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I Racconti degli Esterni: Sangue di Re
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I Racconti degli Esterni: Sangue di Re
E-book684 pagine8 ore

I Racconti degli Esterni: Sangue di Re

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Info su questo ebook

Vi è mai capitato di essere seduti di fronte al volto ingrigito di un consulente finanziario e domandarvi se egli non sia in realtà un negromante che arriva da un’era dimenticata? O, nel bel mezzo della convention di un network marketing, chiedervi se le persone intorno a voi non siano degli esseri di una dimensione parallela e determinati a conquistare la Terra? A John Zmrzlina questo capita di continuo, ma non c’è da sorprendersi: John è il prototipo del “nerd”, un trentenne buono a nulla, che vive in un mondo tutto suo, fatto di fumetti e film di fantascienza. Il problema è che John ci ha visto giusto: in seguito a un inverosimile incidente, si è scoperto braccato da oscure creature agli ordini di Mordhia, la spietata regina del mondo parallelo di Alterea ed è stato tratto in salvo da un’organizzazione segreta, la Fondazione, da secoli all’opera per rintracciare i discendenti dei custodi di antichi poteri e addestrarli per affrontare l’imminente invasione.
LinguaItaliano
EditoreGM Libri
Data di uscita27 lug 2020
ISBN9788855289092
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    Anteprima del libro

    I Racconti degli Esterni - Giorgio Bernard

    Fantasy

    «Fantasy?» ripeté divertito mister Laughlin. «Un po’ come dire fantastico, o fantasioso, dico bene?»

    Il responsabile del personale della Louis and Rewel rimase immobile, aspettando che il ragazzone seduto di fronte a lui rispondesse.

    «Be’, sì» balbettò John. «O p-perlomeno dovrebbe essere questo il significato. Anche se, il più delle volte, il genere Fantasy finisce per essere l’esatto opposto di qualcosa di fantasioso.»

    «L’esatto opposto?» ridacchiò il manager, perplesso. «E per quale motivo, mi scusi? Stiamo comunque parlando di narrativa fantastica. Uno scrittore dovrebbe poter andare a briglia sciolta, meno vincolato rispetto a soggetti più tradizionali.»

    «Fo-forse dipende dal successo che i primi capolavori Fantasy hanno riscosso,» rispose il giovane, tamburellando le dita sulla superficie del tavolo. «O forse dall’abilità con cui i d-due grandi scrittori di cui le stavo parlando hanno descritto le loro ambientazioni. E comunque, la sostanza non cambia. Quello che i grandi padri del Fantasy hanno fatto è stato molto di più che inventare un genere. Ne hanno anche definito gli stereotipi, i cliché.»

    «Cliché?» chiese Laughlin, sgranando gli occhi. «Cosa intende di preciso, signor Zer... Zimm...»

    Lo sguardo del dirigente si abbassò verso il raccoglitore aperto davanti al suo naso, ma John lo anticipò con un bisbiglio.

    «Zmrzlina» disse. «John Zmrzlina.»

    «Sì, certo... Zmrzina, mi scusi. Non riesco proprio a tererlo a mente, mi scusi.»

    «Ci mancherebbe. È un no-nome che non ricorda mai nessuno. Mio padre era nativo di Praga, sa? Da quelle parti Zmrzlina significa gelati, pensi lei...»

    «Gelati» ripeté mister Laughlin, annuendo con espressione grave. «Chi l’avrebbe mai detto? Ma... insomma, mi stava dicendo, a proposito degli stereotipi...»

    «Ce-certo. Gli stereotipi» ansimò John. «Quello che dicevo è che, dopo quelle due prime originalissime storie, il Fantasy si è come c-cristallizzato. Alcuni suoi elementi si sono trasformati in pu-punti fermi e ineliminabili per qualsiasi scrittore decida di cimentarsi con il genere.»

    «Non capisco» mugugnò il manager, sistemandosi gli occhiali sulla punta del naso sottile.

    «Be’... q-quello che intendevo dire è che ogni autore che io abbia letto ha scritto sostanzialmente le stesse cose, a prescindere dal fatto che fosse americano o inglese; che fosse vissuto negli anni Settanta o negli anni Novanta.»

    «Le stesse cose?» l’interruppe Laughlin. «Che genere di cose?»

    «La lotta tra il bene e il male, per esempio» rispose John picchiettando sempre più nervosamente con le dita. «La ricerca di un oggetto incantato, popoli fatati come i nobili elfi o i selvaggi orchi... per non parlare dei draghi. Questi elementi sono diventati dei veri e propri luoghi comuni per centinaia e centinaia di libri, appartenuti a epoche e contesti culturali completamente diversi tra loro.»

    «E questo dovrebbe essere un motivo di sollievo per uno scrittore come lei, dico bene? Intendo dire che trovarsi a scrivere con un contesto già delineato dovrebbe facilitarle non poco il lavoro.»

    «Scrittore» borbottò John. «Lei mi lusinga. Io no-non sono uno scrittore vero e proprio, ma uno sceneggiatore di fumetti e...» così dicendo, si rigirò sulla seggiola a disagio, asciugandosi il sudore dalla fronte.

