Persuaso d’essersi appena imbattuto in un idiota saccente, Lorenzo dedicò una smorfia di disprezzo al forestiero, quindi tornò a occuparsi delle sue cose riordinando e pulendo il bancone. Mr. Zacapa, dal canto suo, se ne restò dov’era, assorto ma sereno, con i gomiti sul banco e il mento appoggiato sulle mani intrecciate, che scioglieva di tanto in tanto per prendere il bicchiere e sorseggiare lentamente il suo rum. Talvolta chiudeva gli occhi e saggiava il torpore a cui si sarebbe abbandonato del tutto sul letto della camera presa a Villa Sofia.

    Dieci minuti più tardi, dopo aver controllato l’orologio, il Pirata si avvicinò ai suoi abituali clienti riuniti attorno ai tavoli da biliardo e chiese loro di non iniziare una nuova partita. Al solito, protestando, qualcuno lo accusò di scacciare i propri fedeli e lui si ritrovò a scambiare qualche battuta con i quattro. Quando volle tornare al bancone, si accorse che Mr. Zacapa se n’era andato silenzioso come un gatto e lasciandogli più soldi di quanti gliene avrebbe dovuti dare per il rum se non glielo avesse offerto.

    Stronzo sciroccato, mormorò Lorenzo mentre intascava il denaro. Poi si mise a lavare gli ultimi bicchieri sporchi rimasti.

    *

    Alle undici meno dieci non era rimasto da fare altro che chiudere la saracinesca del bar, ma il Pirata, rimasto solo, aveva avuto il tempo di pensare senza distrazioni e di scoprire che le bizzarre parole del forestiero, sembrategli stupide, ora gli suonavano inquietanti. Allora raggiunse il telefono fisso del locale, ne ghermì la cornetta e fece il numero di un suo amico carabiniere.

    Pronto?

    Riccardo, ciao, sono il Pirata.

    Lorenzo… Ciao, come va?

    Bene, tutto bene. Dormivi? Ti ho svegliato?

    Sonnecchiavo, sì, ma sul divano – fingevo di guardare un incontro di pugilato. Ci sono noie al bar?

    No, niente del genere. È un po’ che non ti vedo. Come state, fila tutto liscio con Eleonora?

    Tutto liscio, sì. Tu come stai?

    Non mi occorrono ricette mediche, sicché direi che sto bene. Fintanto che si ha la salute… Ascolta, non voglio annoiarti, è tardi e bisogna andare a dormire. Meno di un’ora fa, qui da me è venuto a bere un uomo – giovane, sui trent’anni –, uno straniero appena arrivato a Graugasi. Alloggia a Villa Sofia, di fronte al mio bar. Gli ho chiesto se si trovasse qui in vacanza o per lavoro e lui ha iniziato a dire cose ridicole, ma non di quelle che fanno ridere. Mi ha detto di essere… un pellegrino… e che viaggia per raggiungere dei posti che…

    Lorenzo faticò a trovare le parole.

    Un pellegrino? domandò Riccardo.

    Insomma, ha detto di voler raggiungere il Colle Tre Pietre per fare... il diavolo?

    Lo stai chiedendo a me? Ha detto così o no?

    Sì, ha detto che andrà lì per fare carriera e che c’entrano i demoni e sciocchezze del genere.

    Una sciocchezza ben strana da dire anche per un ubriaco.

    Già. Intendiamoci, subito dopo ha detto di avere l’abitudine di ubriacarsi e dire proprio simili scempiaggini, ma che razza di umorismo sarebbe?

    Te lo ha detto da dove viene?

    No, non gliel’ho chiesto.

    E come si chiama?

    No, nemmeno. Ti ho chiamato, Riccardo, perché so che i Del Gaudio vivono sul colle e sono tuoi amici. Hanno dei bambini, no? Magari i loro figli, anziché raggiungere i parchi pubblici di Graugasi, per svagarsi scorrazzano nel boschetto di Tre Pietre.

