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Cromosoma 4. Storia di uno sbaglio di natura
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E-book345 pagine4 ore

Cromosoma 4. Storia di uno sbaglio di natura

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Info su questo ebook

Tutto sta nel sottotitolo. Una vita si fa al mondo e non sa, non conosce cosa c’è dentro e via da lei, sente solo di essere affamata di vita. Piano piano spalanca gli occhi e vede e s’incanta dinanzi a tutto ciò che ogni giorno scopre: i genitori, la sorella, i nonni. Poi verranno i compagni, la strada, la scuola. Un destino avverso però, già nel fiore della fanciullezza, sembra voler spezzare lo stupore che è in lei rinchiudendola nel mondo a parte della diversità fisica: gli handicappati, anime considerate solo come carico sociale. Consapevole fin dall’inizio di quel che le è accaduto, senza deciderlo, istintivamente, sceglie di non arrendersi all’ipocrisia della morale comune. Dal fiume della vita cercherà di accettare sempre l’ombra e la luce, la gioia dei giorni splendenti e quelli bui del dolore, la sofferenza, la solitudine. Ogni volta con spirito controcorrente va avanti conquistando mete inimmaginate. Decisa a vivere e non a farsi vivere.

Paola Nepi
nasce a Montevarchi nel 1942. Cresce con la sorella Anna in una famiglia operaia nel cuore del paese. Già a nove anni è costretta a fare i conti con la malattia, malattia che poi non le permetterà di compiere gli studi. La sua scuola diventa la strada, la vita che ogni giorno si inventa. Le letture, i viaggi, gli amici, sono le tante vie al conoscere. Amante appassionata di tutta la musica, negli anni ’70 si dedica alla ricerca di canzoni e filastrocche popolari della sua terra, che ripropone in feste di paese, cantando a cappella con la sua bella voce naturale. E nel momento in cui la malattia le spenge la voce, emerge la scrittura che Paola ha sempre coltivata e tenuta come intima vita attiva.

*All’interno del volume sarà indicato il link del sito a cui collegarsi, dove cliccando su "Canzoni Popolari”, si potranno ascoltare le canzoni della tradizione popolare pugliese e toscana, interpretate da Paola.
LinguaItaliano
Data di uscita30 giu 2020
ISBN9788875423407
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    Anteprima del libro

    Cromosoma 4. Storia di uno sbaglio di natura - Paola Nepi

    Prefazione. Imperdonabile

    I Sonetti ad Orfeo di Rainer Maria Rilke, una delle opere cardine del Novecento, recano una dedica misteriosa ed enigmatica: Monumento funebre a Wera Knoop. Chi è questa donna? Perché il suo nome figura in esergo ad una raccolta poetica che racconta una discesa agli inferi tutta interiore, un progressivo e inesorabile congedo dalla vita? Wera è la figlia di uno scrittore abbastanza conosciuto, in Germania, all’inizio del Novecento: Gerhard Ouckama Knoop, amico di Wedekind, di Thomas Mann e di Rilke. La sua secondogenita viene alla luce nel primo anno del nuovo secolo, il 1900: sin da bambina prende lezioni di disegno, di pianoforte e di danza, ma la sua passione dominante è il ballo. Giovanissima viene scritturata dal Teatro dell’Opera di Monaco, ma ben presto è purtroppo costretta a lasciare il palcoscenico: a diciotto anni le viene diagnosticata, infatti, una forma grave di leucemia. Wera perde quasi subito l’uso delle gambe e si rassegna ad eseguire al pianoforte, prigioniera nella sua casa, i balletti dei quali fino a poco prima era stata protagonista. Poi la malattia colpisce l’uso delle braccia e delle mani ed è costretta a separarsi anche dal suo pianoforte. Le rimane una risorsa: la pittura. E allora disegna, stringendo il pennello con due sole dita, decine e decine di bozzetti, di acquarelli, di schizzi nei quali ritrae sé stessa nel gesto della danza. Purtroppo la leucemia è inesorabile e le toglie anche l’uso delle dita. Wera è costretta a rivivere la musica, la danza, i suoi movimenti soltanto nell’immaginazione, rinchiusa dentro un corpo che non è più il suo. Durante questo suo progressivo congedo dai sensi, che smarrisce uno dopo l’altro, Wera tiene un diario, preciso, meticoloso: una cronaca esatta della sua sofferenza, ma anche del suo incontenibile desiderio di vita.

