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Hotel du Barry (versione italiana)
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Hotel du Barry (versione italiana)
E-book438 pagine6 ore

Hotel du Barry (versione italiana)

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Info su questo ebook

Di solito i bambini abbandonati vengono lasciati sulla porta di ospedali ed orfanotrofi, oppure tra gli scaffali di tetri grandi magazzini o in sudice stazioni ferroviarie. La neonata conosciuta come "la bambina dell'Hotel du Barry", invece, è avvolta in un paio di mutandoni da donna e appesa al filo del bucato nel cortile della lavanderia del lussuoso albergo londinese, miracolosamente scampato ai bombardamenti della prima guerra mondiale. Conquistati dal sorriso della piccina, i membri del personale decidono all'unanimità di tenerla con loro e con mezzi non del tutto ortodossi convincono il proprietario, Daniel, ad adottarla. Cat cresce così amata e coccolata sia dallo staff che dagli ospiti dell'hotel, ugualmente a proprio agio nella sontuosa suite del nono piano e nel labirinto di corridoi dello scantinato. Molti anni dopo, quando Daniel du Barry muore in circostanze a dir poco sospette, Cat decide di risolvere il mistero, e chiede aiuto ai membri della sua insolita famiglia dal detective dell'albergo al gigolò irlandese, dalla compassionevole prima governante alla seducente cameriera perché l'aiutino a inchiodare l'assassino dell'uomo che le ha fatto da padre.



Un mistery insolito e brillante sullo sfondo dei ruggenti anni Trenta, capace al tempo stesso di commuovere e divertire.
LinguaItaliano
Data di uscita3 nov 2016
ISBN9788858958063
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    Anteprima del libro

    Hotel du Barry (versione italiana) - Lesley Truffle

    successivo.

    Lo champagne!

    Nella vittoria, lo si merita.

    Nella sconfitta, se ne ha bisogno.

    Napoleone Bonaparte

    1

    L'INTRICO DELLA CULLA

    Alcuni bambini abbandonati vengono scaricati sulla soglia delle opere pie. Altri vengono ritrovati in tetri grandi magazzini, o sulle banchine di sudicie stazioni ferroviarie. Ma la piccola nota come la bimba del du Barry venne trovata appesa alla corda del bucato. E non una corda del bucato qualsiasi, dal momento che l'oggetto in questione era ubicato nel cortile della lavanderia di quel magnifico edificio conosciuto con il nome di Hotel du Barry. Un albergo tanto maestoso e versato nell'arte di coccolare da comparire con regolarità nelle fantasie segrete dei londinesi più poveri.

    Bene assicurata, la piccina dondolava nella brezza del mattino. Le umide lenzuola sbatacchianti la riparavano dal primo sole, ed è probabile che le dessero una sensazione di contenimento e tranquillità. Invero, il contegno allegro lasciava intendere che se la stesse spassando.

    Ora, le menti avide di sapere si staranno ponendo una domanda: di preciso, come si può umanamente stendere un bambino? Semplice. Presti attenzione, signora, in caso un bel giorno le punga vaghezza di mollare il suo strepitante moccioso. Prima di tutto, è necessario acquistare un enorme paio di mutandoni da donna. Deve essere quel genere di brache che una signora di una certa età, e di una certa taglia, potrebbe procurarsi di nascosto nei migliori empori. Preferibilmente di buon cotone, con appena un accenno di pizzo color crema; capaci, comode e morbide al tatto. Il tipo di indumento intimo che tanto amano la nonna e l'attempata zia nubile. Si noti bene: l'insoddisfazione sessuale è spesso all'origine dell'informe corsetteria beige.

    Tornando al procedimento. È sufficiente introdurre il pargolo ignudo nelle voluminose culotte e legare il tessuto in eccesso in due nodi, uno per lato. Le gambe del piccolo devono penzolare libere, mentre il nido triangolare di stoffa provvede a tenere diritta la creatura. Un esubero di spille da balia fisserà il tutto. L'ideale sarebbe far passare a modino la coulisse sotto le ascelle del bebè concedendogli comunque un certo grado di libertà. Perché la fasciatura dei nanerottoli è proprio come quella dei piedi femminili: crudele e non necessaria. A questo punto l'indumento verrà allacciato saldamente, tramite la stoffa annodata, alla corda del bucato, e l'insieme verrà fermato con mollette di legno così da garantire la sicurezza e l'ancoraggio della culla improvvisata.

    E adesso basta. Perché chi diamine vuole stare a leggere di orfani quando invece potremmo tuffarci a capofitto nella storia? Oltretutto Charles Dickens si è già accaparrato l'intero mercato degli orfanelli coraggiosi quando Oliver Twist ha dichiarato con garbo: «Per piacere, signore, ne vorrei un altro po'».

    Oh, tesoro, non è forse così per tutti?