    Ci fu qualche istante di silenzio. Poi Riccardo commentò: Hai fatto bene a chiamarmi, hai avuto una buona idea. Domani mattina vado a Villa Sofia di buon’ora e gli facciamo passare la voglia di andarsene in giro a dire certe stronzate. Poi passo da te, sempre che tu abbia già aperto. Che aspetto ha lui?

    È biondo come uno svedese, ha i capelli lunghi, gli occhi azzurri e la barba. Insomma, ha una faccia da hippy, da Gesù Cristo. È alto e ha un fisico asciutto. Stasera è entrato nel bar vestito di lino nero dal collo ai piedi. Sembrava… non so, tipo un maestro di arti marziali.

    Sembra uno stronzo.

    Già!

    Vedremo cos’ha da dire. Grazie per avermi chiamato, Lorenzo. Ci vediamo domani? A che ora apri?

    Alle otto.

    E chiudi?

    A mezzogiorno.

    Va bene, vedrò di passare. Grazie ancora per avermi avvisato.

    Figurati. Ora ti lascio dormire. Buonanotte, Riccardo.

    Ciao, buonanotte.

    Il Pirata riagganciò, poi uscì dal bar, chiuse la saracinesca con i lucchetti e si accese una sigaretta da fumare mentre tornava a casa. Prima d’incamminarsi, lanciò un’occhiata in direzione di Villa Sofia e disse fra sé e sé: La prossima volta bada a come parli, sciroccato.

    3

    Il giorno seguente, alle sette e trenta del mattino, i carabinieri Riccardo Gentile e Lucio Priore bussarono alla porta d’ingresso di Villa Sofia. Furono accolti nella piccola sala d’attesa dell’albergo dai coniugi Giacomo Feo e Sofia Cantalupo, anziani proprietari e gestori dell’albergo stesso, ai quali Riccardo comunicò senza troppi fronzoli che bisognava svegliare un loro ospite perché andava interrogato in merito a certe affermazioni fatte da ubriaco in un bar la sera prima. Giacomo, visibilmente sorpreso e a disagio, accompagnò i due carabinieri al primo piano dell’edificio, mentre Sofia restò ai piedi della scalinata a chiedersi se dovesse seguirli, ancor più impacciata di suo marito. I tre uomini si ritrovarono al cospetto della camera n.6, occupata – secondo la carta d’identità consegnata alla reception al momento del check-in – da Domenico Maltempo, nato a Napoli il 16 aprile 1981.

    Giacomo picchiò alla porta con le nocche della mano destra. Signor Maltempo! Domenico, è sveglio? domandò.

    Non rispose nessuno.

    Gli dica che ci sono i carabinieri, suggerì Lucio.

    Signor Maltempo, è sveglio? Ci sono i carabinieri.

    Riccardo allungò la mano e bussò a sua volta, più energicamente. Dalla camera n.6 non giunse alcun suono. I tre attesero ancora qualche istante. Niente.

    È possibile che sia già uscito e che non lo sappiate? domandò Lucio al signor Feo. Giacomo allargò le braccia, si guardò attorno smarrito, balbettò qualcosa d’incomprensibile.

    Per favore, vuole controllare se alla reception c’è la chiave consegnata al signore? Se non c’è, tornerebbe qui con la copia della chiave? Ne avete più di una per ogni camera, non è così? chiese Riccardo.

    Sì, due chiavi, confermò Giacomo. Indicò il tragitto che si erano appena lasciati alle spalle – il corridoio del primo piano –, continuando a guardare Lucio e Riccardo con l’aria stralunata, poi gesticolò per far loro segno di aspettarlo e s’incamminò.

    I due carabinieri rimasero da soli a scambiarsi occhiate.

    Ci metterà una vita, predisse Lucio. Riccardo si portò il dito indice d’una mano alle labbra per chiedere al collega di non far udire i suoi commenti all’ospite dell’albergo.

    Quello è ubriaco marcio, replicò Lucio. Non sente i colpi alla porta, figuriamoci ciò che dico.

    Speriamo che sia così.