    Cromosoma 4, il libro che avete tra le mani, è, per un curioso caso del destino, lo specchio, declinato al presente, della storia di Wera. L’itinerario di Paola, Paola Nepi, segue infatti le stesse identiche stazioni del progressivo viaggio verso gli inferi della sua giovane antenata. Azzannata alle spalle da una malattia altrettanto inarrestabile della leucemia, la distrofia muscolare, anche Paola smarrisce una dopo l’altra, in un arco di tempo ben più esteso, le parti del proprio corpo: in un moto di inarrestabile regressione fisica che per qualche misteriosa ragione fisiologica parte dal basso, dagli arti inferiori, e si spinge fino alla sommità del corpo: prima i piedi, poi le gambe, il busto, le braccia, le mani, il collo, il capo. Fino a rendere l’involucro del corpo uno sbaglio, un errore, un sacco apparentemente inerte e inutile, se il dolore non provvedesse a ricordare costantemente la sua esistenza. C’è una radicale, essenziale differenza, però, tra la parabola di Wera e quella Paola: dopo essere entrata irreversibilmente in coma Wera, nei primi mesi del 1920, esattamente un secolo fa, si spegne per sempre. Paola, al contrario, ha conservato ancora intatto, al di là e oltre ogni ragionevole previsione medica, la sua voce inconfondibile, un flatus vocis che per quando acusticamente debole, quasi inavvertibile, è ancora in realtà alto e sonante: anzi, la sua voce canta a così alta intensità che finisce per assordare, quasi, chi ha la ventura e la fortuna di poterla ascoltare. In questa élite, in questa comunità di udenti privilegiati, stanno per entrare anche i lettori di Cromosoma 4.

    Verso quali destinazioni, lungo quali sentieri porta la lettura delle pagine di Paola? Innanzitutto dentro una selva (la metafora che i poeti del Seicento utilizzano più spesso per definire l’essenza della narrazione) del tutto non familiare. Cromosoma 4 non è un romanzo convenzionale, né un racconto di formazione, non è un memoriale, né una autobiografia. Ma non sfoglierete nemmeno le pagine di un diario, di una cronaca familiare, di un romanzo storico, di un racconto satirico. Certo, dalla scrittura di Paola affiorano innumerevoli frammenti (radici, foglie, rami) di ognuno di questi generi. Ma tutti sono fusi e distillati in una technè superiore che conduce il lettore verso una forma di scrittura alta e nobile, che non appartiene necessariamente alla pagina scritta, ma che si libera nel cielo della pagina detta: la forma, cioè, del monologo teatrale. Sì, perché, come direbbe Molière: ça c’est vraiment du théâtre. Ventitré dei venticinque capitoli del libro sono svolti coerentemente in prima persona (soltanto due, come vedremo, sono affidati alla voce epica della terza persona). Ed è dunque naturale che in queste pagine soffi prepotente il flusso vitale del teatro. Di un teatro che parla, che assume la cadenza piana della parola, ma molto più spesso di un teatro che canta. Mentre leggerete le memorie, le annotazioni, i ricordi, le invettive, le cronache della battaglia estenuante tra Paola e la Bestia (come lei stessa chiama costantemente la malattia) dovete immaginarvi il suo corpo sottile ed eretto (lo scoprirete, lentamente) che, dall’alto del suo metro e settanta cinque centimetri, occupa saldamente il centro della scena. E che piantando gli occhi in quelli degli spettatori (non lettori, spettatori…) canta la sua vita, con la forza e la passione di una grande aria d’opera, di una grande scena drammatica. Non dovete aspettarvi una Violetta, una Norma, una Lucia, troppo lontane dal tempo di Paola, ma le donne tormentate, deliranti, infelici, ma anche esuberanti, accese, febbrili del teatro musicale del Novecento: la Maria del Wozzeck di Berg, la Katia Kabanova di Janacek, la Katerina Ismailova di Sostakovic, la Donna dell’Erwartung di Schönberg. Perché a loro assomiglia la pronuncia di Paola: mai dimessa, mai rassegnata, sempre pronta ad addentare pezzi di vita vera, sempre impegnata nella lotta tra il destino dei sommersi e quello dei salvati, sempre divisa tra l’urlo e la preghiera, tra l’invettiva e il sospiro.

