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Le indagini di Micol Medici: Le spose sepolte | Musica sull'abisso
Le indagini di Micol Medici: Le spose sepolte | Musica sull'abisso
Le indagini di Micol Medici: Le spose sepolte | Musica sull'abisso
E-book721 pagine9 ore

Le indagini di Micol Medici: Le spose sepolte | Musica sull'abisso

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Info su questo ebook

Questo cofanetto contiene due romanzi con protagonista l'ispettrice Micol Medici

Le spose sepolte
Dove sono finite quelle donne misteriosamente sparite da anni, mogli e madri di cui i mariti sostengono di non sapere nulla? Uno dopo l’altro, i loro corpi vengono ritrovati grazie a un killer implacabile che costringe chi le ha fatte scomparire a confessare dove si trovano le loro ossa e poi uccide i colpevoli, sempre assolti dai tribunali per mancanza di prove. Il rituale è feroce e spietato: l’assassino vuole così rendere giustizia alle spose sepolte. I pochi indizi lasciati sulla scena del crimine conducono a un piccolo paese, Monterocca, soprannominato la Città delle Donne, un territorio nell’Appennino bolognese circoscritto da mura ed elementi naturali, governato da una giunta completamente al femminile. Il team investigativo, in cui spicca la giovane ispettrice Micol Medici, si trova catapultato in una realtà di provincia quasi isolata dal mondo, con una natura montana che fa da contorno e molti misteri avvolti nella nebbia. Un inquietante enigma conduce gli inquirenti al Centro Studi Rita, un’azienda farmaceutica che sta sintetizzando un anestetico speciale: lo stesso utilizzato dal serial killer come siero della verità per far confessare i colpevoli. Ma quanti altri segreti si nascondono dentro i confini del piccolo paese? Solo Micol ha l’innata capacità di scoprirli, anche se questo potrebbe costarle la vita…
Musica sull'abisso
Li ha uccisi nel corso degli anni. Uno dopo l'altro. Tutti allievi della stessa classe, tutti lo stesso giorno. L'ultima volta che Gwendolina Nanni, giovane imprenditrice bolognese, è stata vista viva era mattina molto presto e come al solito stava correndo lungo gli argini del Bacchiglione prima di andare al lavoro. Il suo corpo è stato ritrovato molti giorni dopo in un’ansa del fi ume, ormai irriconoscibile. Il caso viene chiuso come suicidio dalla polizia locale. Ma i familiari non ci stanno e si rivolgono alla Sezione Omicidi di Bologna, dove è stata da poco trasferita l’ispettore Micol Medici. Le ricerche vertono attorno agli ex-studenti di un liceo storico bolognese, il Cicerone, dove si diploma la migliore gioventù della città. Ma c’è una classe del passato che ha avuto un destino infausto: uno dopo l’altro, anno dopo anno, stanno morendo tutti coloro che quindici anni prima sono stati compagni di classe. Tutti in circostanze sospette e tutti lo stesso giorno, il 21 febbraio. Cosa lega questi delitti? E com’è possibile che una canzone, scritta in latino e cantata da alcuni di loro, abbia previsto con anni di anticipo in che modo sarebbero morte le vittime? Micol, con la sua abilità speciale legata ai suoi incubi notturni, cerca di scoprire la verità, muovendosi sullo sfondo di una città dove ogni torre e ogni portico sembrano nascondere qualcosa.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2020
ISBN9788830517660
Le indagini di Micol Medici: Le spose sepolte | Musica sull'abisso
Autore

Marilù Oliva

Marilù Oliva Nata a Bologna, è scrittrice e insegna Lettere alle superiori. Autrice di due trilogie noir, ha vinto il Premio dei Lettori Scerbanenco con Questo libro non esiste (2016). Si occupa da sempre di questioni di genere. Ha curato le antologie Nessuna più – 40 autori contro il femminicidio e Il mestiere più antico del mondo?, entrambe patrocinate da Telefono Rosa. È caporedattrice di Libroguerriero.it e cura un blog su Huffington Post.

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    Anteprima del libro

    Le indagini di Micol Medici - Marilù Oliva

    Le indagini di Micol Medici

    eBook ISBN: 978-88-3051-766-0

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    Le spose sepolte

    eBook ISBN: 978-88-5898-014-9

    © 2018 HarperCollins Italia S.p.A., Milano

    Musica sull’abisso

    eBook ISBN 978-88-5899-901-1

    © 2019 HarperCollins Italia S.p.A., Milano

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall'editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l'alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell'editore e dell'autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell'editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l'opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    MARILÙ OLIVA

    LE SPOSE SEPOLTE

    © 2018 HarperCollins Italia S.p.A., Milano

    pubblicato in accordo con

    Loredana Rotundo Literary Agency

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    eBook ISBN: 978-88-5898-014-9

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall'editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l'alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell'editore e dell'autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell'editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l'opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    A Sandra Sandri, Desirée Fusco,

    Emanuela Orlandi, Roberta Ragusa.

    E a tutte quelle che non hanno più fatto ritorno.

    Immaginate una bimba.

    E un corridoio che le si spalancava davanti, minaccioso come l’antro di un ciclope. Le pareva interminabile – a lei così minuscola –, fosco, in fondo solo la luce offerta dallo spiraglio di una porta laterale rimasta socchiusa.

    La piccola strillò: alle sue spalle si ergeva una figura in ombra, avvolta, dalla testa ai piedi, da un lungo mantello nero. I passi avanzavano artificiosamente pesanti. Tum tum tum. Chiunque fosse, voleva fingersi un mostro. Emetteva versi gutturali. La bimba riconobbe un timbro familiare.

    Era sola in casa, sola e in compagnia di quella presenza.

    Corse come una pazza per l’andito in ombra, sapendo che sarebbe stato tutto inutile, perché, alla fine dell’appartamento, il corridoio si interrompeva e il muro l’avrebbe fermata. Sarebbe rimasta intrappolata.

    Nessuno l’avrebbe aiutata. Eppure lei non smetteva di strillare. Nessuno giungeva mai in suo soccorso. Nessun vicino ascoltava quando c’era bisogno. La gente ha l’incredibile capacità di farsi di nebbia quando qualcuno invoca aiuto.

    L’inseguimento prese velocità, la bambina superò tutte le porte, sentì il fiato sul collo, i passi nemici sempre più vicini, rispose con urla incontrollate; l’affanno era lo stesso di chi casca in acque alte senza saper nuotare, l’arrancare vano di chi cerca una via di scampo mentre sente l’invasione nei polmoni.

    Il tempo e lo spazio si dilatarono. Ogni centimetro perso in un secondo divenne un’autostrada macinata in ore e ore. Perché la paura, istinto primordiale, conosce la chiave d’accesso al nostro più recondito orologio. E l’orologio della bimba era in allarme rosso. Rallentò come se fosse vicinissimo il momento della sua morte e lei volesse captare tutto – ogni sensazione, ogni battito, ogni fotogramma – a trecentosessanta gradi, senza fretta. Perché, tanto, dopo sarebbe giunto il nulla, credeva.