    Giacomo tornò dopo tre minuti e mezzo. Raggiunta la porta del n.6, ebbe qualche difficoltà a inserire la chiave nella toppa, come se avesse preso quella sbagliata. Un istante dopo esserci riuscito, si sentì il tintinnio di una seconda chiave caduta a terra dall’altro lato dell’uscio, sul pavimento della camera. Giacomo sbloccò la serratura con due mandate, poi si rivolse ai carabinieri. Era chiusa dall’interno, disse.

    Già. Lasci che sia io ad aprire, chiese Riccardo, quindi poggiò una mano sulla spalla dell’albergatore e lo invitò ad allontanarsi. Giacomo si fece da parte. Sentendo il bisogno di sdrammatizzare, l’anziano gestore sorrise a Lucio e fece il mimo – finse di bere – per insinuare che l’inquilino del n.6 avesse alzato tanto il gomito da non sentire neppure le cannonate.

    Riccardo spalancò lentamente la porta. Un brevissimo disimpegno precedeva una camera spaziosa e rischiarata dalla luce che entrava da una finestra chiusa ma con gli scuri esterni aperti e le tendine raccolte ai lati. Che l’uomo non stesse dormendo era visibile già dal disimpegno: il letto, disfatto, era vuoto.

    Domenico Maltempo? domandò Riccardo. Ancora una volta, non ricevette alcuna risposta. Entrò nella stanza furtivo come un felino.

    Un letto matrimoniale con comodino e lampada ad ambedue i lati; un vecchio armadio 195 x 90 centimetri dentro una nicchia nel centro della parete est della stanza; un ventilatore a soffitto; un citofono; un televisore a schermo piatto montato sulla parete e un bagno privato. La porta del bagno era aperta. Un puzzo di erbacce e sterpi bruciati appestava l’ambiente.

    Riccardo, a disagio, accarezzò la fondina della sua Beretta 92FS.

    DOMENICO!

    Lucio raggiunse un punto della camera da cui era possibile sbirciare nel bagno. Si trattava di un vano piccolo, claustrofobico. La cabina della doccia era semitrasparente, nessuno avrebbe potuto nascondersi al suo interno. Guardò il collega e scosse la testa. Riccardo gli indicò la finestra, poi slacciò la fondina della sua pistola ed estrasse l’arma, a cui tolse la sicura. Scrutò il guardaroba nella nicchia. Sospettava che il forestiero vi si fosse nascosto dentro.

    Lucio aprì la finestra, la richiuse, provò a forzarla da chiusa, la riaprì e guardò dabbasso. Si voltò verso Riccardo e gesticolò per fargli intendere che le ante erano state chiuse dall’interno, quindi indicò il letto. Giacomo, che indugiava nel disimpegno, borbottò qualcosa in merito all’armadio. Riccardo e Lucio gli fecero cenno di uscire in fretta dalla camera.

    Per qualche istante parve che nessuno sapesse cosa azzardare. Poi Lucio si abbassò di colpo, senza preavviso, inginocchiandosi per sbirciare sotto il letto. Si rialzò in piedi. Scosse di nuovo la testa. Riccardo era teso, continuava a pensare che Maltempo non potesse aver lasciato la stanza. Volse la canna della sua pistola al guardaroba.

    Lucio s’accostò alla parete est e vi adagiò la schiena. Si mosse come un granchio, rasente al muro. Avvicinatosi all’armadio, allungò una mano e ne aprì un’anta.

    Il mobile sembrò vuoto. Dentro non c’erano vestiti, neppure un singolo indumento. Le grucce, di metallo, tintinnarono toccandosi. L’altra anta si aprì da sola, lentamente e cigolando. Apparvero due cuscini riposti l’uno sull’altro, nient’altro.

    Riccardo ripose la Beretta nella sua fondina. Insomma, commentò poi, qui dentro non c’è nessuno… benché non sia possibile.

    Già, rispose Lucio. Sembrerebbe un enigma.

    Giacomo rientrò nella camera. L’armadio, disse, è stato spostato: sta troppo fuori.

    Cosa? chiese Riccardo pur avendo già capito.

    "Il guardaroba non sta più del tutto dentro la nicchia,

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