    La cameriera che per prima notò la piccola abbandonata si era nascosta tra il bucato dell'Hotel du Barry per fumare pigramente una sigaretta. Invero, Mary Maguire si era appartata tra i panni in cerca di una qual certa privacy in cui rendere i propri servigi al capofattorino, un giovanotto di allarmante bellezza, con riccioli neri e occhi languidi. La paglia entrò in gioco dopo che ebbe finito di soddisfare gli appetiti sessuali di Sean Kelly. Leccandolo tutto. Come un gatto.

    A diciassette anni, Sean era poco più grande di lei, ma era evidente che la sapeva lunga. Era addirittura scafato quanto lei. Si noti bene: privata dell'infanzia, Mary era molto più matura della sedicenne media.

    Come lei stessa confidò alla dispensiera quella sera: «Sean è un viscido mascalzone, ma non mi mente mai. Fa furore tra le riccastre che alloggiano nelle suite, però per le sue necessità private preferisce ricorrere a me. Gli intrallazzi con quelle tipe gli procurano un mucchio di grana, ma diciamocelo, si guadagna ogni stramaledetto penny. E mi paga profumatamente. Ma la verità è che comunque lo scoperei anche gratis».

    Eh, già. Gli ingranaggi del mercimonio giravano implacabili nei primi decenni del ventesimo secolo.

    In un esercizio delle dimensioni dell'Hotel du Barry sarebbe stato semplice trovare un letto libero, ma, come Sean si era premurato di spiegarle: «Sgroppo già tutta la settimana tra raffinate lenzuola di prima qualità, per cui con te preferisco darci dentro nello sgabuzzino delle scope, in piedi contro un muro, nel sottoscala o fuori, nel cortile della lavanderia. Aiuta a liberarmi del tanfaccio costoso di quelle debuttanti. Non significa che non ti rispetti, Mary. È che, dopo giorni e notti a leccarla, non ho altro modo per levarmi dal naso quel cavolo di Mitsouko. Gesù, quel profumo, lo sento pure in bocca!».

    Mary non aveva ragione di dubitarne. L'intero albergo puzzava di quella roba. A volte una vera e propria nebbia di Mitsouko stantio saliva dai montacarichi e dagli ascensori e saturava i corridoi. L'igiene personale non era una priorità per i luridi parvenu che alloggiavano al du Barry, e così compensavano annegandosi in fragranze costosissime. Esattamente come nell'Inghilterra elisabettiana e nella Versailles di Luigi XIV.

    Ma torniamo alla corda del bucato. La seconda persona a sopraggiungere sulla scena fu Bertha Brown, la prima governante. Dirigeva la lavanderia dell'albergo come un reggimento scelto ed era uscita nel cortile per controllare che le lavandaie stessero facendo il proprio dovere. Gli anni di faticoso servizio durante la Grande guerra non erano andati sprecati, con lei. La signora Brown ignorò Sean, intento a coprirsi il membro in tutta fretta, e non badò nemmeno alle nudità di Mary. Ebbe occhi solo per l'infante. «Oh mio Dio, cos'abbiamo qui, eh?» chiocciò. «Mary, renditi presentabile. Sean, metti via quel coso. Mi sorprende che non si sia ancora consumato. Va' a chiamare il signor Blade. Rapido, scattare, scattare!»

    Ma Jim Blade era già arrivato. Quell'uomo aveva la capacità di manifestarsi senza produrre il minimo rumore. La sua figura corpulenta gettò una grande ombra. La vista di un bebè appeso in un paio di mutandoni da donna gli fece brillare gli occhi. Da vero professionista, non si lasciò sedurre dall'allettante visione dei capezzoli di Mary, rosei e tumidi. Tirato fuori il taccuino da detective dell'albergo, leccò una matita e prese a scrivere.

    Bambino abbandonato. Vivo e vegeto. Due o tre mesi. 7.02 antimeridiane, 14 giugno 1919. Appeso alla corda del bucato dell'Hotel du Barry. Posizione: cortile dell'Hotel du Barry. La creatura è...

    «Piantala, Jim.» Eh, già, la signora Brown andava per le spicce. «Dammi una mano a sganciare questo angioletto. Nel frattempo, Sean, vedi di renderti utile e va' a chiamare il dottor Ahearn. Per l'amor del cielo, tutti quanti, datevi una mossa! E vediamo di non far trapelare la voce fino ai grandi capi, eh?»

    In seguito, la signora Brown avrebbe raccontato a ogni piè sospinto che nell'istante in cui aveva sfiorato la bimba, quella aveva smesso di piangere per rivolgerle un sorriso che grondava fiducia incondizionata. «È stato amore a prima vista, vi dico. Quel dolce scriccioletto. Proprio non capisco come si possa abbandonare un affarino tanto tenero. E quegli occhi! Mai visto una bimba tanto bella in vita mia, né prima né dopo. Non avrei certo permesso che qualche zelante impiegatuccio la scaricasse all'orfanotrofio.»