    Arrivò alla fine del varco con una frenesia tale da sbattere contro la parete. Spalmata al muro, col cuore che batteva all’impazzata, sentì qualcosa afferrarle le caviglie. Delle mani, ma a lei sembravano artigli di strega. Gridò ancora più forte, mentre un movimento brusco la faceva cascare a terra, a pancia in giù. Gli artigli le arpionarono il bacino e la voltarono di scatto. Allora lei vide gli occhi del suo inseguitore, che già aveva riconosciuto. Erano neri come la notte nella sua stanza, quando si svegliava agitata e tutto era buio, e cominciava a invocare la mamma o il papà.

    Occhi decisi, implacabili, quelli che la stavano immobilizzando. Due diamanti neri incastonati nel bellissimo viso della sua baby-sitter, che fece cadere il mantello e la sovrastò, dopo esserle montata sopra con tutto il peso, le strinse i polsi saldandole le braccia sopra alla testa, lungo il pavimento freddo, e la fissò con quei due fari malvagi, occhi da battaglia colmi di kajal.

    La bimba ero io e ancora non sapevo nulla. Avevo da poco compiuto cinque anni e non sospettavo che la baby-sitter nutrisse un perverso godimento a tormentarmi di solletico. Imprigionata tra le sue grinfie, mentre le sue dita si infilavano senza pietà tra le mie piccole costole o sotto le ascelle, la mia voce ora trillava di isteria e divertimento. Ridevo e squittivo piangendo, poi ancora ridevo e mi lasciavo riempire le orecchie dai suoi insulti cantati in marocchino. Tra tutti, mi arrivava come una litania crudele che memorizzavo come Ibì Sciarrotà. Anni dopo avrei trovato la trascrizione corretta: «Ibin Sharmootah» mi sibilava nelle orecchie con ghigno malvagio la mia baby-sitter, e io credevo che fosse una formula magica.

    Solo da ragazza scoprii che non lo era affatto.

    «Ibin Sharmootah» mi diceva la fanciulla dagli occhi di diamante nero: «Quella puttana di tua madre».

    Il suo astio non era risolvibile a parole, ma mi schiaffeggiava oltre le risate e il carico sul mio esile corpicino. Andava avanti a tartassarmi per cinque minuti, si fermava appena un secondo prima che io mi facessi la pipì addosso dal solletico. Ogni volta riuscivo a trattenermi appena.

    «Ibì Sciarrotà» ripeté anche quella volta, e aggiunse trionfante: «Ho finito». Il suo odio mi trapassò, dentro il vestitino a fiori ricamato dalla sorella di mia madre. Mi aveva regalato sette vestitini, mia zia, tutti confezionati a mano, meraviglie all’uncinetto che avrebbero fatto invidia alla figlia di un re. Quello che indossavo quel giorno era giallo canarino, coi petali dei fiori bianchi in rilievo e un pistillo piatto giallo banana. L’odio s’insinuò tra i punti a croce, mi attraversò la pelle.

    Perché la baby-sitter cerca di farmi male senza farmi proprio male?, mi domandavo.

    Quando erano presenti anche gli altri adulti, lei era ben diversa. Mi guardava con tenerezza e mi parlava con pazienza. Usava i miei giochi per intrattenermi. Li impugnava, collegava i binari del trenino, li staccava, li lisciava, pettinava le mie bambole come se fossero di cristallo. Parlava con gli altri solo se interrogata e lo faceva con voce soave. Quando si rivolgeva a mia madre, era piena di deferenza.

    Non sapevo, allora, che occorre seguire la pista dell’odio come si fa con un fiume, andando all’inverso della corrente, per trovarne la fonte e capire tutto.

    Non sapevo che l’odio covato in pubblico e manifestato quando la casa si svuotava non era indirizzato a me, ma a mia madre.

    1

    A Monterocca la chiamavano la Circassa per il suo volto caucasico. La Circassa, infatti, aveva la pelle scura, un elegante naso aquilino e due occhi neri da lupa che nemmeno la matita dorata rendeva più mansueti, occhi che, oltre le lenti degli occhiali alla moda, puntavano l’anima di chiunque entrasse nella sua Farmachìa Artemisia: anche se stava parlando con un altro cliente, trovava sempre un secondo per avvolgere il nuovo avventore con lo sguardo e decifrarlo. Spesso indovinava il suo bisogno prima che parlasse e lo faceva leggendo in primis la postura, quindi i movimenti e la pelle del viso. «La pelle svela tutto di noi. È la carta sulla quale è scritta la nostra storia passata e presente» sosteneva.

    Sapeva riconoscere al volo alcune categorie di sofferenti: chi aveva avuto una colica, chi era piegato in due dall’ulcera, chi era schiavizzato dall’ansia, chi aveva il cuore infranto, chi covava un brutto male e chi sarebbe morto di lì a tre giorni. Senza contare che conosceva abitudini e problemi di tutti gli abitanti del paese – aveva una memoria di ferro – ed era solita risolverli coi suoi metodi naturali. Per chiunque fosse scontento, c’era la medicina tradizionale, da non snobbare, anzi: preziosissima quando le cose si mettevano male. Aveva chiamato Farmachìa Artemisia la sua erboristeria proprio perché lei non proponeva medicine – verso le quali non aveva nulla in contrario, vi era ricorsa abbondantemente l’anno in cui si era ammalata di una brutta polmonite – ma rimedi, soltanto rimedi, quelli che gli antichi greci chiamavano φάρµακοι. Grazie alle piante officinali, il suo laboratorio si colorava di profumi di foresta e bastava che lei aprisse anche solo una delle boccette metalliche in cui erano custodite le radici, le foglie, i petali o i rametti o qualsiasi parte vegetale essiccata, per far venire voglia al cliente di metterci dentro il naso e inspirare fortissimo. Raccoglieva personalmente tutto ciò che poteva, il resto lo ordinava. La gente sapeva che alle sue doti di erborista poteva accostare altre qualità meno terrene e più… non soprannaturali, ma telepatiche, forse collegate ai suoi profondissimi occhi neri. Per questo i cittadini nutrivano nei suoi confronti una sorta di timore reverenziale, frutto di un doppio sentimento che si sovrapponeva: la certezza che prima o poi avrebbero avuto bisogno di lei e la paura dei suoi presagi. La rispettavano e la temevano. Tutti tranne una persona, sua figlia Cecilia. Che in quel momento entrò con la sua divisa da guardia ecologica, si sfilò i roller e si diresse scalza verso un’anfora, la stappò e si accinse a versare un po’ di liquido in una boccettina metallica che aveva al collo.

    La Circassa la guardò con disapprovazione, ma era intenta a imbustare un vasetto di pomata di santolina, estratto da lei preparato per alleviare il prurito delle punture di insetto. Era aprile, già qualche zanzara cominciava a manifestarsi e la signora di fronte a lei si era presentata con due bubboni da puntura sulla guancia. La Circassa procedeva con gesti veloci. Le sue mani, dalle unghie dipinte con uno smalto rosso forte, erano solite gesticolare. E intanto non perdeva di vista Cecilia, che si era lasciata prendere troppo la mano e aveva inavvertitamente versato del liquido sul pavimento.