    Tutti questi pezzi di vita sbucano fuori dalle pagine di Cromosoma 4 con una vitalità incontenibile e contagiosa. Paola parla in prima persona non tanto per raccontare sé stessa, ma perché è l’unico criterio d’ordine possibile per non essere sommersa dal fiume di uomini, donne, cose, oggetti, colori, sapori, paesaggi dentro il quale è stata ed è tuttora immersa. In due soli momenti la voce della narratrice smette di dire io e si rappresenta, si racconta, come fosse la protagonista di una storia che non la riguarda. Il capitolo in cui, con rispetto, pudicizia ed eleganza, racconta l’irruzione nella sua esistenza del principio d’amore. E il capitolo finale in cui tra sonno, sogno e veglia Paola immagina di abbandonare la prigione del suo letto, della sua posizione eternamente distesa, per riguadagnare la posizione eretta: e ascolta i passi, i sensi, gli odori, i colori, i sapori che, quasi tutti, invece le sono negati. E così facendo disegna una mappa precisa, esatta, non del mondo di fuori, ma del suo mondo di dentro: le stanze della sua casa, i fiori del suo giardino, i mobili e gli oggetti di una meticolosa topografia domestica. Come se la casa fosse la mappa di quel mondo, la riproduzione in scala, ma fedele, di ogni altra parte dell’universo. Una chiave per accedere alle meraviglie che la Bestia le ha rubato.

    In uno studio seminale di qualche anno fa Laura Boella ha raccolto sotto il cielo tempestoso delle cosiddette Imperdonabili (declinazione al femminile degli Imperdonabili di Cristina Campo) cinque scrittrici del Novecento riunite da una irrefrenabile attitudine all’indipendenza, al lavoro solitario, a sentirsi a disagio nel mondo. Tutte però perennemente immerse nella necessità assoluta della scrittura, unico strumento di cura e di salvezza. Tra di esse, accanto alla stessa Cristina Campo, a Milena Jesenska, a Marina Cvetaeva e a Ingeborg Bachmann, figura anche Etty Hillesum, una presenza che a Paola è assai cara. Una donna, morta a 29 anni nel campo di sterminio di Auschwitz, alla quale solo l’infamia della Shoah ha impedito di diventare la maggiore scrittrice del Novecento. Ma che nel suo sterminato Diario ha lasciato la testimonianza di una scrittura meticolosa, quotidiana, incessante, quasi chirurgica: una radiografia dell’esistenza che è e rimane un modello insuperabile di prosa diaristica. Alla eletta schiera delle imperdonabili appartiene senza dubbio (insieme a Wera, la sua centenaria antenata) anche Paola Nepi. Una donna che ha tutto il diritto e il dovere di essere, ai nostri occhi, imperdonabile. Imperdonabile perché non ha mai accettato che la Bestia la divorasse fino in fondo. Imperdonabile perché ha infranto la convenzione secondo la quale il malato è, ipso facto, minoranza. Imperdonabile perché in un tempo in cui l’handicap fisico era visto come una barriera insormontabile, ha rivendicato il diritto di viaggiare, di studiare, di andare per il mondo. Imperdonabile, e scandalosa, perché non si è arresa alla vulgata medica secondo la quale sarebbe stata condannata fatalmente a morire. Imperdonabile perché non ha mai smesso di credere alla necessità assoluta, irrinunciabile della scrittura: la carne e il sangue di questo libro. Scrivere, sempre e comunque, in qualunque posizione si sia trovato il suo corpo, eretto, seduto o disteso, non è per Paola una banale terapia, un semplice aiuto alla vita. Ma è semplicemente – come accade a ogni scrittore – il modo più immediato, efficace, indispensabile per dare forma al tumulto disordinato dei propri pensieri: che vengano da un corpo malato o da un corpo sano non importa. Anzi è un dettaglio. Imperdonabile, infine, perché, la scrittura di Paola continua a martellarci, a inseguirci, a far sentire la sua prepotente presenza. Anche in questi anni in cui il suo legame con il mondo si è ridotto ad un dito, un solo dito della sua mano, che continua inesorabilmente a disegnare, lettera dopo lettera, parola dopo parola, l’impronta che la sua mente madre lascia, lascerà nella mente figlia di tutti noi. Di questo dono incommensurabile ogni lettore di Cromosoma 4 sarà, giunto all’ultima pagina, consapevole e riconoscente. E si trasformerà, senza volerlo, nel testimone di una splendida e lucente imperdonabilità.