    Sostenere un secondo colloquio di assunzione non era mica una cosa semplice, nemmeno per un vero esperto del settore come lui: negli ultimi due mesi ne aveva affrontati almeno una decina e conosceva bene le regole del gioco.

    Si doveva mantenere sempre l’iniziativa, scegliendo con cura gli argomenti da affrontare e le parole più corrette per esporli, proprio come si fa in una trattativa di vendita. La postura poi era essenziale: bisognava rimanere ben dritti con la schiena, senza mai abbassare lo sguardo o abbandonarsi a un linguaggio del corpo negativo.

    Soprattutto, mai distogliere l’attenzione dal proprio interlocutore: era solo osservando e intuendo le sue reazioni che si potevano calibrare i modi e i tempi del dialogo.

    Sto andando bene si disse John. In quasi un’ora di colloquio non ho mai incrociato le braccia, ho balbettato pochissimo e mi sono mangiato le unghie una volta soltanto. E soprattutto Laughlin sta continuando a sorridere, questo vuol dire che l’ho conquistato, che come dipendente gli vado a genio.

    Nello stesso preciso istante, si rese conto di aver perso il filo del discorso.

    «M-mi stava dicendo?» sussurrò con la bocca tremolante.

    «Dicevo» gli rispose Laughlin, sporgendosi verso di lui, «che non mi ero mai messo a considerare l’argomento da questa prospettiva. Questi luoghi comuni, come lei li definisce... danno da pensare, non trova?»

    «Pensare a cosa, di preciso?»

    «Per esempio che, se tutte queste persone hanno scritto di elfi e draghi, forse il motivo è che c’è stata un’epoca in cui simili creature sono esistite davvero. E di quell’epoca magari adesso conserviamo una sorta di nebuloso ricordo collettivo... un po’ come per il diluvio universale.»

    «Be’, sì, è una teoria affascinante, senza dubbio...»

    «Ma immagino che lei ne abbia un’altra» ridacchiò Mr Laughlin. «Dico bene? E scommetto che è sul punto di raccontarmela!» così dicendo, richiuse il proprio raccoglitore e incrociò le braccia, preparandosi ad ascoltare.

    «Sì, certamente...» attaccò John, guardandosi attorno con aria sognante. «Per come la vedo io, si tratta di una sorta di immaginario condiviso. Come se chiunque si mettesse a scrivere su questo argomento sapesse in realtà di contribuire alla sua descrizione soltanto in piccola parte.»

    Il responsabile del personale scosse la testa, sorridendo.

    «C-cerco di spiegarmi meglio. Lei ha mai sentito parlare di giochi di ruolo

    «Sono quei giochi strategici simili agli scacchi?»

    «No... direi di no. In effetti sono molto diversi dal gioco degli scacchi. Qui la strategia ha un aspetto secondario. Non vedrà nessun giocatore di ruolo impegnato a disporre pedoni su una scacchiera o a pianificare arrocchi di torre per dare scacco al re. Nel gioco di ruolo, soprattutto quello classico, giocato solo coi dadi e senza l’aiuto del computer, è la narrazione ad avere la prevalenza.»

    Mister Laughlin sorrise, annuendo lentamente.

    «Certo,» proseguì John, «le regole del gioco, le istruzioni, esistono e sono di solito molto articolate: devono spiegare ai giocatori come eseguire le azioni più varie, dal semplice combattimento, al riparare uno strumento, all’adoperare una fune; perfino suturare una ferita! Ma il regolamento non è poi così importante e questo ogni giocatore lo sa bene. Ciò che importa è immedesimarsi in un personaggio del quale s’interpreterà il ruolo. Ciò che davvero conta è la storia. E anche qui, come nella narrativa Fantasy, ognuno dei soggetti coinvolti partecipa alla creazione della storia solamente per una piccola parte. Il m-master delinea gli aspetti fondamentali...»

    «Il master?» domandò Laughlin. «Deve trattarsi di un ruolo molto importante.»

    «Insomma» gli rispose John, «si tratta di un’importanza relativa, tutta interna al gioco... Il master non è uno dei giocatori, a lui è affidato il compito di delineare i punti fermi della trama, impostandola secondo una scaletta o una semplice cronologia degli eventi... dal primo incontro casuale, fino all’apocalittico scontro finale. È lui a decidere gli avvenimenti esterni e imprevedibili come la pioggia, o i terremoti... e a gestire tutti i personaggi non interpretati dagli altri giocatori. È sempre il master a inventare e descrivere le ambientazioni: una fortezza, una cattedrale, un bosco incantato, trasformando gli altri giocatori in una sorta di turisti casuali, trasportati dalla loro stessa fantasia in un mondo di fiaba.»

    «E ai giocatori? A loro cosa resta da fare?»

    «I giocatori decidono tutto il resto!» rispose John, sorridente. «Ognuno di loro sceglie un personaggio... che può essere un druido, un paladino o uno stregone; il giocatore ne decide i tratti caratteriali e fisici, le inclinazioni e i valori morali; addirittura l’abbigliamento, le armi e gli equipaggiamenti... tutto, fin nei più minimi dettagli: dalle spade e i pugnali fino alle borracce piene di pozioni e di liquori.»