    Nemmeno il tempo che la cliente uscisse e la Circassa l’assalì: «Non potevi aspettarmi? Sei la solita menefreghista! Che bisogno hai di questa roba?».

    Effettivamente era da qualche settimana che Cecilia aveva sviluppato quella piccola dipendenza, ma non voleva dirle che di motivi per avere il morale a pezzi ne avrebbe potuto elencare diversi. Al momento, quello più impellente riguardava Bizé, l’alano che le arrivava all’anca e che le allietava le giornate da otto anni, quello che tutti gli abitanti erano abituati a vederle scorrazzare accanto, anche senza bisogno di guinzaglio e museruola, perché era un cane assai mansueto, quasi un fratello per lei. Ecco, dalla sera prima, durante il solito giro nei boschi, era sparito. E Cecilia temeva il peggio. L’aveva cercato invano dappertutto, chiamandolo a squarciagola, ma nulla, lui non aveva risposto correndo verso di lei come al solito. A Cecilia non interessava farsi consolare da sua madre; nei momenti di difficoltà detestava i suoi occhioni indagatori incollati addosso, pertanto cercò della carta assorbente per pulire, e non rispose alla Circassa. Il che la mandò su tutte le furie: «Sai quanto costa l’assenzio? Questo assenzio, in particolare, è uno dei più puri e cari. D’ora in avanti me lo pagherai, così imparerai a non sprecarlo».

    La figlia si limitò a fissarla con una faccia da schiaffi. Non sapendo in che modo reagire, la Circassa cominciò la sua rassegna di minacce, che, come sempre, avrebbe finito per non portare a termine.

    «Guai a te se tocchi ancora quell’anfora. Sai cosa faccio? La travaso. E ci metto della piscia di gatto al posto dell’assenzio, ahahah!»

    Alla ragazza scappava da ridere. Vedere sua madre tanto concitata, con quello sguardo così teatralmente minaccioso, le scatenò un impeto di ilarità. La Circassa se ne accorse. «Che cazzo ridi? Vattene da qui, mi fai solo disperdere energie, cretina!»

    Cecilia raccolse i suoi roller e uscì mandando al diavolo la madre. Fuori dal negozio si sedette su un basso pilastro e si infilò i pattini per riprendere la corsa lungo la via principale, quella che spezzava il centro urbano in due parti non proprio uguali. Da un lato, le abitazioni. Dall’altro, ancora abitazioni, poi gli orti e, a chiudere, i calanchi. La planimetria si sviluppava come un ovale lungo circa tre chilometri che da un lato terminava nelle porte, dall’altro in un bellissimo lago artificiale – alimentato in piccola parte da un torrente che si scorgeva sulla destra – le cui profondità erano state progettate da due architette norvegesi: rocce e acqua di provenienza sorgiva gli conferivano un aspetto fiabesco. Chiunque vi si accostasse, fin dai primi caldi, era tentato di bagnarsi nelle sue acque – e molti lo facevano, nelle zone in cui era permesso. Si poteva accedervi solo attraversando Monterocca, perché era inanellato da boschi che terminavano in cocuzzoli impervi e rocciosi, uno spettacolo fotografato compulsivamente dai turisti.

    Cecilia si diresse verso il lungolago con tutta la forza che aveva nelle gambe. La corsa impressa ai roller le dava uno slancio e un’eleganza che pochi pattinatori avevano, la grinta gliela conferivano le sorsate di assenzio appena mandate giù e la rabbia che sua madre le suscitava ogni volta. Sapeva di essere ingiusta con lei. Sapeva di offenderla con i suoi modi tremendi, ma una presenza ingombrante come quella della Circassa finiva per spingere a un bivio chi le stava accanto: costui poteva solo soccombere o rivoltarsi.

    Mentre l’erborista imbracciava l’anfora della discordia per occultarla, sua figlia, ormai lontana un chilometro e mezzo, si fermava di fronte all’incanto del lago Duse – a vederlo restava senza respiro ogni volta, nonostante d’estate vi si tuffasse fino allo sfinimento – e si sedeva sul bordo del pontile, i piedi liberi dai roller, senza calze, a penzolare sopra l’acqua.

    Alle sue spalle sopraggiunse Juana, luogotenente dei carabinieri del paese. La pelle morena e i tratti del viso tradivano le sue origini messicane. Aveva qualcosa di mascolino nel volto, un’espressione da dura; i capelli corti erano stirati ad arte, ma restavano dritti in modo un po’ innaturale, e l’effetto artificioso era aumentato dal biondo ossigenato. Aveva circa trent’anni, la bocca carnosa e una voce da baritono che le conferiva un’aria virile. Ciò non interessava agli uomini fissati con le nere, quelli che la sera arrivavano a Monterocca per corteggiarla e che ogni volta si ritrovavano come risposta un due di picche.

    Juana si accostò a Cecilia e dall’alto del suo metro e ottanta, guardando in basso verso la ragazza seduta, le chiese: «Non è un po’ presto per fare il bagno?».

    «Non ne ho nessuna intenzione.»

    «Brava. Non vorrei doverti venire a salvare.»

    «Be’, nel caso mi buttassi, tu lasciami là.»

    Si sorrisero.

    «Scherzi? Poi chi la sente tua madre?»

    Cecilia tramutò il sorriso in una smorfia amara. «Magari ti ringrazia.»

    «Non dire sciocchezze. Lo sai che ti vuole un gran bene.»

    «Forse ha qualche problema a dimostrarlo.»

    In quel momento la ragazza si accorse di una sagoma che galleggiava, vicino alla sponda sinistra del lago. Si alzò di scatto e la indicò: «Cosa c’è là?».

    Juana aguzzò la vista, ma non si capiva cosa fosse. Qualcosa di scuro e largo ondeggiava a fior d’acqua, come un grosso sacchetto della spazzatura. Le due si lanciarono in quella direzione, la messicana anticipando l’altra tanto che, quando la vicinanza le fece capire cosa affiorava vicino alla sponda del lago, si arrestò di colpo, si voltò verso Cecilia che arrivava di corsa, e la bloccò con le braccia.

    Quella la guardò con gli occhi sbarrati. «Che succede?»

    «Cecilia…»

    «Che cazzo c’è, perché mi stai trattenendo?» gracchiò presagendo qualcosa di brutto.

    «Cecilia, non guardare, vai via! C’è Bizé nel lago.»

    Juana era sicura, la sagoma era quella grigio scuro dell’alano bellissimo sempre accanto a Cecilia, tranne quando, talvolta, sfuggiva al suo controllo e se ne andava a bighellonare in cerca di cibo. Ma nessuno lo temeva, era un pezzo di pane. E adesso Bizé galleggiava sull’acqua senza vita e senza collare. L’urlo della ragazza risuonò tra le cime dei boschi, penetrò nelle cortecce, fece alzare in volo i rapaci, morì infine nelle sue ginocchia che non ressero: e lei si accasciò a terra, piangendo a dirotto dentro l’abbraccio della carabiniera.