    Guido Barbieri

    1. Lo Strappo

    Il momento per venire al mondo, maggio ’42, non era certo dei più belli, fuori c’era la guerra e tanta miseria, non c’era da cantare, il ceppo però era buono. Non che in casa si navigasse nell’oro ma per i tempi ci si contentava. I miei, babbo e mamma, erano due bravi operai, lui meccanico fuochista, lei alla rifinitura del cappello nel più grande dei cappellifici cittadini: La Famigliare. Ad aspettarmi poi c’era anche una sorellina, Anna la primogenita, molto attesa, molto desiderata, tanto bella e in carne da meritarsi il nome della nonna paterna, la prima Anna della famiglia. Il fatto che la prima nipote portasse il suo nome rese così orgogliosa la nonna che, quando io fui grandicella, non mancò mai di raccontarmi mille e mille volte, con dovizia di particolari, tutta la cerimonia che si tenne per il battesimo della novella nata. Il suo non era solo un racconto ma una vera e propria epopea che si chiudeva sempre con: "Sai era già novembre quando la si battezzò ma in chiesa s’andò col landò scoperto, sembrava già rallevata, una bambola!" Terminata la narrazione e ripreso fiato, con sguardo tenero e carezzevole mi stringeva a sé quasi a soffocarmi; gesto amoroso, consolatorio ma inequivocabile nel suo significato. In effetti sembra che alla nascita io fossi stata uno sgorbio lungo, nero e urlante.

    La nuova gravidanza della mamma, in verità, aveva colto tutti di sorpresa e non era stata una gran gioia: Ora? Con la guerra? Le bombe? Mettere a i’ mondo un’altra creatura? In seguito i nonni, parenti e il vicinato si misero tutti il cuore in pace in attesa di vedere cosa sarebbe uscito fuori e con la fervida speranza che almeno fosse un maschio, un futuro giovanotto che un giorno avrebbe continuato il casato. Al mio arrivo perciò la delusione non fu da poco. Ma dopo i primi: "Aah!! Ooh!" per un’altra citta, quando videro i miei occhi, lo sconcerto si mutò in curiosità fiduciosa. Poco convinta, nel suo eterno scetticismo, la prima a proferir parola fu la nonna Zarelia: O indò la vorrà andare con quei du’ fanali spalancati? Tutto questo, naturalmente, io lo seppi dopo nelle storie di casa, storie che mi allevarono come il latte materno.