    «E una volta fatto tutto questo?» domandò Laughlin. «Cosa resta da fare?»

    «Resta solo da giocare!» esclamò John, allargando le braccia. «Compiere azioni, vivere avventure, incontrare mo-mostri e creature fantastiche. Semplicemente abbandonandosi alla storia! È per questo che l’ambientazione, con tutti i suoi luoghi comuni, è sempre la stessa. Potrei trovarmi a Helsinki, a Bombay o in Sudamerica e mi sarebbe comunque possibile giocare allo stesso gioco. Perché t-troverei qualcuno che magari non parla la mia stessa lingua, ma è abituato a rifugiarsi in un mondo fantastico che è identico a quello dove mi rifugio io.»

    «Affascinante» sussurrò il manager, alzandosi in piedi.

    «Davvero!» gli fece eco John, alzandosi a sua volta. «E c-credo che per la narrativa valga lo stesso principio. Quello che involontariamente si è accettato di fare è di descrivere e raccontare solo una piccola parte, o un dettaglio della storia, lasciandone immutati il contesto, i principi basilari; come se il Fantasy fosse un mondo parallelo, incorporeo, ma non per questo meno reale, che appartiene all’umanità intera.»

    «È fantastico!» esclamò Laughlin, tendendo la mano al candidato. «Davvero un’idea meravigliosa, John. La ringrazio per il tempo che ha voluto dedicarmi.»

    «E q-quindi?» domandò John stringendogli la mano.

    «Quindi che cosa?»

    «S-sì, insomma... intendevo dire: per il posto di lavoro, come pensa che...»

    «Non credo che questo posto di lavoro faccia al caso suo» tagliò corto il manager, avviandosi verso l’uscita.

    «Co-come sarebbe a d-di...»

    «Vede, signor Zirm... Zerb...»

    «Zmrzlina!» sbottò John.

    «Zmrzinia, certo» disse Laughlin. «Vede, John, la Louis and Rewel è uno studio di consulenza finanziaria. Quello che facciamo è gestire i risparmi dei nostri clienti, consigliando loro investimenti, fondi obbligazionari...»

    John rimase imbambolato, come se di quello che stava ascoltando non comprendesse neppure una parola.

    «Il nostro colloquio è durato quasi due ore, John» precisò Laughlin con un sorriso. «E per due ore lei non mi ha parlato d’altro che di fumetti, narrativa Fantasy e giochi di strategia. Io non credo, onestamente, che lei voglia davvero fare il consulente finanziario.»

    «La co-consulenza finanziaria è il mio sogno, signore» implorò John. «Desidero essere un pro-promotore f-finanziario più di ogni altra cosa.»

    «Non è vero. Lei non desidera affatto essere un promotore finanziario. E quanto a sognare... be’, sono sicuro che in realtà lei sogna di poter essere un drudo

    «Druido» bisbigliò John, chinando il capo. «Voleva dire druido

    «Appunto!» concluse Mr Laughlin, sorridendo. «Le auguro buona fortuna, John. E grazie ancora per la splendida chiacchierata.»

    Detto questo, si voltò e si allontanò spedito lungo il corridoio, con la sua cartelletta sotto il braccio.

    John rimase a guardarlo per un istante e cacciò un penoso sospiro.

    Certo che lo desidero! pensò. Chiunque sia sano di mente preferirebbe essere un druido che un promotore finanziario! Peccato soltanto che nel mondo reale druidi e stregoni non esistano!

    Cronologia

    El Cajon, 27 settembre

    undici giorni all’allineamento

    «Ghaharmaglahannh!» ruggì il ragazzino vestito da boyscout. «Ghorhomm. Haahaalmmmahaaanng!»

    L’acqua contenuta nella grande cisterna prese a gorgogliare, producendo lo stesso suono uscito dalla sua bocca; quindi iniziò a scivolare giù lungo il tubo, andando a riversarsi dentro al bacino.

    Il colonnello Fuentes non poté fare a meno di spalancare gli occhi e arretrò di un passo. Quella voce era troppo profonda e potente per poter appartenere a quel bambino grassottello.

    «E-hè» ridacchiò il ragazzino, voltandosi a guardarlo. «È impressionante, non trova?»

    Il colonnello annuì nervoso. Aveva due baffi enormi e un ventre flaccido e sporgente.

    «Vuole che le dica che cosa ho appena fatto?» gli domandò il ragazzino. «Ho preso possesso di tutta l’acqua del lago, mio caro colonnello. Adesso essa risponderà ai miei comandi, mi avviserà delle minacce incombenti. Mi è amica, insomma. O, piuttosto, una mia fedele servitrice! Sì. Questo secondo termine mi sembra più corretto!»

    Fuentes abbozzò un sorriso impacciato, asciugandosi con un fazzoletto il sudore che gli imperlava il faccione.

    «Ma lei non ha capito una sola parola di quello che le ho detto, non è vero?»

    «Ah... sì» balbettò il soldato, sorridendo. Poi indicò le scale e fece per dire qualcosa, quando i suoi occhi si spalancarono una seconda volta.

    Da sotto la camicia color kaki del ragazzo si stava sollevando un rivolo di fumo biancastro.