    2

    Ludovico l’aveva portata sui colli prospicienti il versante ovest della città. L’idea era raggiungere un crinale e da lì perdersi con la vista nell’orizzonte, così forse sarebbe arrivato attenuato il peso delle parole che si sarebbero scambiati. Quell’incontro non prometteva nulla di buono rispetto alla loro storia, Micol se lo sentiva. E non in virtù dell’intuito che la caratterizzava anche al lavoro – era ispettore capo da un anno –, piuttosto per via di un presentimento profondo, quasi viscerale. Anche se lei non credeva alle premonizioni e a tutte quelle fantasiose manifestazioni fatte di segnali e pseudo-avvertimenti con cui le persone ricamano le possibilità della vita: era troppo concreta e votata al raziocinio per abbandonarsi a tali suggestioni. Eppure, quel pomeriggio strano, su quell’altura che non aveva mai visto, nella solitudine verdeggiante del vigneto accanto al quale lui aveva parcheggiato, le parve di essere immersa in una luce troppo tenue, troppo insidiosa e surreale. Qualche chilometro sotto, oltre a decine di discese che digradavano con dolcezza di curve e colori, Micol scorse le torri, marchio della città: la Torre Garisenda e, più alta, la Torre degli Asinelli. Bologna le sembrò distante anni luce.

    Ludovico le chiese di aspettare, doveva darle una cosa. Estrasse un pacco dal sedile posteriore dell’auto e glielo porse. Di nuovo quel presentimento: fosse stato per lei, non avrebbe mai sciolto il nastro blu, né strappato la carta regalo fantasia. Ci trovò dentro una scatola azzurra e subito le parve strana quella sensazione di bagnato sulle mani, quando la toccò. La sollevò: una macchia scura si stava diffondendo alla base della scatola, impregnandola di viola. Micol deglutì e la scoperchiò, gli occhi rassegnati.

    Lo sapeva che sarebbe stata una brutta sorpresa.

    Dentro c’era un cuore. Batteva ancora. E perdeva sangue. Tanto sangue, talmente tanto che le stava imbrattando le mani.

    Era da moltissimo tempo che Micol non si sentiva così triste: «Non devi darmi il tuo cuore, non voglio che…».

    «No, amore mio, non hai capito» aveva replicato lui, serafico. «Questo non è il mio cuore. È il tuo.»

    Micol si alzò di soprassalto nel letto. Aveva puntato due sveglie: quella sul comodino e quella del cellulare. Sapeva che ne avrebbe avuto bisogno, perché era andata a letto alle due di notte per colpa del suo fidanzato Ludovico che, proprio in vista di quella missione per lei tanto importante, le aveva fatto fare innumerevoli giri dei viali che circondavano il centro storico di Bologna per discutere della loro relazione e di cosa non funzionasse. Ecco perché faceva quegli strani incubi. La sera prima, lui guidava e parlava, ma senza guardarla negli occhi, e le ripeteva parole inconcludenti. Non è più come una volta. Stiamo assieme da cinque anni e non ce ne siamo mai andati in giro per il mondo. Quando ti cerco e non rispondi, poi non ti preoccupi di richiamarmi. Non ti trucchi mai, non ti vesti mai sexy.

    Lei aveva ignorato le ultime due proteste e aveva trascorso ore a giustificarsi, a rassicurarlo che certo, gli voleva bene, ma ogni tanto aveva la testa tra le nuvole e quello era un momento così delicato, lui lo sapeva benissimo: il suo superiore, il commissario Elio Maccagnini, aveva scelto lei come compagna di missione – oltre a un sovrintendente –, e nei giorni seguenti si sarebbe giocata tutto: carriera, autostima personale e rispetto del capo. Se il suo fidanzato fosse stato un po’ meno insofferente, avrebbe potuto mettersi da parte per un attimo e lasciarla lavorare, e le cose poi si sarebbero sistemate. Lui si fermava ai semafori, sospirava, replicava che gli atteggiamenti di lei erano consolidati, si trattava di una certa abitudine a trascurare la dimensione di coppia con tutti gli annessi e connessi. Nessun entusiasmo quando si incontravano, nessun pensiero carino, niente di niente; e più lei cercava di difendersi, più lui avanzava esempi di piccole mancanze quotidiane. Che avesse ragione? Così, si erano fatte le due di notte quando l’aveva riaccompagnata sotto casa, lasciandola con quel quesito che le ronzava in testa e il proposito di ripensarci con calma, appena avesse avuto un po’ di tempo per sé. Così, spossata e dubbiosa, aveva puntato la doppia sveglia per essere sicura di alzarsi e avere tutto il tempo di presentarsi lucida all’appuntamento con il commissario Elio Maccagnini che, eccezionalmente, sarebbe passato da casa sua a prenderla assieme al sovrintendente, Antonio Iacobacci, dal momento che la loro missione prevedeva tre giorni di trasferta e la sua abitazione era sulla strada.

    Ma la sveglia del comodino si era bloccata per colpa della pila che aveva deciso di scaricarsi proprio quella notte. E la suoneria del cellulare con cui si era illusa di destarsi – una sinfonia di Bach – anziché farla saltare in piedi l’aveva cullata nel sonno fino a che il commissario, stanco di aspettarla sotto casa, si era attaccato al campanello.

    Micol raggiunse il citofono del suo miniappartamento in pochi balzi e, appena sentito il suo «Sì?» tra il disperato e l’assonnato, Maccagnini indovinò come se l’avesse avuta di fronte: «Eri ancora a letto?».

    Lei si schiarì la voce: «Scusami. Cinque minuti. Dammi solo cinque minuti e scendo».

    Fu una furia di corse, vestiti infilati in fretta, cassetti lasciati aperti, il trolley riempito alla rinfusa e fuga giù per le scale.

    «Non capiterà più» furono le prime parole che Micol proferì appena entrata nella volante, dopo aver depositato il piccolo trolley nel bagagliaio. Nessuno aggiunse altro.

    Da via dei Lamponi imboccarono via Benedetto Marcello, direzione Murri, lasciandosi pian piano alle spalle Bologna, mentre lei si sistemava in una coda i lunghi capelli ricci, legandoli con uno dei laccetti neri che teneva al polso. Abbassò il parasole per guardarsi allo specchio. Non si era nemmeno lavata la faccia e si notava: gli occhi erano assonnati.

    «Sei riuscita a prepararmi un dossier sul posto in cui stiamo andando?» le chiese il commissario.

    «No, mi dispiace.»

    Lui le aveva chiesto un dossier stampato completo e lei aveva sprecato la serata a litigare col fidanzato, anziché fare il suo dovere. Mannaggia. Quanto le seccava essere presa in castagna. Tanto più che Antonio Iacobacci, il sovrintendente, ne approfittò subito per sciorinare al capo tutto quello che lui aveva imparato su Monterocca. Disse che si chiamava così per via di un antico bastione trecentesco arroccato su un pendio, di cui ora non era rimasto quasi nulla, anche perché era stato fagocitato dal bosco. Intanto a Micol veniva il nervoso, perché le informazioni che stava dando il sovrintendente Iacobacci le conosceva. Lui gerarchicamente era al di sotto di lei, eppure cercava ogni volta di pestarle i piedi, forse perché gli dava fastidio prendere ordini da una donna. Lei ancora non gliene aveva dati, ma prima o poi sarebbe successo. Così quando lui, continuando a ignorarla, spiegò al capo che il paese era circondato da mura o da elementi naturali, Micol riprese la parola interrompendolo: «Certo che ci sono le mura, il luogo è circoscritto. E c’è un solo punto di accesso, custodito, perché nei giorni più trafficati l’ingresso viene limitato».