    Ad onor del vero il latte di mia madre, fin dalle prime poppate, tanto ne ingozzavo quanto ne rendevo: E come potevi fare a mandallo giù?, mi raccontava lei quando mi alzai da letto dopo partorito in casa un c’era altro che: due acciughe, cipolle e pane di saggina, le mangiai, avevo fame! Meno male che per più d’un mese ci salvò il latte della mucca di’ Migliorini, poi i’ babbo, quando usciva di fabbrica, andò a lavorare per uno che faceva mercato nero e in casa qualcosa in più tornò ma avevi patito, un tu dormivi né notte né giorno, si vedeva che tu avevi patito. Se l’inizio al sapore di cipolle fu rivoltante, sembra che poco dopo mi sia buttata su quel che c’era con una tale foga che presto ripresi chili e tempo perduto.

    Anche se solo un fagottino come tutti i neonati, ero un corpo vivo in più che chiedeva cibo, tempo e spazio e, chi mi aveva messa al mondo, il babbo e la mamma non desideravano altro che darmi il meglio, insomma al mio arrivo, ai già tanti problemi, si aggiunse anche quello della casa.

    La nostra casa non era davvero una reggia; in quattro in quelle due stanzucce, camera e cucina, separate da una scala condominiale con relativo pianerottolo, il cesso situato su un terrazzino ed in combutta con l’inquilino accanto, era appena un tetto, ma amore, affetti e l’indispensabile per vivere erano assicurati, il nido insomma prometteva bene. Infine, e per completare il quadro ambientale, in paese nonostante le bombe, le ciminiere continuavano a fumare ed il lavoro c’era.

    La guerra finì poco dopo i miei primi passi. Io appena mi resi conto dove ero e chi fossi sentii esplodere in me l’incanto per tutto quello che mi circondava. Cuor contento, mi chiamava la nonna Anna.

    In quello stesso periodo un altro evento allietò la famigliola, dalle due stanze di via Roma dove avevamo visto la luce Anna ed io, ci spostammo al 131 di via Cennano, primo piano quattro stanze, gabinetto fra le mura di casa e tutto nostro e, scesa una breve scala in pietra, un grande orto giardino che in breve divenne il mio Eden e fece più grande il mio mondo e la mia gioia.

    E fui contenta negli anni che seguirono, crebbi contenta di scoprire: l’asilo, i compagni con i quali inventavo sempre nuovi giochi, la strada, il paese, la gente e poi la scuola che frequentai con gioia, una bambina come tante che dopo guerra sciamavano per il paese con la loro allegra energia. Così andò fino ad un certo giorno di un certo anno quando l’ombra scura del male si abbatté su di me e sconvolse tutta la famiglia.

    Il fatidico strappo che mi mutò da una creatura come tante nell’additata fu quello dei nove anni quando gli occhi di mia madre, in un’afosa giornata d’estate, si posarono per caso sulla mia schiena e rivelarono al suo sguardo l’asimmetria delle mie spalle. D’un colpo si spalancò in casa l’abisso.

    Sarà stata la spensieratezza dell’infanzia ma chi sentì meno di tutti la ferita fui proprio io, anche se mi dette fastidio il trambusto che mi si creò intorno. Non capivo come mai mi parlottassero alle spalle e a mezza voce di male, di malattia, destino. Non sopportavo quel continuo maneggiarmi la schiena seguito sempre da un mesto scuoter di testa degli astanti e quei silenzi, i misteri che si muovevano intorno. Insomma tanto fecero che mi si mise addosso una smania birbante per aver scombinato tutto e tutti. Vista la situazione tentai così di rimediare dandomi un gran daffare per far coraggio all’intera tribù, non immaginavo di fregarmi con le mie stesse mani. Da allora in poi, ad ogni aggravio del mio malanno, fu sempre la solita musica, loro che si stracciavano le vesti, io al contrario che pareva me ne fregassi, me la buttassi dietro le spalle.