    «Cosa c’è da guardare? Ah, sì! Questo! È questo che sta guardando, colonnello?»

    Così dicendo, infilò la mano sotto al colletto della camicia e ne estrasse un medaglione rotondo, appeso a una collana: sembrava un’antica moneta in metallo grezzo. Il disco di ferro si stava liquefacendo davanti agli occhi allibiti del militare, riempiendo la sala di controllo della diga con un fumo denso, dall’odore pestilenziale.

    «Vedo che non si può tenerle nascosto nulla!» esclamò il boyscout con la sua voce sgradevolmente acuta. «E-hè... immagino che sarò costretto a raccontarle ogni cosa, a questo punto. Ma la prego, mi faccia strada.»

    Fuentes rimase imbambolato per un momento, quindi assecondò il gesto teatrale con cui il boyscout lo invitava a incamminarsi e puntò spedito verso le scale.

    «Vede, colonnello. Quello che ha appena udito si chiama fonema di attivazione. Nel mondo da cui provengo, viene adoperato per modificare la realtà che ci circonda.»

    Fuentes salì il primo gradino e si voltò ad annuire, mentre il ragazzo lasciava cadere a terra i resti disciolti del medaglione.

    «Insomma... modificare non è senz’altro la parola più appropriata. L’Alterazione è un’arte violenta, molto più vicina a uno stupro che non a una gentile modifica. Ecco, sì. Mettiamola così, coi fonemi che ho recitato, io ho violentato la realtà, costringendola a piegarsi al mio volere. Il problema è che questa violenza ha un costo, essa genera uno squilibrio che va ricomposto mediante un pagamento; può trattarsi di una qualsiasi offerta, di una vita umana o di un oggetto... un oggetto molto particolare.

    Ed è qui che entra in gioco il medaglione! Nel mondo da cui provengo, lo chiamano Dsuh ed è una sorta di concentrato di energia, una moneta ricolma dell’energia primeva di cui è fatto questo mondo, la Terra.»

    Così dicendo, estrasse dalla tasca altri due medaglioni e se li legò al collo, nascondendoli svelto sotto la camicia.

    «Li ha visti, vero?» ridacchiò. «Altri Dsuh! I miei traveller cheque fatti di energia primeva terrestre. L’energia del mio mondo non sarebbe utilizzabile sul vostro. Lo capisce questo?»

    «Ay!» esclamò Fuentes, raggiungendo a fatica l’ultimo gradino della scala. L’improba arrampicata lo aveva prosciugato di ogni forza, facendolo sudare come una fontana; si asciugò la fronte con la solita pezzuola ed estrasse dalla tasca un foglietto di carta stropicciata.

    «Senior Sebastian» boccheggiò, leggendo il nome sul promemoria che aveva in mano. «Se vuole seguirrmi, da questa parrte c’è sala con rinfrresco e banchetto per lei...»

    Il ragazzo restò immobile, le mani giunte dietro la schiena, a fissarlo con aria indispettita; portava spessi occhiali da vista e aveva i capelli impomatati, pettinati con la riga da una parte. Per qualche strano motivo, sembrava immune al caldo soffocante della giungla honduregna e la sua pelle liscia da pre-adolescente emanava un ottundente profumo di borotalco.

    «Molto bello, questo posto!» esclamò di punto in bianco, ballonzolando sui piedi.

    L’ampio corridoio in cui adesso si trovavano era illuminato a giorno da una cinquantina di fari alogeni e il pavimento a scacchi neri e bianchi era lucido come se fosse stato appena posato.

    «Da questa parrte» ripeté Fuentes, indicando una porta socchiusa all’altra estremità del corridoio; da oltre la soglia, giungeva un parlottio indistinto e la musica soffusa di una piccola orchestra.

    «Le ho detto di no!» sbottò il ragazzino. «Devo vedere la sala delle turbine, prima! Salon de turbinas, capisce?»

    «El salòn de las turbinas?» balbettò Fuentes, irrigidendosi.

    «Esatto!» ridacchiò Sebastian. «Correcta! Perfecta! Allora, mi ci vuole portare in questa maledetta sala? O devo cercare una piantina del complesso?»

    Fuentes lanciò un’occhiata verso la sala del banchetto e quindi s’incamminò attraverso il corridoio, facendo cenno al ragazzo di seguirlo.

    Cominciava ad averne abbastanza di questa storia.

    Quando il generale Cardenas gli aveva affidato l’incarico di accogliere al Projecto Idroelectrico i dirigenti della Bond, la multinazionale che con la sua donazione aveva permesso di completare le turbine della diga, aveva pensato che il signor Sebastian di cui tanto si parlava fosse un signore sulla sessantina.

    Aveva immaginato di vederlo arrivare nel parcheggio della centrale idroelettrica a bordo della sua limousine, accompagnato da altri americani pallidi, calvi con addosso vestiti eleganti.

    Così aveva preparato il picchetto d’onore e la banda militare, istruita per l’occasione a eseguire una suite che si apriva con Stars and Stripes e si concludeva con Sweet Georgia Brown; quindi aveva esteso l’invito per il banchetto agli ingegneri della diga e alle loro consorti e si era preparato per un’elegante soiree.