    Si stavano immettendo in una provinciale fiancheggiata da un lato da un filare di pioppi, dall’altro da case basse in successione, una identica all’altra. Una Volvo li superò, nonostante una doppia linea continua, e Micol riprese: «Si tratta di un municipio come un altro, ma ha fatto scalpore perché giunta e consiglio comunale sono composti in maggioranza da donne. La sindaca è una vecchia volpe della politica. Quando si sono proposte le liste, le candidate erano in prevalenza femmine e hanno chiesto ai cittadini di votarle, certo, in maniera sotterranea, spargendo la voce, del resto il paese è piccolo e si conoscono tutti – ma qualcuno, su un forum che ho trovato in internet, si è lamentato di questa procedura non proprio corretta – per permettere loro di dimostrare quanto le donne fossero in grado di realizzare un buon governo, visto che, nel resto d’Italia, all’altra metà del cielo non vengono date molte possibilità professionali e politiche».

    «E i cittadini le hanno accontentate?» chiese Maccagnini.

    «Non tutti, ma la maggioranza sì. Ha prevalso il rosa e dal momento in cui si sono insediate, quindici anni fa, sono riuscite a farsi riconfermare, pur con le dovute rotazioni.»

    Il commissario meditava; intanto svoltò sulla strada che li avrebbe portati verso i colli.

    Micol notò le sue mani nerborute, i capelli biondicci brizzolati rasati ai lati con una leggera cresta in alto che, insieme agli occhi azzurri dal taglio netto, gli conferivano un’aria scandinava. Sembrava molto sicuro di sé. Una sicurezza che talvolta Iacobacci tentava invano di imitare: Micol sapeva bene che gli sarebbe piaciuto diventare un professionista come il loro capo. Era con questi sogni in testa che si era trasferito dalla Lucania, ma ne aveva ancora di carriera da macinare.

    Maccagnini riprese il discorso: «E gli uomini sono banditi?».

    «Macché. Certo credo che gli uomini lì siano abbastanza avanti.»

    «In che senso?»

    «Non penso che ci vivano dei maschilisti. Saranno ben diversi dalla media italiana, lì.»

    «Perché, secondo te in Italia siamo maschilisti?» domandò Iacobacci con piglio ironico.

    «Un pelino.»

    «Esagerata.»

    «Esagerata? Se io studiassi medicina e volessi diventare primario, nella società italiana avrei molte meno chance di un uomo. I numeri parlano. Idem se volessi entrare in qualche consiglio di amministrazione.»

    «Una donna fa più fatica di un uomo ad affermarsi? A me non pare, vedi che tu sei un gradino sopra Antonio?» le rispose il suo capo, e Iacobacci fece un ghigno di sostegno.

    Infatti. Vedi che lui non sembra essersene accorto?, avrebbe voluto rispondere lei. Ma tacque.

    3

    Un’ora e mezza dopo lasciarono la volante in un parcheggio all’aperto, poco distante da Monterocca, dove erano posteggiate molte auto, e si avviarono in direzione della grande porta trecentesca. Sotto la volta, in cui era ricavata la guardiola che fungeva anche da ufficio turistico, i tre sbirciarono verso l’interno: la cittadina si dispiegava davanti a loro mostrando un ampio viale affiancato da casette in prospettiva, oltre a una piazza tinteggiata da alberi in fiore, cespugli tondeggianti, aiuole colme di margherite. Su una panchina un vecchio leggeva un giornale.

    Riconoscendo i poliziotti dalle pettorine, l’addetto uscì dalla guardiola. Era un uomo magro e alto che, dall’abbigliamento, si sarebbe potuto inquadrare come un artista: calzoni a quadretti colorati, camicia fashion e scarpe arancioni. Avrebbe voluto trattenersi, ma bruciava di curiosità: «Buongiorno, agenti, ma… è successo qualcosa?».

    «Buongiorno, vorremmo parlare con la sindaca. Da che parte è il municipio?» rispose il commissario pacatamente. Non gli disse che erano lì per l’omicidio di Mario Cionti, rinvenuto cadavere in una pozza di sangue dieci giorni prima a Villanova.

    Fabio, l’informatore turistico, moriva di curiosità. Si passò una mano nei capelli a spazzola scuri e indicò davanti a sé: «Sempre dritto per viale Martini, questo qui. Posso chiedervi perché la cercate?».

    «Vogliamo solo farle qualche domanda.»

    Micol non poté fare a meno di pensare alla mattina del ritrovamento.

    Era molto presto, nemmeno le sei, e il sole non si era ancora levato. Alcune pattuglie, già presenti, le avevano confermato la sensazione di essere arrivata in ritardo, sebbene si fosse precipitata al primo allarme. Quando era scesa dalla volante, una brezzolina pungente le aveva fatto venire la pelle d’oca. Ricordò i suoni delle sirene, la percezione di ineluttabilità che la avviluppava ogni volta che stava per avvicinarsi a un morto, l’immenso senso di solitudine che la intristiva quando, ancor prima di calarsi nei panni di detective, osservava in quelli impotenti di spettatrice. Ciascun agente restava solo di fronte alla morte, ciascuno con la sua torcia illuminava lo scempio, all’interno di un cortile privato, e il macabro spettacolo pietrificava gli attori, fissi sulla scena: un uomo supino sopra una pozza di sangue. Il cadavere con la gola sfregiata da un taglio netto. Era stato infilzato con una trentina di spilli, nelle parti morbide del corpo: occhi, bocca, gola, cuore, polmoni, genitali. Grossi spilli da sarta con la capocchia tonda di plastica colorata, di quelli lunghi circa sei centimetri. Micol ricordò di aver distolto un attimo lo sguardo: in posa su un balcone non troppo distante, una gazza ladra aveva gracchiato.

    In quel momento spuntò un ometto sulla trentina che la distrasse dal flashback raccapricciante. Micol lo classificò subito come l’altro informatore turistico, nonché partner dell’addetto vestito da artista: squadrandolo, pensò che è vero che gli opposti si attraggono. Questa coppia ne era la dimostrazione: uno alto e dinoccolato, vestito con un look bizzarro. L’altro piccolo e tozzo, in divisa quasi da pizzaiolo: T-shirt e pantaloni leggeri, con una patacca di unto grande come una bistecca sulla pancia prominente.

    «Che succede, Fabio?»

    «Niente, Dario: i poliziotti vogliono vedere Adele.»