    Nel manifestare lo sconcerto però avevano modalità molto differenti fra loro. Mia madre, la più dura a rasserenarsi e in eterna battaglia tra dolore, ansia e i conti di casa da far quadrare, mi recitava ogni volta tutta la cronistoria delle sue tribolazioni finché io, fra dolore e paura sbottavo, lei urlava che non meritavo niente e fra noi cadeva il silenzio. Solo quando smetteva di vomitare parole che mi rimbombavano nella testa e tornava a guardarmi come prima dell’uragano, la paura che mi soffocava allentava la sua morsa ed il sereno tornava tra noi. Mia madre però era come un calderone sotto il camino, per farla sbollire ci voleva tempo. Mio padre invece non se la pigliava mai con me, anche lui tuttavia esorcizzava il suo sconcerto in maniera molto plateale. Il prologo era una sfilza d’improperi contro l’universo mondo, santificava poi lo sfogo con due o tre moccoli, chiudendo il tutto con: Non te la pigliare Paolina, per te ci sarò sempre io!, l’immancabile frase di chiusura. Grazie babbo ma sai che consolazione, io che sogno già di volare!, avrei voluto rispondere ma tacevo limitandomi a storcere il naso.

    Il solo rammentare mio padre mi evoca immagini, situazioni, sentimenti, emozioni in cui mi piace annegare, non voglio però dilungarmi su di lui, solo qualche tessera del mosaico quale era. Adoravo mio padre, era un tipo ameno, allegro, gran lavoratore, geniale; dal niente riusciva spesso a creare il tutto. Conservo ancora come un gioiello prezioso una macchinetta per fare la pasta corredata di dischi di forme diverse. La tirò fuori, nel lontano 1943, dal bossolo di una bomba e fu una manna per le minestre mie e di Anna. La guerra infuriava, fuori non si trovava niente da comprare, un po’ di farina in casa c’era sempre per le nostre pappe fatte appunto di pastina e poco altro. Fra i tanti pregi portava in sé anche qualche difettuccio. Era un po’ facilone e, quando qualcosa non gli tornava, prendeva subito fuoco ma erano fuochi di paglia, si spengevano subito e senza conseguenze.

    Nato da due genitori amabili, che si amavano e sapevano amare, era cresciuto fra zie, cugine e nonne, tutte donne in adorazione dell’unico maschio di una vasta tribù infantile di femmine, tutte l’avevano tenuto nella bambagia e lui, in quel nido era cresciuto leggero e spensierato.

    Fin da ragazzo fra le tante passioni custodite in cuore la più amata era stata la musica. Forse avrebbe voluto studiare e fare il musicista, ma le modeste condizioni famigliari l’avevano rimesso subito in carreggiata e costretto ad abbandonare sogni di ribalte sonore. Per la scuola si era dovuto contentare di arrivare fino alla sesta classe come allora si usava per chi volesse saperne un po’ di più. Ma lui non si perse d’animo. Finita la scuola andò a lavorare come garzone nell’officina di suo zio per imparare il mestiere, fece tesoro dei pochi soldi che raggranellava e si pagò le lezioni da un maestro di musica privato, il maestro Dami, esimio violino di spalla nell’orchestra del Teatro Comunale di Firenze. Imparò senza fatica i segreti del pentagramma, scale, toni e semitoni, imparò a suonare con una certa maestria il violino, da solo ce la fece anche col mandolino. Per vari anni suonò in un complessino ma, quando poi mise su famiglia, lasciò la vita di artista dilettante perché non si conciliava né col lavoro né col mestiere di meccanico: Non si può Paolina battere il ferro e poi far vibrare le corde del violino, diceva con una punta di mestizia ma sorrideva e se ne andava al lavoro fischiettando in sella alla sua eterna bicicletta. Per tutta la vita gli restò così l’anima, la sensibilità del musicista, e quanto a suonare i cari strumenti, si contentò di strimpellarli ogni tanto in famiglia. Fino agli ultimi suoi giorni quando prendeva in mano l’amato violino: Vedi Paola queste due fessure a forma di S nella cassa del violino? mi diceva sono indispensabili per far vibrare le corde e far uscire il suono, ma la loro forma ha un compito preciso, significano: studia sempre! e carezzava il vecchio strumento come una creatura.