    Le cose, però, erano andate in modo completamente diverso da come se le era immaginate. Il convoglio della Bond era arrivato a notte fonda e non era composto da limousine, ma da una colonna di quattro furgoni.

    Dai veicoli, poi, non erano scesi dei sessantenni in smoking, ma una ventina di operai in tuta da lavoro e caschetto di sicurezza giallo, che avevano cominciato a scaricare ogni genere di macchinario e si erano messi subito a lavorare, alacri e silenziosi come formiche operaie.

    Dal veicolo più grande era infine sceso il signor Sebastian in carne e ossa e a questo punto la perplessità era tracimata in un incontenibile stupore. L’amministratore delegato della Bond era in realtà un dodicenne frustrato, grassoccio e incline alla collera, vestito con bermuda, calzettoni e cappello coloniale. Il ragazzetto aveva iniziato a sbraitare ordini, pretendendo che lo portasse da una parte all’altra del complesso come se fosse il suo lacchè.

    «Che tristezza che mi fate» borbottò adesso Sebastian, scendendo lungo la stretta scala a chiocciola.

    «Ah... sì» balbettò Fuentes, sorridendo imbarazzato; si era annotato sul suo foglietto solo semplici frasi di circostanza, mentre, adesso era chiaro, ciò che sarebbe servito era un interprete in piena regola.

    «E non parlo mica soltanto di lei e dei suoi uomini, che crede?» continuò Sebastian. «Parlo di questo mondo e dello sperpero che ha fatto delle sue enormi ricchezze!»

    Fuentes rise di gusto, come se quella che aveva appena udito fosse una garbata freddura.

    «C’è stato un tempo in cui questo mondo è stato consapevole della propria forza» sospirò il ragazzo. «In cui il potere veniva appreso e correttamente amministrato. Avevate dei poderosi rituali, lo sa? Rituali che non necessitavano né di sacrifici né di Dsuh, ma semplicemente di sincronizzarsi con le forze della natura, o di impiegare l’energia primeva fornita dal vostro satellite, la Luna. Il mio mondo, Alterea, purtroppo non possiede alcun satellite.»

    «La Luna» ridacchiò Fuentes. «Ah, sì... ah, sì...»

    «E invece a un certo punto vi siete impigriti!» continuò Sebastian, senza curarsi di lui. «Avete permesso ad altri di dirvi cosa era vero e cosa non lo era, lasciando che a gestire le energie primordiali fosse sempre qualcun altro a cui, come un gregge di pecore, affidavate la vostra vita. Avete cominciato a chiamare la vostra forza stregoneria, poi l’avete ribattezzata superstizione e, di lì a poco, avete finito per dimenticarla del tutto.»

    «Aqui, estimo» l’interruppe. «El salòn!»

    In fondo alla scala, c’era un corridoio, illuminato dalla luce fioca di lontane lampade al neon.

    I sei soldati schierati a guardia delle porte scattarono sull’attenti, facendo tintinnare l’acciaio dei loro fucili.

    «Bene bene...» sussurrò Sebastian, sorridendo. «Qui le cose si fanno interessanti.»

    «Tener cuidado!» ordinò Fuentes, quindi lanciò un’occhiata compiaciuta al proprio ospite.

    «La sala delle turbine!» disse il ragazzo, senza fare una piega.

    «Turbinas» balbettò il soldato baffuto, incamminandosi verso la porta centrale del corridoio. «Este lado... questa parrte, prrego.»

    Appoggiò le mani sopra alle maniglie e spalancò le due ante come se dischiudesse un sipario.

    La mole incombente delle quattro turbine ad asse verticale emergeva minacciosa dalla penombra che riempiva l’enorme sala; sembravano le gigantesche colonne tortili di un perduto tempio pagano. Fuentes si lasciò scappare un sorriso di trionfo, mentre le luci di servizio cominciavano ad accendersi, tintinnando.

    «Te gusta, señor Sebastian?»

    Il ragazzo però non sembrava condividerne l’allegria. Era impietrito, coi pugni stretti e lo sguardo accigliato, e guardava le turbine come se fossero una scritta blasfema scarabocchiata su un muro.

    «Quattro?» chiese in un sussurro.

    «Còmo?» replicò Fuentes.

    «Ho detto che sono quattro! Perché proprio quattro? Perché non cinque, o venti, o duemila? Potevate spendere i miei soldi come meglio credevate! Perché dovevate proprio decidere di rovinarmi la giornata?»

    Fuentes scrollò le spalle e i suoi uomini fecero capolino oltre la grande porta, incuriositi dallo starnazzare del ragazzo.

    «Còmo?»

    «Lasci perdere» ansimò Sebastian, dirigendosi verso la grande porta laterale. «Tanto non le basterebbero duecento anni per capire ciò che dovrei spiegarle.»

    Il ragazzino si accostò alla porta e la dischiuse con uno strano movimento della mano; al di là delle due ante era ferma in paziente attesa una delle squadre di operai arrivate insieme a lui.

    Non appena la porta fu aperta, i quattro uomini in tuta entrarono nella sala al piccolo trotto, portando sulle spalle un’enorme cisterna, come fosse la statua di un santo, condotta in processione a una festa di paese.