    «Avete già parlato con la nostra sindaca al telefono? Perché è molto impegnata…»

    Il commissario annuì, anche se non era proprio sicuro che Micol avesse preso un appuntamento. Lei, infatti, distolse i suoi occhioni color ambra virante al nocciola e cominciò a preoccuparsi: telefonate ne aveva fatte parecchie. Ma non aveva parlato direttamente con la prima cittadina; ora restava solo da incrociare le dita e sperare di aver trovato i contatti giusti.

    Sospirò, osservando in alto, sotto la volta, la targa col nome della porta. Mimma, nome di battesimo Irma Bandiera – c’era scritto – Partigiana uccisa dai nazisti il 14 agosto del 1944.

    Ricevute le indicazioni per il municipio, ringraziarono e si avviarono lungo la strada maestra. La prima cosa che notarono era l’assenza totale di automobili: Micol ne approfittò per consultare internet e appurare quello che avrebbe dovuto scoprire la sera prima, se il suo fidanzato non le avesse impedito di prepararsi, ovvero che lì non si poteva entrare con alcun veicolo a motore. La cittadina era munita di tre pullmini da attivare in caso di bisogno, ma gli abitanti, che per spostarsi esternamente lasciavano le loro automobili nel grande parcheggio fuori le mura, preferivano percorrere le distanze a piedi o in bicicletta o coi pattini. La via principale, infatti, era un ampio viale sia pedonale che ciclabile ombreggiato da ciliegi e castagni. Con un’atmosfera così pittoresca e accogliente, si faticava a immaginare che proprio da lì era forse partito l’omicida che stava inquietando l’opinione pubblica.

    Mentre procedevano studiando l’ambiente con colpi d’occhio veloci, li raggiunse in bicicletta una donna sui quarant’anni, bionda, il volto amichevole e la divisa da carabiniere. Frenò, scese presentandosi come Giovanna Geremicca, impugnò il manubrio con entrambe le mani e si avviò insieme a loro, dal che tutti e tre capirono che dalla porta qualcuno l’aveva avvisata e che ora lei si sentiva autorizzata a chiedere spiegazioni.

    «Come mai dovete parlare con la sindaca?»

    Visto che era una collega – di un ordine diverso, certo: da poliziotto il commissario era abituato a considerare i carabinieri come cugini di secondo grado – Maccagnini giunse subito al sodo: «Stiamo indagando sull’omicidio di Mario Cionti».

    Lei lanciò un’occhiata rapidissima al volto di Micol, dove una cicatrice scendeva fino al mento dalla parte inferiore della guancia. «Quell’uomo ucciso una decina di giorni fa a Bologna e infilzato con gli spilloni?»

    «Esatto. È stato ammazzato a Villanova: sgozzato, per la precisione.»

    «Mmm… una storia strana, vero? Lui aveva eliminato la moglie qualche anno fa, ma era stato assolto…»

    «Il caso Lucia Ginevri, sì: che lui l’abbia assassinata, però, non è mai stato dimostrato» precisò il commissario.

    «Be’, no: ma lo abbiamo pensato tutti. Il corpo della moglie… l’hanno mai trovato?»

    «No. Per questo, al processo, Mario Cionti è stato prosciolto. Se anche l’ha ammazzata, l’ha fatta sparire così bene e ha cancellato le prove con tale perizia da farla franca» puntualizzò ancora una volta il commissario.

    «Perché non avete contattato la nostra stazione dei carabinieri?»

    «Mah, il nostro vuole essere un colloquio informale. In fondo non ci sono collegamenti diretti, solo un indizio che porta qui.»

    «E la sindaca come può aiutarvi?»

    «Speriamo che ci possa almeno far capire se la nostra è la pista giusta, ma non è l’unica persona con cui vorremmo parlare, qui a Monterocca.»

    «Avete preso appuntamento?»

    Lui si rivolse alla collega: «Micol? Hai preso appuntamento, vero?».

    «Io… Io ho chiamato il municipio, e ho parlato col signor Davide Liotti.»

    Micol ripensò ai numerosi tentativi per mettersi in contatto con la prima cittadina di Monterocca, mentre sua madre la tampinava su WhatsApp perché le recuperasse il codice puk. Il cellulare le si era bloccato e lei, convinta che Micol custodisse ogni informazione inerente ai suoi aggeggi tecnologici, dalle password ai libretti di istruzioni, pressava la figlia affinché corresse in suo aiuto.

    Mamma, non so dov’è la tua scheda col puk.

    Come non lo sai? Non ce l’hai tu?

    Ti ho detto di no.

    Sua madre. Sempre la stessa. Sempre ad anteporre le sue piccole grane ai problemi degli altri. Era come se Micol, da contratto con l’esistenza, non fosse stata autorizzata a scontentarla. Mai.

    Va bene, va bene le aveva risposto seccata quella. Dimmi almeno come posso fare. Cosa fa una persona che ha perso il puk e ha il telefono bloccato?

    Va dal suo gestore telefonico.

    Non ci puoi andare tu?

    Micol aveva gettato un’occhiata sconfortata ai numeri del Comune di Monterocca sulla scrivania. Le dispiaceva dire di no a sua madre. Non ci riusciva proprio.

    Mamma, non posso andare io. Ci deve essere l’intestatario della sim.

    Allora andiamo assieme. Quando passi a prendermi?

    Maccagnini la riscosse dal flashback: «E Davide Liotti chi sarebbe?».

    Intervenne Giovanna, tirandosi indietro i lunghi capelli biondi e lisci senza usare le mani, con uno scatto quasi da breakdancer che le riusciva molto bene: «Davide Liotti, certo, il nostro consulente musicale. Vi ci porto subito. Qui lo chiamiamo la Rockstar».

    Maccagnini aveva ormai l’aria di chi pensa di essere finito vittima di uno scherzo. «La Rockstar?»

    «Sì, è il chitarrista dei…» pronunciò il nome di una band assai famosa «che ogni tanto soggiorna qui da noi e viene ingaggiato come consulente musicale. Decide lui le musiche che vi faranno compagnia sul viale.»

    «Bene» scandì il commissario. E Micol – che fino a qualche anno prima strimpellava la chitarra – pensò: Che bel lavoro. Vorrei farlo anch’io.

    4

    Davide Liotti, detto la Rockstar, dormiva un sonno così profondo che il concitato bussare alla porta non lo destò minimamente. Al suo posto andò ad aprire la ragazza con cui aveva trascorso la notte: una sorta di Jessica Rabbit con una lunga chioma fulva e boccolosa, il seno prominente che premeva sotto il lenzuolo raffazzonato alla meno peggio attorno al corpo. Pelle diafana, pelle di seta. Oltre la porta c’erano degli sconosciuti in compagnia di Giovanna. Li guardò uno alla volta con gli occhi socchiusi di chi vorrebbe tornare a dormire. Si soffermò solo qualche secondo in più su Micol, colpita dalla cicatrice, poi sussurrò: «Sì?».

    Giovanna chiese della Rockstar e la tipa rispose: «È a letto».

    «Puoi svegliarlo?»