    Nessuno dubitò mai della sua storia, nemmeno per un secondo. Se anche la piccola fosse stata Satana in persona, Bertha l'avrebbe trovata adorabile. Un'impopolare teoria psichiatrica afferma che il motivo per cui i bambini sorridono a perfetti estranei è che vengono al mondo dotati di istinto di conservazione. I bambini ci sorridono perché sono subdoli. Vogliono ottimizzare le loro chance di non venire divorati vivi dai predatori. Mentre noi stiamo lì a pensare: Uh, ma che belle risatine allegre, loro in realtà stanno facendo smorfie come pazzi nella speranza che ci lasciamo distrarre dal loro fascino. Quei falsoni sanno che, se li prendiamo a cuore, è probabile che li risparmieremo.

    Ebbene, la bimba in questione non fu solo risparmiata, ma anche coccolata e viziata. In quattro e quattr'otto venne trasferita nel confortevole tepore della cucina dalle cameriere, dove il dottor Ahearn la esaminò per dritto e per rovescio e annunciò: «Femmina. Tra le sei e le otto settimane. In perfetta forma, nessun segno di disidratazione o maltrattamenti. Le hanno fatto il bagno di recente. Posso ipotizzare che finora sia stata accudita come si deve. Ovviamente dovrò consegnarla alle autorità».

    La signora Brown puntò i piedi. «Dovrai passare sul mio cadavere. Ricordi quel bimbo maltrattato che abbiamo trovato cinque anni fa nello scivolo della lavanderia? Ci avevi detto che era stato molestato. Non fu mai reclamato. Svanito in quell'orfanotrofio. E non ne abbiamo più saputo nulla finché non l'hanno tirato fuori dal fiume. Morto. Non me lo sono mai perdonata.»

    «Qui l'unica pista che avrebbe la polizia è il braccialetto d'oro» notificò Jim con grande autorità. «Un gingillo da nababbi, a occhio. Potrebbe averla mollata una qualunque di quelle debuttanti. Magari una puttanella altolocata che cerca di proteggere il nome della famiglia.»

    Sean era alquanto sulle spine. Lui e i profilattici non erano esattamente in grande intimità.

    Il medico scosse il capo. «Bertha, non possiamo limitarci a nascondere la piccola e stare a sperare per il meglio. Non è un cucciolo randagio.»

    «Non sono stupida, Doc. Però penso che dovremmo tenerla con noi almeno mentre Jim indaga un poco. E poi la consegneremo alla polizia, ma solo se la madre non si fa avanti.»

    Mary, fin lì insolitamente silenziosa, volle dire la sua. «Io concordo con lei, signora Brown. I brefotrofi sono zeppi fino alle orecchie di orfani di guerra. È un vero schifo, e se c'è qualcuno che lo sa, sono io. A nessuno è mai fregato un fico secco di noi. Questa piccoletta finirebbe a vendersi per strada appena raggiunge l'età. Santa patata, è proprio uno zuccherino. Talmente dolce da mangiarsela col cucchiaino, eh?»

    Gli altri la fissarono a bocca spalancata. Istinto materno, Mary?! Quella furbetta di un'intrusa aveva già alterato il loro mondo.

    Il dottor Ahearn finse di pensarci su, ma sapevano tutti che era già fregato. Persino Sean era favorevole a tenere la bambina. In seguito avrebbe ammesso con Mary: «L'ho controllata ben benino. Avevo una fifa blu che saltasse fuori qualche tratto di famiglia. Sudavo freddo, giuro. Non mi era mai venuto in mente che rischiavo di mettere al mondo qualche figlio indesiderato. Che imbecille, vero?».

    In ogni caso il ragazzo la superò in fretta e quella notte gli affari procedettero come sempre. Non era certo da lui tenere l'uccello fuori dal mercato. Anche perché in segreto si stava riempiendo le tasche per preparargli il nido, con l'idea di fare di Mary Maguire una donna onesta. Ah ah.

    La bimba del du Barry era nata in un'epoca straordinaria. La guerra aveva finalmente mollato il colpo l'anno precedente, e i ricconi erano in piena modalità fiesta. La miseria continuava a essere il pane quotidiano delle classi inferiori. E non c'era gioia per le migliaia di defunti militi ignoti o per i loro commilitoni vivi e vegeti ma affetti da psicosi traumatica. Al rientro in patria, molti eroi di guerra si erano ritrovati disoccupati ed emarginati.

    Gli impieghi all'Hotel du Barry erano molto ambiti, e chi era riuscito a ottenerne uno era ferocemente orgoglioso del suo albergo. Inaugurato nel 1907, era un inno allo sfarzo opulento eppure intimo: lampadari di cristallo, stucchi elaborati, scalinate ricurve, ferro battuto d'importazione, voluminosi tendaggi in broccato, massicce colonne in marmo e tutte le dorature e bronzature che era stato possibile inzeppare tra specchi pannellati, palme, statue e affreschi.