    «Co...» cercò di dire Fuentes, spalancando la bocca. Il contenitore era troppo grande, troppo pesante per poter essere portato in spalla, fosse anche da quaranta uomini.

    La squadra si fermò vicino alle valvole del collettore e poggiò in terra la cisterna, senza emettere il minimo rumore. Fuentes si fece loro incontro con aria sospettosa.

    «Dove sta andando, colonnello?» risuonò la voce da papero di Sebastian.

    «Cuáles son sus hombres que hacen?» chiese lui, continuando ad avvicinarsi. «Está prohibido tocar las válvulas. Sólo el personal autorizado...»

    «Stanno per riversare il contenuto di quel piccolo contenitore dentro al lago» ammise Sebastian, afferrandolo per la mano. «C’è una soluzione oleosa, là dentro... e contiene delle piccole macchine, delle macchinette assassine che tagliano e mangiano ogni cosa. Vedesse quanto sono carine!»

    Ma Fuentes non aveva compreso una parola di quello che gli aveva detto.

    «Penso che un po’ di tecnologia possa aiutare di tanto in tanto, non trova?»

    Fuentes lanciò un’occhiataccia al ragazzino e, liberatosi dalla sua stretta, procedette spedito verso i quattro operai.

    «Come vuole lei» squittì Sebastian. «Vorrà dire che lquallannahallahuu...»

    La voce del ragazzo gli risuonò dentro lo stomaco, ma lui non le prestò attenzione; raggiunse il primo operaio e lo afferrò per la spalla. L’uomo si voltò a guardarlo con il guizzo di un felino e Fuentes si sentì venir meno. No, quello che aveva di fronte non era un uomo. Sotto al casco di plastica giallo, era celato un volto nero come la pece, in mezzo a cui spiccavano due occhi malevoli, completamente bianchi.

    «Shhhaukalah!» ringhiò la creatura dell’ombra.

    «... alluhuquahualllaahuullunnurrhu.» Il mormorio di Sebastian continuava a risuonare mentre i soldati entravano nella stanza uno dopo l’altro, come ipnotizzati da quella voce inumana.

    «Alarma! Me ayu...» cercò di dire Fuentes; ma la voce gli si strozzò in gola e dalla bocca cominciò a uscirgli un liquame denso, dal sapore dolciastro.

    «E-hè» ridacchiò Sebastian, andandogli incontro. «Che cosa c’è? Si sente un po’ appesantito?»

    Fuentes afferrò il ragazzo per il bavero, fissandolo con sguardo implorante, mentre da sotto la camicia del boyscout si alzava una nuova nuvoletta di fumo.

    «O forse avrà bevuto un po’ troppo» lo schernì, sorridendo di sbieco. «Se ci trovassimo diecimila anni nel passato, adesso lei potrebbe respingere il mio attacco invocando la Luna. Invece tutto ciò che può fare è stringere il suo portafortuna sperando che tutto vada a finire bene, oppure farsi uno strano segno sulla testa prima di morire e...»

    «... hullunuhurru...» rantolò Fuentes; poi rovesciò gli occhi all’indietro e crollò a terra.

    «Appunto» sussurrò Sebastian. «Morire.»

    I soldati erano entrati nella sala ed erano pronti a sparare.

    «Ali della notte» imprecò il ragazzo, prima di scattare di lato.

    In due aprirono il fuoco e le raffiche lo mancarono di pochi centimetri.

    «Shatahafehenga!» gridò con voce baritonale, protendendo i palmi aperti davanti a sé. Le mani avvamparono di una luce accecante e due dischi abbaglianti se ne staccarono, più veloci del pensiero, andando a colpire i due uomini in uniforme.

    Il costato del primo esplose in uno schizzo color carminio, mentre il secondo si accasciò a terra, la testa staccata di netto.

    «Continuate a lavorare, voi quattro!» starnazzò Sebastian alle creature; poi rotolò sul pavimento e protese le mani di nuovo. «Shatahafehenga!» tuonò.

    Due lampi esplosero nella sala e altri due soldati rotolarono a terra prima di avere il tempo di sparare.

    «Shatahafehenga! Shatahafehenga! Shatahafehenga!»

    Ma non accadde nulla e Sebastian si strappò la camicia sul petto. Dei medaglioni non rimaneva che una poltiglia fumante.

    «E-hè!» ridacchiò nervoso. «Per la chioma della Regina! Sembra proprio che io abbia finito le munizioni...»

    Uno dei due soldati sopravvissuti era troppo terrorizzato persino per imbracciare il fucile, ma l’altro sembrava aver ben compreso l’irripetibile occasione che gli veniva concessa; prese un profondo respiro e puntò l’arma, quando, alle sue spalle, una mano nera e affusolata guizzò fuori dall’ombra, afferrandolo per il collo.

    «Che tu sia maledetto altre mille volte, Ricklaunim!» strillò Sebastian. «Dove serneltz eri finito?»

    L’imponente sagoma emerse dall’oscurità. Sollevò la sua preda da terra e se l’avvicinò al volto con raggelante lentezza; il soldato sparò quattro colpi uno appresso all’altro, ma Ricklaunim non vacillò neppure, come se fosse fatto d’aria. Era alto più di due metri, avvolto in una cappa nera come la notte.