    La fanciulla col lenzuolo guardò prima il commissario, poi Micol, infine la sua diretta interlocutrice. Esitò, si passò con molta flemma una mano dentro i capelli, sfarfallando con le dita tra le ciocche. «Ci provo» mormorò, quindi si voltò e si incamminò verso il corridoio interno, sculettando con quel corpo languido fasciato dal lenzuolo che, scendendo, mostrava ben più della sua schiena nuda. Quando scomparve, dalla porta si intravide una collezione di sette chitarre appese alla parete, in penombra. La più vicina era una Epiphone Sheraton con il manico nero, la tastiera in palissandro con intarsi di madreperla e una cassa armonica che sfumava, verso i pick-up, in un rovere ramato.

    Il commissario lapidò Micol con lo sguardo. Lei sapeva cosa lui sottintendesse: Hai organizzato da cani questo incontro. Non siamo nemmeno in un luogo istituzionale, ma in una casa privata. Non hai con te un documento né uno straccio di mail. Mi hai messo in una situazione imbarazzante.

    Vaglielo a spiegare al commissario, che sua madre aveva smarrito il puk e, la mattina in cui lei avrebbe dovuto condensare le chiamate per organizzare l’appuntamento, le aveva fatto perdere tempo. Perché una volta sistemata la questione presso la compagnia telefonica – visto che apparteneva a quella categoria di donne, fortunatamente in via di estinzione, che erano patentate ma chissà perché non guidavano la macchina – aveva voluto essere accompagnata in farmacia per misurarsi la pressione: diceva che si sentiva svenire. La pressione era perfetta, ma lì, in realtà, aveva comprato un siero antirughe e poi, visto che erano a due passi dal centro commerciale e quel giorno finiva lo sconto del venti per cento sugli elettrodomestici, voleva prendere un phon nuovo, uno di quelli professionali che altrimenti sarebbero costati una cifra.

    Entriamo un attimo?

    Mamma, io devo lavorare.

    Ci metto cinque minuti, dai! Massimo dieci.

    No, era meglio non rivelare a Maccagnini che tipo fosse. E quanto Micol si lasciasse puntualmente inguaiare con l’ingenuità di una liceale. Una volta tornata a casa, era tardi e gli uffici comunali erano chiusi. Eppure un appuntamento era riuscita a strapparlo, e con molta fatica, a questo Davide Liotti detto la Rockstar, che in quel momento apparve davanti a loro.

    Un uomo sui quaranta, i capelli biondastri lunghi fino alle spalle. Si presentò svogliato, con addosso solo i jeans, a torso nudo – un notevole torso, con bicipiti, tricipiti e tartaruga non eccessivi, ma dignitosamente scolpiti – e con un’espressione in volto che avrebbe disincentivato chiunque a restarsene lì. Invece il commissario Maccagnini parlò: «Siamo della polizia e avevamo concordato un appuntamento con lei».

    L’uomo si passò una mano sul viso, tirandoselo con una smorfia di sbadiglio: «Non mi ricordo».

    Micol intervenne in tono allarmato: la voce che aveva sentito al telefono era quella roca e sensuale dell’individuo statuario di fronte a loro. «Senta, abbiamo parlato due giorni fa, alle undici di mattina. L’ufficio relazioni pubbliche del Comune mi ha passato una serie di altri uffici e alla fine ha risposto lei, avevo capito che fosse il segretario della sindaca. Si ricorda?»

    Lui la guardò con un’aria perplessa, Micol incalzò: «Mi aveva dato appuntamento per oggi, l’avevo avvisata che ci saremmo fermati a Monterocca tre giorni per le indagini».

    «Ah, quel tipo trovato morto.» Liotti aveva la voce di chi ha il naso bagnato da un po’ di raffreddore.

    «Esatto. Vogliamo un colloquio con la sindaca, naturalmente del tutto informale.»

    Lui alzò le sopracciglia, poi sorrise come fa chi capisce l’inghippo: «Ah, ma no! Io non c’entro niente. Ero passato in ufficio da mia madre, la sindaca appunto, e lei non c’era. Mentre la stavo aspettando, è squillato il suo telefono, così ho risposto. Ma poi mi sono dimenticato di dirglielo, a mia madre, della sua chiamata…»

    Micol capì di essere nei guai. Maledetto il puk di sua madre e maledetta lei che finiva sempre con l’accontentarla. Lo sguardo del commissario quasi la polverizzò. Sospirò: «Va bene, signor Liotti. Sarebbe così gentile da accompagnarci dalla sindaca, adesso?».

    «Io…»

    In quel momento si fece avanti Giovanna, che conosceva bene il soggetto e sapeva che non si sarebbe mai schiodato dalla sua tana a quell’orario per lui troppo mattutino.

    «Vi accompagno io, andate dritto, a venti minuti da…»

    «No, guardi…» la interruppe stizzito Maccagnini, che non vedeva l’ora di stare solo con Iacobacci e Micol, per redarguire quest’ultima come meritava, «ci dica la strada, ma andiamo da soli.»

    Lontano da loro qualche ora di macchina, nella tranquilla cittadina di Pontericcioli, cinque poliziotti entravano nel piccolissimo cimitero di paese e chiedevano al custode dove fosse il vecchio ossario in disuso. Quello, un signore coi capelli bianchi e le grandi mani rovinate e dure, strinse le spalle nella tuta blu scuro, di un tessuto così rigido e grezzo che sembrava plastificato. «Non c’è un ossario in disuso, qui.»

    «Ci deve essere» rispose il più anziano tra gli uomini in divisa.

    «Il sopralluogo che fecero i nostri colleghi anni fa non rivelò nulla, ma loro non sapevano del vecchio ossario» aggiunse un collega.

    E il custode ribatté contrariato: «Io non ho mai sentito di nessun vecchio oss…».

    In quel momento lo interruppe una vecchina che, fino a prima di parlare, era stata china su una tomba: nessuno l’aveva vista. Aveva una vocina esile esile da uccellino appena uscito dall’uovo e così pigolò, agitando le dita curve e ossute: «Sì che c’è un vecchio ossario, è sotto le mura là, fuori dal cimitero» e indicò davanti a sé, dirimpetto all’ingresso.

    Trotterellò dietro alla squadra mentre questa si dirigeva a grandi falcate sul luogo indicato, poi se ne stette a fissare l’apertura di quell’antro scavato tra le mura e il sottosuolo. Aspettò che due poliziotti ci saltassero dentro – mancavano le scale – illuminando gli interni con le torce che rendevano ancora più lugubre la situazione. Li guardò appoggiata a un pilastro, scomparendo nel silenzio, come poc’anzi; pareva seguire la scena oltre la coltre di terra e le mura secolari. Sembrava che vedesse cosa accadeva in quella piccola catacomba dimenticata: i due uomini la perlustravano, metro per metro, con cautela, misurando ogni passo, attenti ai possibili dislivelli di quell’antro senza pavimentazione, freddo, la cui puzza era un miscuglio tra un vecchio sarcofago e uno stomaco squarciato.

    Poi lo videro.

    Lo scheletro. Nell’angolo in fondo a destra, intatto, coi vestiti addosso usurati solo in parte dal tempo e, alla gola, ancora stretta la cintura con la quale probabilmente la vittima era stata strozzata. Che fosse una donna si intuiva dai lunghi capelli neri e sciolti: entrambi i poliziotti erano entrati lì con il pensiero fisso della stessa persona. Il cranio voltato nella loro direzione sembrava sorridere in maniera grottesca, come se li canzonasse rimproverandoli: Nove anni ci avete messo, così tanti?