    L'edificio si ergeva superbo in una delle più prestigiose vie londinesi e dominava diversi palazzi prospicienti il Tamigi. La sera era illuminato e splendente, una fiammeggiante accozzaglia di stili italianeggianti e veneziani, con l'aggiunta di qualche eccentrico elemento rinascimentale e della Grecia classica. Come una torta nuziale, era un capolavoro architettonico di proporzioni temerarie. I suoi nove piani si libravano leggiadri verso una teoria di comignoli fuligginosi. Dal tetto a padiglione, massicce gargolle di rame verde sbirciavano concupiscenti i passanti, che a loro volta sbirciavano verso l'alto. La sua arroganza metteva in ginocchio tutte le altre costruzioni della strada. I pesanti lastroni del pianterreno erano in granito norvegese e in quanto a solidità strutturale rivaleggiavano con Stonehenge. L'esterno era in pietra di Portland ed eclissava gli altri alberghi con il loro stucco spellato. Putroppo, alcuni non si sarebbero più ripresi.

    Il personale residente, per lo più gli scapoli e le nubili o i giovanissimi, dormiva nelle camerette degli abbaini, direttamente sotto il cornicione del tetto. Più vicino di te al Signore, per citare un verso di Lorna Dee Cervantes. Durante il giorno, la maggior parte dei dipendenti popolava un vasto mondo sotterraneo. L'albergo era stato costruito in origine su un doppio basamento. In quello superiore c'erano sale per banchetti, cantine, sale da pranzo private, enoteche e griglierie, oltre a locali di servizio, cucine, bagni, laboratori e impiantistica varia. Quello inferiore ospitava la cucina principale nonché una serie di sale da pranzo per i diversi gruppi di lavoratori: valletti e camerieri personali, camerieri di sala, impiegati, portieri, fattorini e uomini di fatica.

    Tra i domestici il sistema classista sopravviveva arzillo, e nessun factotum avrebbe mai avuto l'impudenza di mettere piede nella sala da pranzo dei camerieri personali. Anche la maggior parte dei magazzini era situata al livello inferiore. C'erano vani diversi per la porcellana fine, l'argenteria, la posateria e la cristalleria. I cuochi si erano premurati di far sapere all'intera Londra che avevano a disposizione ben due locali solo per gli antipasti, così come due celle frigorifere separate per la carne e la selvaggina. L'autostima del maggiordomo del proprietario volava ancora più alta grazie al fatto che aveva libero accesso alla sua riserva privata di vini e champagne d'importazione. Si diceva che il contenuto valesse migliaia di sterline. L'attuale uomo in carica, Sebastian, portava la chiave della cantina del signor du Barry al collo. Legata a un nastro di velluto nero.

    La divisione in caste era talmente rigida che fu semplice per la piccola trovatella dissolversi nel dedalo sotterraneo e sfuggire alla pubblica attenzione. Nella nuova dimora non le mancava nulla. Certo, i suoi pannolini erano invero solo panni di lino, però si trattava del miglior lino irlandese, oltretutto impreziosito dallo stemma dell'Hotel du Barry: due gargolle lascive che rosicchiavano una tibia. La credenza diffusa era che il motto latino che vi era istoriato, MORS VINCIT OMNIA, significasse: Viviamo per servire. Tradotto letteralmente, però, in realtà diceva: La morte vince ogni cosa. Eh, sì, il defunto fondatore dell'albergo – il Molto Onorevole Maurice du Barry – aveva un senso dell'umorismo un filo perverso. Sapeva che la sua clientela aveva più denaro che cultura ed era incapace di decifrare il menu del ristorante, in francese. Figuriamoci un'astrusa iscrizione latina

    La culla della piccola era un'enorme zuppiera ovoidale Luigi XVI d'argento. Si reggeva spavalda su quattro zampe rachitiche ma riccamente lavorate ed era arrivata dritta dritta da Christofle & Cie di Parigi. Come gli altri duecentonovantanovemila pezzi in silver plate, recava impresso lo stemma dell'albergo. La signora Brown l'aveva abilmente adattata imbottendola con un paio di stole di visone rubate e la piccola pareva gradire parecchio. Le instillò anche un gusto precoce per gli articoli di lusso, così che già in assai tenera età acquisì una predisposizione naturale verso gli oggetti più raffinati. Il suo primo sonaglino consistette in tre cucchiaini d'argento istoriati legati da un nastro di satin rosa. Nessuna meraviglia se in seguito avrebbe faticato a far quadrare i conti.

    Mentre Jim Blade passava al setaccio Londra nel tentativo di localizzare la madre recalcitrante, la piccola trovatella veniva trattata come un'ospite d'onore nel mondo sotterraneo di coloro che vivevano per servire. Di rado si ritrovò a corto di petti morbidi su cui poggiare la subdola testolina. Si fece amare da tutti. O ti mangiano con gli occhi o ti mangiano punto e basta.