    «Muhrruhumm» sussurrò, con lo stesso profondo brontolio di una slavina.

    Il collo del soldato si spezzò con uno schiocco.

    Poi nel salone risuonarono le note de La Primavera di Antonio Vivaldi.

    «Pronto?» trillò allegra la voce di Sebastian. «Oh, sì. Ciao, Julian! Come stai?»

    Il Non Vivo lasciò cadere a terra il peso inerte della propria preda, volgendo il capo verso l’ultimo superstite.

    «No me mates, por favor» implorò.

    «Shhhhh!» sibilò Sebastian. «Non riesco a sentire! Pronto, Julian? Sei già a Londra? Come procede la consegna delle casse?»

    Il soldato strisciò all’indietro sulla schiena, senza riuscire a distogliere lo sguardo atterrito da Ricklaunim.

    Da sotto il cappuccio nero, riluceva un bagliore sinistro e due labbra scarnificate parvero torcersi in un sadico sorriso.

    «E a Washington come procediamo? Bene... bene... Ahremm, Julian... senti, abbiamo bisogno di altri sette bozzoli, quaggiù in Honduras! E-hè. Sì, cosa vuoi farci? Chiamalo l’impeto della gioventù, okay? Va bene! Va bene! Okay! Allora ci vediamo direttamente al tempio, domani mattina. Ciao... ciao... Sì, d’accordo. Ciao!»

    Un allegro motivetto risuonò contro le volte del soffitto, annunciando la fine della chiamata.

    Le quattro creature con la tuta da meccanico continuavano a lavorare come se nulla fosse accaduto, mentre il soldato non si muoveva più, ridotto ormai a una statua di sale.

    Sebastian ripose il telefonino nella tasca e si diresse verso Ricklaunim con aria accigliata. Fece due passi di corsa e gli saltò al collo, abbracciandolo con foga.

    «Mi hai fatto paura, capisci?» singhiozzò, sprofondando la faccia tra le falde del mantello. «Non farlo mai più, promettimi! Promettimi che la prossima volta arriverai non appena ti chiamo!»

    «Muhrruhumm...»

    «Ti voglio bene, Ricklaunim...» sussurrò Sebastian, senza smettere di singhiozzare.

    «Murrhumm... muhurruhuuu...»

    Sebastian gli si staccò di dosso e si asciugò una lacrima con il dorso della mano, lanciando uno sguardo distratto al soldato accucciato sul pavimento. «Come dici?» esclamò. «Questo qui? Ma certo, Ricklaunim! Ma certo che puoi mangiartelo!»

    Londra, due giorni dopo

    Harold lasciò cadere sulla moquette le due borse da viaggio e richiuse col piede la porta di casa, mentre una nuvola di polvere si sollevava dai bagagli, illuminata da un raggio di sole.

    Avanzò verso il tavolino dell’ingresso, senza smettere di armeggiare con la posta ricevuta mentre era via. Sfogliò le lettere in fretta, appoggiandole sul tavolino una sull’altra.

    Alla fine trovò quella che stava cercando. Una busta non intestata proveniente dal gabinetto di analisi del dottor Montague. Massima riservatezza. Lasciò cadere le lettere rimanenti e prese un profondo respiro.

    Quindi strappò la busta, le mani tremanti, e dispiegò il foglio del referto.

    Tra le centinaia di caratteri minuti sparpagliati sulla pagina, quattro lettere spiccavano, come se fossero incise su una parete di pietra.

    Hivp.

    Era un mattino soleggiato a Londra. Nel fascio di luce alle spalle di Harold, impalpabili granelli di sabbia del deserto iracheno continuavano a galleggiare, come sospesi nel tempo.

    «Hivp. Positivo.»

    È ovvio che non ci si rivolge a un gabinetto di analisi per quel tipo di esame se non si nutre qualcosa di più di un ragionevole sospetto; ma vedere quelle lettere vergate nero su bianco era tutta un’altra cosa.

    Harold emise un sospiro e alzò lo sguardo verso il soffitto, senza riuscire a vedere nient’altro che macchie indistinte di colore.

    Pensò per un istante a sua madre, alla casa di Church Lane, ma l’immagine rimase incompiuta, scollegato da qualsiasi azione. Quindi non poté fare a meno di rivolgere di nuovo gli occhi a quei quattro caratteri.

    Avevano una chiarezza inequivocabile, nitidi come numeri romani scolpiti su un’antica pietra miliare. Al metro V del chilometro H.I. della strada consolare Harold Hembury si trova una brusca svolta verso una nuova direzione.

    Fino a qui c’era stata la dolce salita dell’infanzia, il passo montano dell’adolescenza, degli studi e delle scoperte, l’ampia vallata delle scelte e delle prospettive. Ma da questo punto in poi cominciava la discesa, una lenta, inesorabile discesa.

    Harold avvertì un fremito. Il declino. Provò a interrogarsi per un attimo, ma si disse certo che non era di questo che aveva paura. Invecchiare, sparire poco a poco, morire: tutto questo per lui faceva parte della vita, proprio come crescere, amare, mangiare.