    Non so dire perché, nonostante il timore che mi incuteva, aspettassi con trepidazione di restare sola con Mina. A cinque anni, l’incognita attrae. Potevo sopportare i giochi sadici che mi infliggeva e le parolacce che mi diceva in arabo, perché sapeva anche inventarsi delle storie straordinarie, colme di animali esotici che non avevo ancora mai visto se non nei cartoni animati o sui libri, come cammelli, scimmie e cervi berberi. Oppure paesaggi fiabeschi, mura di città antiche sepolte sotto deserti dalle dune che rosseggiavano al tramonto.

    Quella ragazza mi incuriosiva. La sua doppiezza la rendeva sfaccettata e multipla; ero ansiosa di bermi le sue mosse e imparare. La sua pelle si coloriva di soavità in presenza dei miei e tornava di serpente quando le stanze si svuotavano. Affettata in pubblico, terribile in privato.

    Ascoltando i discorsi dei miei genitori, avevo capito che era figlia di un professore marocchino appassionato di medioevo, giunto a Bologna con una borsa di studio: e proprio nei pressi dell’università era situato il negozio della commessa di cui si era invaghito. Lo aveva conquistato la sua pelle candida come il latte e aveva deciso di restare in Italia per lei. Si erano sposati, presto era nata Mina ma la commessa era morta pochi anni dopo, lasciando la bambina alle cure della nonna. Il padre era rimasto con lei fino a che aveva compiuto quindici anni, poi era tornato nella sua terra, dove Mina lo aveva raggiunto soltanto due volte, d’estate. Per il resto del tempo, avevano continuato a sentirsi solo a distanza. Mia madre lo aveva raccontato con dispiacere e partecipazione pietosa – mentre fumava una sigaretta sulla poltrona del nostro salotto in cui prevaleva una tinta noce scuro – la sera in cui i miei genitori avevano deciso di assumerla, come se la loro fosse una buona azione contro l’inclemenza della vita: «La ragazza ha interrotto gli studi presto. Adesso che ha vent’anni si trova senza niente in mano e non vuole lavorare come operaia o barista».

    Mio padre l’aveva incalzata: «Sua nonna non riesce a seguirla. Mina è irrequieta, potrebbe prendere una brutta strada».

    «È questo, però, che non mi convince del tutto. Che sappiamo di lei? Nulla. Si droga? Beve? Spaccia?» aveva domandato mia madre allarmata, suscitando un sorriso in mio padre, che si era alzato e l’aveva abbracciata, stringendo forte le sue rotondità.

    «Non sappiamo nulla, ma se la accogliamo qui con noi, la mettiamo in riga. Può dormire nella stanza degli ospiti; di giorno ci tiene la bimba, la sera ogni tanto esce, ma tutto sarà sotto il nostro controllo. Ci sistemerà la casa e andrà a fare la spesa. Così tu sarai alleggerita, non avrai nemmeno più il problema delle pulizie.»

    L’aveva stretta forte e io mi chiedevo come facesse a respirare, così strizzata. Era bello vedere l’amore nell’abbraccio dei genitori.

    Il giorno dopo era comparsa Mina. Più che una comparsa, la sua era stata un’epifania in piena regola. Si era presentata al citofono ed era salita al primo piano. Era entrata dalla porta che dava sul lungo corridoio, annunciata dalla sua voce di zucchero. Io ero corsa a vederla.

    Aveva i capelli lunghi fino alla schiena, neri, lucidissimi, ricci ricci come la regina di Saba, e gli occhi grandi come due albicocche, gli stessi occhi a mandorla della bimba indiana che compariva nel cartone Il libro della giungla. Neri, il contorno truccato sopra e sotto da un impiastro strano che presto avrei scoperto chiamarsi kajal.

    «Vieni» l’aveva invitata mia madre. Le aveva spiegato tutto, con la condiscendenza di una perfetta padrona di casa che sta parlando a una creatura di rango inferiore.

    Le aveva mostrato la sua cameretta con un sorriso bonario, Mina continuava ad annuire e a parlare solo se sollecitata da una domanda. Io intanto la scrutavo, studiavo, dietro di lei, i lunghissimi capelli neri che ondeggiavano a ogni suo movimento, a ogni suo annuire. La sua recita fu impeccabile, mia madre la trovò abbastanza remissiva e affidabile: il contratto verbale era stato siglato.

    Attendevo i momenti di solitudine con Mina perché lei si svestiva della sua finta muta e si esibiva in tutto il suo maleficio: trovavo eccitante questa magia che potevo compiere solo io, in virtù della mia presenza. Lei attendeva di tenermi in pugno per sfogare la sua vera natura tenuta repressa in società, davanti ai miei, davanti alla nonna. Per torturarmi fingendo di farmi giocare al solletico, per maltrattarmi e offendermi. Dopo appena una settimana che si era insediata in casa nostra, mi insegnò l’arte della pulizia. Partì dal bagno. Imparai a far brillare i sanitari con il Cif Ammoniacal misto a succo di limone. Imparai a lavare i piatti con zelo: mi piaceva immergere le manine nel lavello colmo di schiuma e acqua tiepida, ripetere l’operazione della spugna moltiplicatrice di bolle, che passa e porta via ogni resto di cibo, di unto, di incrostazione. Li asciugavo e li riponevo nella credenza, in fila, divertendomi a non lasciare vani vuoti.

    Quando mia madre tornava a casa dal suo lavoro di impiegata in banca, elogiava l’operato di Mina, convincendosi che la loro fosse stata la scelta migliore. E al telefono con mio padre, i primi giorni, gli raccontava quanto la baby-sitter fosse stata brava a pulire toilette, stoviglie e piano di cottura, mentre lei, la diretta interessata, mi conduceva nell’altra stanza, si abbassava al livello delle mie orecchie e sussurrava la stessa cantilena immonda: Ibin Sharmootah. Ibin Sharmootah. Ibin Sharmootah. Quella puttana di tua madre.

    5

    Milvia, la vicesindaca, fu subito avvisata da entrambi gli informatori turistici: Sono arrivati da Bologna tre poliziotti.

    Incuriosita, si incamminò alla sua maniera spedita lungo il viale Mia Martini e aguzzò la vista. La vibrazione del cellulare le notificò un altro avviso, da parte di Giovanna: La polizia è qui per investigare sul caso Cionti. È sul Viale, sta andando al Colle.

    Milvia affrettò il passo, ma prima deviò un attimo dalla Circassa, per una questione che non poteva assolutamente rimandare. Entrò e la vide intenta a sbriciolare delle foglie secche con movimenti nervosi delle mani, per sciogliere la tensione che sua figlia le trasmetteva ogni volta. Indossava occhiali da presbite che non affievolivano il vigore del suo sguardo da lupa. Aveva raccolto i lunghi capelli che una tintura naturale a base di nero di seppia aveva

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