    Non ci volle molto prima che la giostra dei pettegolezzi cominciasse a girare. Come Sean Kelly raccontò ai compagni di bevuta presso il Dirty Duck: «È stata quella strega bugiarda di una dispensiera a cominciare, Shirley Smith. Si era messa a dire in giro che la piccola era la figlia dell'amore di Mary Maguire. Povera Mary, lei è stata davvero coraggiosa. Ha affrontato la storia con molto spirito, proprio come sopporta con spirito tutte le mie stronzate. E il maggiordomo del nono piano, una primadonna che non vi dico, proclamava che la bambina era stata appesa alla corda del bucato da un sicario prezzolato che non aveva avuto il fegato di farla fuori». A quel punto, Sean si era fatto un sorso di Guinness. «Poi c'è stata la storia secondo cui la madre veniva dal bel mondo. Probabilmente per via del bracciale della piccola, oro zecchino lavorato a regola d'arte. Nessun orafo di Londra lo riconobbe come suo. Secondo loro veniva da lidi stranieri. Comunque, le settimane passavano e la pista si raffreddava. Sapevamo che ormai mancava poco al momento in cui l'avremmo dovuta consegnare alle autorità.»

    Un giorno, il fato ci mise lo zampino. Era una storia che Mary non si stancava mai di raccontare. «Toccava a me occuparmi della bambina, me lo ricordo come fosse adesso. Perciò, eccomi lì che me ne vado in giro per l'albergo a sbrigare le mie faccende e intanto me la porto a zonzo sul carrello. Mettevo sempre la zuppiera – cioè, la culla – sul ripiano inferiore, e poi allargavo una tovaglia inamidata su quello superiore. A quel punto ci appoggiavo sopra gli asciugamani, le saponette e tutto il resto. Ci stava comoda come un topolino nel formaggio. La maggior parte del tempo dormiva sodo. Quando si svegliava, la passavo a una delle puttanelle della cucina. Non vedevano l'ora di dedicarsi al loro turno di maternità, quelle. Davanti a un bambino si rincitrullivano. Grazie a quella strega di Shirley Smith, cani e porci erano convinti che la piccola fosse mia. Ah ah. Non ho mai negato. In fondo era anche lusinghiero, visto quant'era bella e brava. Quella mattina, però, successe un disastro. Il carrello era tutto per aria, e lei era sparita. L'ho cercata ovunque. Ho pensato che qualcuno se la fosse fregata e ho cominciato a immaginare storie terribili sulla prostituzione minorile, non vi dico che spavento! Succedono di quelle cosacce nei vicoli intorno a pub come il Pig and Thistle... E poi Sean viene a dirmi che un fattorino mi sta cercando per mare e per terra, e indovina un po'? Ero stata convocata nella suite privata del signor du Barry! Mai avuto tanta fifa in tutta la mia cavolo di vita, giuro!»

    2

    IL RE DI QUADRI

    Nell'ascensore che la portava all'appartamento del signor Daniel Winchester du Barry, Mary Maguire tremava. Era la prima volta che veniva convocata dal gran capo. Sebastian la fece accomodare, lasciando intendere con un gran cipiglio che era caduta in grave e irreparabile disgrazia. Tanta supponenza le diede sui nervi. Si comporta come se fossi una schifezzina. Quell'uomo non aveva mai fatto mistero di sentirsi superiore al personale che bazzicava il labirinto solo perché lui era il maggiordomo del proprietario.

    Lo sentì parlare a qualcuno dietro una porta chiusa. «La signorina Maguire è saltata fuori. Alla buon'ora. L'ho fatta salire.»

    Rispose una voce profonda. «Non sono presentabile. Dille di aspettare.»

    La suite di Daniel du Barry rispecchiava l'uomo che era diventato da quando era tornato dal fronte, nel 1918. Disilluso dalla guerra e disincantato dalla gaiezza febbrile che ne era seguita, si era aperto alle nuove idee. L'attico era zeppo di sculture spigolose, strani mobili all'avanguardia e dipinti contemporanei. Sembrava una galleria d'arte. Perfino le pareti dell'atrio erano ricoperte di feroci quadri cubisti e vorticisti in cui gli uomini erano mostri meccanici che facevano a pezzi il mondo. Mary si sentì oppressa dal vigore di quelle opere, ma comprese d'istinto dove volevano andare a parare gli artisti.

    Dopo qualche istante di tensione, Sebastian la sospinse senza tante cerimonie attraverso la porta che conduceva nella sala colazione.

    «Entri, signorina Maguire. E per una volta cerchi di comportarsi come si deve.»

    Tronfio imbecille.

    Il signor du Barry sedeva a tavola con indosso una veste da camera trapuntata in satin verde. Mary intravide un lampo di pettorali d'acciaio e addominali sodi prima che l'uomo si affrettasse a stringere la cintura. Non si era rasato e aveva profonde occhiaie scure, ma i lisci capelli neri erano lucidi della miglior brillantina. Accidenti, che buono questo tanfo! Ai piedi abbronzati erano infilate delle pianelle con il suo monogramma. Porta abiti di prima qualità, ma il fatto è che sembrerebbe un dannato re pure in una malconcia uniforme da facchino.