    Lo so, mi sono lasciata prendere la mano ricordando mio padre, mi fermo qui e torno allo sconquasso che provocò il mio male ricominciando da Anna, la mia unica, cara sorella. Di fronte al fatto increscioso che mi colpì, dapprima restò muta tanto fu lo sconcerto. Non so quante volte l’abbia vista tacita ringoiare lacrime, sempre mi difese da ogni scherno delle compagne di giochi, divenne insomma una seconda mamma.

    Anche se era solo una bambina, all’epoca aveva appena 12 anni, lo fece fin dal primo giorno dello scomodo evento ed ha continuato a farlo per tutta la vita. Penso che a suo modo cercasse di compensare lo svantaggio che il caso mi aveva riservato. So come nella dimensione della sorella sana abbia mal sopportato l’accaduto.

    C’erano poi le due nonne, quella materna, ‘l’abbandonata’, la Zarelia che, nel suo pratico cinismo e tanto per andare al sodo, liquidò il tutto con un secco: E ora quanto la ci costerà? e l’Anna, l’amata nonna paterna, che mi spalancò braccia, cuore e stanze dove io facevo correre passi e fantasia.

    Constatata la disgrazia, digerito un po’ lo sconforto, tutta la famiglia, parenti compresi, si mise alla ricerca di come correre ai ripari. Ebbe inizio così la trafila delle infinite visite mediche con quel continuo spoglia/rivesti da cui uscivo piena di vergogna.

    Mille e mille mani di praticoni mi ignudarono, misurarono, radiografarono, frugarono, passarono e ripassarono sul mio corpo ancora silenzioso di bambina. Il primo gran cerusico che mia madre consultò come un oracolo fu il professor Oscar Scaglietti, mago delle ossa conosciuto in tutto il mondo. Luminare che continuammo a consultare regolarmente ogni tre mesi per ben sei anni: Perché la citta va curata bene, altro che Mutua, fu il motto di mia madre.

    Il mattino che partimmo dal paese destinazione Firenze per il primo consulto, l’ansia fra noi si tagliava a fette.

    Ho ancora negli occhi la scritta che troneggiava sulla facciata dell’immenso edificio che ospitava l’ospedale, Sorgi e Cammina! era inciso sul frontone centrale e sembrava una promessa per tutti quelli che entravano fra quelle mura

    Durante la prima agognata visita, il professore non si sbottonò granché nella diagnosi: Leggera scoliosi scolastica. sentenziò e come unica terapia ordinò: crociera metallica e letto di posizione, due maledetti marchingegni tutti ferro, acciaio e cuoio degni di stare fra i medioevali strumenti di tortura. Poi senza guardarci in faccia, aggiunse: E cure climatiche, mi raccomando. Davanti lo sbigottimento dei miei, sottolineò, ad alta voce: Mare, sole, nuoto e remo, cure cli-ma-ti-che, ha capito signora? Eh! Se aveva capito, si vedeva da come le si era aggrottata la fronte e mi puntava gli occhi addosso. Anch’io però avevo capito una cosa, una cosa che mi rese ancora più odioso quell’uomo. Avevo capito che il professorone si era accorto subito che noi non eravamo fra quelli che facevano vacanze, che il mare lo avevamo visto solo in cartolina. Si era nel 1951, la guerra era finita da appena sei anni, la gente aveva dovuto ricominciare tutto da capo, mare e monti erano cose da ricchi. Lui di certo era fra i pochi privilegiati, visto le parcelle che prendeva ad ogni visita, lo ricordo bene 2.500 lire, un bel po’ per il magro stipendio di mio padre e pagate in anticipo al bancone della cassa alla portineria. Peggio che in bottega! era stato il lapidario commento di mia madre. Con le continue visite dal professor Scaglietti cominciarono anche i viaggi su e giù dal paese alla città di Firenze, viaggi che la mamma sacralizzò fin dalla prima volta col rimpianto per la pace perduta: Un m’ero mai mossa di casa, m’ha fatto movere i’ male! Frase a cui seguì un sospiro così profondo che pareva non finire mai, sospiro che lasciò anche me senza fiato e mi separò da lei

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