    Daniel era l'unico erede ancora in vita di Maurice du Barry, i cui due figli maggiori non erano sopravvissuti a Gallipoli. Maurice, un uomo che si era fatto da sé, aveva aggiunto il du al cognome nel tentativo di elevare il proprio status sociale. Pur senza affermare a chiare lettere nobiltà, quel du suggeriva una lunga stirpe di aristocratici.

    Di fatto, Maurie Barry aveva fondato il suo impero su una florida catena di postriboli prima di arrivare a investire in hotel di lusso. Una volta incassata una quantità oscena di denaro, comprato il silenzio dei detrattori e sposato una patrizia spiantata ma bellissima, nessuno aveva più osato mettere in discussione le sue origini.

    L'unico figlio superstite appariva regolarmente sulle cronache mondane e spesso lo si diceva fidanzato con questa o quella bellezza. Eppure sembrava non riuscire mai a giungere neanche in odore di altare. Aveva fama di essere brillante, colto, fascinoso e stracarico di grana. Era anche un eroe di guerra decorato. E, come ebbe modo di notare Mary tra sé, Santa patata, hanno ragione! Sembra davvero il tipico protagonista sexy delle pellicole cinematografiche.

    La ragazza si guardò intorno. Quel posto straripava di libri. Pareva di essere alla biblioteca, la London Public Library. C'era stata una volta (non poteva trattenerla e aveva avuto bisogno di usare la toilette delle signore). Persino il divano era imbarcato sotto il peso di mucchi di volumi rilegati in pelle. Al contrario del defunto padre, che studiava solo la guida delle corse ippiche, Daniel aveva frequentato Eton e la Oxford University ed era un lettore insaziabile.

    Danny du Barry era il sovrano tormentato che teneva d'occhio il suo maniero dal nono piano. Le lunghe dita giocherellavano con un coltello d'argento riflettendo la tempesta della fronte. In un primo momento le era parso solo, ma d'un tratto Mary notò una figura elegante in smoking nero adagiata su una poltrona dall'alto schienale avvolgente. Guardando meglio, si rese conto che il gentiluomo in questione era in realtà il ritratto a grandezza naturale di un giovanotto biondo, ritagliato a dare vita a una silhouette. Le braccia, sapientemente incernierate alla sagoma, poggiavano sui braccioli. Tra le dita brillava una sigaretta accesa, e sul tavolino che aveva davanti lo aspettava intatta una tazza di caffè nero. Era così realistico che Mary si sentì trafiggere da quel penetrante sguardo azzurro. Le iridi erano due zaffiri sfavillanti incollati a bulbi oculari dipinti. Sfoggiava addirittura un garofano bianco all'occhiello. Mary non aveva mai visto niente di tanto strambo in vita sua. E parliamo di una ragazza che toglieva le lenzuola dal letto di un rosario di ereditiere strafatte.

    Daniel si alzò. Con il suo metro e ottanta e passa, torreggiava su di lei, costringendola a tirarsi il collo per guardarlo. Santa patata, qui mi becco un torcicollo con i controfiocchi. L'uomo indicò laconico la zuppiera, piazzata al centro del signorile tavolo da pranzo. «Allora, Mary» esordì in tono pacato. «Conosci la ragione per cui ti ho convocato. Pretendo una spiegazione. Perché tua figlia era nascosta sotto il mio carrello dei liquori? Hai infranto le regole della casa. Il personale non può portare i figli all'interno dello stabile. Inoltre, l'Hotel du Barry non è un ricettacolo di bambini illegittimi.»

    La guardò in cagnesco finché il silenzio non venne spezzato dai singhiozzi. Mary sperava di intenerirlo con un pizzico di arti femminili. Sin da piccola aveva imparato a piagnucolare a comando. Con un sospiro, lui le fece segno di sedersi e prese a massaggiarsi il cipiglio.

    «Il padre ha almeno preso in considerazione la possibilità di sposarti?»

    I pensieri di Mary sfrecciavano veloci. Se avesse confessato che la piccola non era sua, si sarebbe scatenato l'inferno. Ci sarebbe andato di mezzo tutto il personale. Jim Blade giurava che l'economia era al tracollo e che le classi agiate stavano tagliando i dipendenti. Perdere il lavoro in quel momento poteva essere fatale. In compenso, se avesse ammesso che la bambina era sua avrebbe potuto imputare le proprie azioni allo stupido amore materno, e magari sarebbe riuscita a salvare la pellaccia a tutta la banda. Con un sospiro profondo, optò per dire semplicemente la verità. «Non so chi sia il padre, signore.»

    «Non sai chi è il padre?! Suvvia, Mary! Dimmi come si chiama e appenderò quel figlio di un cane per i gioielli. Vedrai, implorerà per il privilegio di sposarti.»

    «Non è un membro del personale, signore. Potrebbe essere sposato.»

    La ragazza abbassò pudicamente il capo e si celò il volto tra le mani. Ostentare vergogna e rimorso. Nel frattempo, lo osservava tra le dita allargate. Chino sulla zuppiera, gli occhi pieni di compassione, l'uomo accarezzava con immensa dolcezza la guancia della piccola. La pelle della bimba era un bijou, nutrita solo dal meglio che quel maestoso albergo poteva offrire. La compassione si inumidì.

    Ehi, è infinocchiabile! Il pensiero la rese audace. «Signore, chi è quell'altro tizio seduto là?»

    «Il signor Matthew Lamb. Sai chi è, vero?»

    «No, signore.»

    «Era molto ambizioso. Avido. Ha lasciato un posto da direttore d'albergo per diventare un gigolò.»

    «Oh, sì, conosco bene il tipo» confermò lei col tono di chi la sa lunga.

    «Era sveglio, discreto, fantastico e molto virile.» Daniel tacque e distolse lo sguardo. «Ma l'ho ucciso.»

    «L'ha ucciso?!»

    «Si è schiantato con la Duesy che gli ho regalato per il compleanno, pochi mesi fa.»

    «Duesy?»

    «Un'autovettura, Duesenberg. Un regalo stupido. Matthew guidava da schifo. È finito dritto contro un muro ed è morto nel rogo. Il passeggero è sopravvissuto, ma non ricorda nulla.»

    «Oh.»

    «Un mio amico, uno psichiatra, ha suggerito che mi facessi fare un suo ritratto in miniatura. Fa parte del processo per elaborare il lutto. La teoria è che devi piangere fuori anche l'anima e a quel punto puoi riprenderti. Allora ho pensato di farmi fare un ritratto di dimensioni reali con gli arti snodabili. Siamo appena rientrati da una cena andata un po' per le lunghe. Suppongo di sembrare ancora brillo, eh?»

    «Nient'affatto, signore.»

    Una piccola bugia innocente. Mary aveva già deciso di chiudere un occhio sul suo bicchierone di brandy.

    Bicchierone che in quell'istante Daniel posò. «Ho un palco privato all'opera per mio uso esclusivo. Tradizione di famiglia. Ieri sera c'era la Bohème, la preferita di Matthew. Il mio tesoro ha sempre avuto un debole per l'esagerazione.»

    Il suo tesoro?! «Ma signore, lei è stato eletto lo scapolo più ricercato della Stagione...»

    «Credo che tu intenda il più ambito, Mary. In realtà sono la stessa cosa, mi sa. Sono ricercato in tutta Europa. Le donne hanno questa tendenza a correre dietro agli uomini non interessati o non disponibili.»

    Lei ritenne preferibile non sottolineare che le donne tendono anche a correre dietro a chi è schifosamente ricco. Se pure avesse avuto l'aspetto di un orco, Danny sarebbe comunque stato considerato un buon partito. Le venne in mente che forse era un po' ingenuo. Comunque, ora era curiosa. «Ma la gente non vi fissava, signore?»

    «Discrezione, mia cara. Vedi, Matthew ci sta comodo comodo in una valigetta speciale che ho fatto fare apposta per lui. Sebastian la porta a teatro, lo tira fuori, lo spiega e lo issa nell'ombra. A quel punto, possiamo goderci l'opera in santa pace. Proprio come facevamo prima... che morisse.»

    Esalando uno strano verso gutturale, Daniel lasciò ciondolare la testa, e Mary si spaventò. Era il verso di un animale in preda a un dolore straziante. Singhiozzi stentorei gli salivano a fiotti dall'io più profondo e primordiale. Santa patata, cosa devo fare? Dopotutto, lui era il suo stimato padrone, un abitante dei piani alti, là dove l'aria è tersa e fragrante. Ed essendo anche un eroe di guerra decorato, trasudava forza e virilità. Mentre lei era solo la squattrinata Mary Maguire. Una ragazza senza famiglia né casa. E, a breve, il più recente acquisto tra le file dei disoccupati. Non aveva niente da perdere. Perciò si fece avanti e lo sfiorò esitante.

    Danny, che non si era aspettato tanta gentilezza, sentì intensificarsi l'angoscia. Lei non lo sapeva, ma erano settimane che nessuno lo toccava. Era solo, abbandonato e bramoso di contatto umano. Per la prima volta si concesse di piangere le sue perdite. Pianse la madre, morta dandolo alla luce. Pianse i due fratelli maggiori e gli altri compagni d'arme falciati a Gallipoli e nelle Fiandre. Pianse per la futilità, l'orrore e la bruttura della guerra. E poi si arrese sino in fondo e pianse Matthew Lamb, del tutto consapevole che l'oggetto dei suoi affetti non meritava il suo amore. Daniel era un pazzo che ululava in un abisso senza fondo.

    Mary era agitatissima. La sorprendeva che ancora non fosse sopraggiunto nessuno. Se non fosse riuscita a calmarlo, sarebbe arrivato di gran carriera l'intero albergo. Tutti a bocca aperta, tutti a spettegolare. Senza ulteriore indugio, gli si appollaiò cauta sulle ginocchia e con garbo gli attirò la testa sul generoso petto. Incapace di resistere, Danny le si strofinò contro. Allora lei gli inanellò una serie di bacetti sul cocuzzolo e lo cullò con dolcezza, intonando gli stessi rumorini calmanti che riservava al pianto della piccola. «Su, su, su. Ssh. Andrà tutto bene. Vedrà. Ssh.»

    Lui tornò bambino, il cucciolotto goffo che in segreto era sempre stato. Le inzuppò di lacrime il corpetto inamidato dell'uniforme. Alla fine i gemiti si placarono e i due restarono abbarbicati, impietriti dal tempo e dal dolore mentre il malinconico chiarore del mattino filtrava dalla finestra.

    Da sotto, Mary sentì salire uno stridore di freni mentre due automobili si urtavano. Una ramazza spazzava il marciapiede e un salariato passò fischiettando. La bambina, sempre tranquilla nel suo bozzolo di visone, gorgogliò. Mancavano ancora parecchi anni a quando avrebbe dovuto sopportare il pesante fardello delle adulte afflizioni.

    Scese la calma. Daniel du Barry era aggrappato a lei come un uomo in procinto di annegare. La luce del sole le bagnava la pelle burrosa e creava un'aureola intorno ai capelli rossi. È deliziosa, pensò Danny, un angelo preraffaellita.

    Mmh... improbabile. Forse un angelo caduto.

    Per la prima volta da settimane, l'uomo si esibì in un sorriso pallido, fanciullesco. Fiducioso. Sorriso che Mary contraccambiò. La stanza si era fatta assai silenziosa. Gli unici ad assistere alla scena furono i gelidi e sfavillanti occhi azzurri di Matthew Lamb. Lui ancora non lo sapeva, ma i suoi giorni erano contati.

    Le prime parole che le rivolse mentre Mary gli scivolava giù dalle ginocchia furono: «Alla luce di questo, ho intenzione di sollevarti dai tuoi doveri».

    Lei prese fiato e contò fino a cinque. «Certo signore, ero preparata al benservito. Ma lasci che glielo dica, sarò sempre grata all'Hotel du Barry. È l'unica vera casa che abbia mai avuto.»

    Da brava orfana, aveva imparato a non aspettarsi niente. Aveva giocato la sua carta migliore e aveva perso. Lacrime sincere minacciavano di sopraffarla, ma era decisa a non piangere. Si trincerò dietro la sua dignità, diventando quasi invisibile.

    Daniel mise su una faccia perplessa, quindi si affrettò a spiegare. «No, no! Hai frainteso, Mary. Per questa mattina, incaricherò qualcun altro di sbrigare le tue faccende. Non ho nessuna intenzione di licenziarti. Anzi, pensavo che forse potremmo fare colazione insieme. Detesto mangiare da solo, e dobbiamo parlare di questa...»

    Agitò la mano in direzione della zuppiera, quindi riprese a parlare. «La piccola ha fame? Hai bisogno di un po' di privacy per allattarla? E ti scongiuro, smettila di chiamarmi signore.»

    Mary non raccontava bugie. «Io non ho latte. La piccola prende il biberon.»

    Detto questo, agguantò con simulata indifferenza due tovaglioli dalla tavola e si precipitò nell'atrio con la piccola, che cambiò in un battibaleno. Temeva che un pannolino puzzolente potesse infastidire il capo, guastando quel bello spirito di riconciliazione.

    In men che non si dica, la bimba stava succhiando da un biberon tiepido e faceva gli occhioni a Danny. Come Mary avrebbe riferito in seguito a Bertha Brown: «Quel poveraccio non aveva speranze».

    L'uomo guardò Mary. «Cosa intendi fare di lei?»

    «La manderò all'orfanotrofio. Non mi è possibile mantenerla.»

    «Sai, per ora potrei prenderla sotto la mia tutela. E poi, se sarai ancora intenzionata a darla in adozione, potrei darle il mio nome e crescerla come fosse mia. Sto per sposare la sorella di Matthew, Edwina Lamb. Sarà un matrimonio di convenienza, un contratto, per così dire. Al momento i miei avvocati stanno redigendo i documenti.»

    «Ah.»

    «Da ammogliato, mi troverò nella posizione di dare alla bimba una dimora stabile. Per ovvie ragioni, la mia unione con la signorina Lamb non produrrà alcuna progenie, per cui la piccola sarebbe figlia unica. Sono informazioni riservate, mi raccomando. Non rispondermi adesso. Prenditi qualche settimana per pensarci. Non voglio approfittare della tua sfortunata situazione.»

    «La ringrazio moltissimo, signore. Voglio dire, signor du Barry.»

    «Chiamami Daniel e dammi del tu» la invitò lui con un sorriso. «Ho sentito dire

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