    No, quello che era terribile non era la pietra miliare in sé, quanto l’ombra che essa era capace di proiettare.

    Morire di Aids, vivere con l’Aids. Delle due era la seconda l’idea più spaventosa. Voleva dire cessare di essere un uomo, un professore, un archeologo e divenire di colpo nient’altro che un malato. Vedere lo sguardo intimorito di uno studente, l’aria sprezzante di un rivale trasformarsi in grigie e omologate arie di compassione. «Come sta oggi, professor Hembury? Un po’ meglio?»

    Harold sentì un’ondata di rabbia e frustrazione montargli dentro.

    In fondo anche ammalarsi è un momento della vita, si disse; ma, nello stesso momento in cui lo elaborava, il suo pensiero gli sembrò ipocrita. Harold per primo si era sempre trovato a disagio accanto agli ammalati; non per paura o indifferenza, gli sembrava piuttosto che, col passare del tempo, ogni persona costretta a portare il fardello di un male finisse per identificarsi con il male stesso. Il male fatto persona. Non stava già succedendo anche a lui?

    Provò a concentrarsi sugli ultimi trentadue giorni, scegliendo a caso tre dei momenti più belli trascorsi a Dwarka.

    Rivide David lanciare al cielo un urlo di trionfo, coperto di sabbia del deserto e ritto in piedi sulla pietra sepolcrale appena rimossa, simile a un titano guerriero. Udì la nenia da bambini che Gretchen canticchiava ripulendo i reperti.

    Ma, quando cercò di riassaporare la scoperta della camera segreta del tempio bianco, qualcosa andò storto. Gli sembrava di assistere a una proiezione di diapositive sbiadite, le testimonianze del viaggio compiuto da qualcun altro.

    Il ricordo che restava vivido era un altro. La crisi patita due giorni prima. Le vertigini, la nausea, la paura che continuava a crescere. Era già cominciato, stava già identificando la propria vita con quella del virus che gli si moltiplicava dentro.

    Era come se quella maledetta pietra miliare proiettasse la propria ombra su tutto il cammino, anche su quello precedente, fino a quel momento percorso. Come una macchia d’olio che si allarga sull’acqua, avrebbe presto contaminato ogni altro istante della vita di Harold.

    «Ricordi il libro sui Maya?» disse, scuotendo il capo. «Sì, l’ho scritto quattro anni prima di ammalarmi.»

    La malattia, tutto in funzione della malattia. Diventare la malattia. Era questo che lo spaventava veramente.

    Di colpo, Harold Hembury non seppe dire quanto tempo fosse trascorso.

    Il fascio di luce proveniente dalla finestra del soggiorno si era un po’ spostato e ora illuminava le sue gambe dal ginocchio in giù, regalandogli un piacevole tepore.

    Si rese conto di non aver staccato per un istante lo sguardo dal foglio che aveva in mano e si accorse che il cellulare stava suonando. Dio solo sapeva da quanto. Lo estrasse dalla tasca del giaccone e rispose senza guardare il nome sul display.

    «Harold?» disse la voce all’altro capo.

    Non gli riuscì di rispondere, la testa ancora persa in mille pensieri, incapace di riconoscere la voce che udiva.

    «Harold!»

    «Sì... sì sono...» Portò la mano agli occhi e serrò le palpebre con forza.

    «Harold, sono James. Stai bene?»

    James Darridge, docente di Teoria dell’Archeologia allo University College, egittologo di fama mondiale. Un buon amico.

    «James... scusa... non sono...» Gli occhi ancora chiusi, la testa in confusione.

    «Sei tornato a casa.»

    La voce del collega era profonda e cadenzata come al solito, ma Harold comprese subito che qualcosa non andava.

    «Sì. Sono a casa.»

    «Non sei ancora stato al museo, quindi.»

    Harold riaprì gli occhi. «Certo che no! Ero...»

    «Ma eri sullo stesso volo di David?»

    «Sì, James, lo stesso aereo. Ma sono rimasto in aeroporto più a lungo per sbrigare delle pratiche alla dogana. Lo sai come sono fatti... ti ricordi il ritorno da Il Cairo?» Harold abbozzò una risatina stonata, ma Darridge non rispose. «Ma c’è David al museo, giusto? È lì con la cassa e...»

    «È proprio questo il punto.» Adesso il nervosismo nella voce di Darridge era più che evidente.

    «Che cosa, James? Non ho capito.» Harold arretrò di due passi, verso il soggiorno.

    «David è stato al Petrie Museum, ma non è più lì.»

    «James, per favore! Vuoi piantarla di parlare a singhiozzo? Spiegami cosa diavolo è successo o... o devo tirare a indovinare?» Dall’altro capo del telefono arrivarono solo rumori di sottofondo. Poi Darridge si decise a parlare.

    «David è stato qui e ha ritirato la cassa dagli spedizionieri. Era mattina presto.»

    «Lo so, era...»

    «Ora David è in ospedale e la cassa è sparita.»

    «Non ho capito.»

    «È all’ospedale. Ha avuto un attacco.»

    «Un attacco? Un attacco di cosa?»

    «Se resti a casa ti passo a prendere.»

    «Ma...»

    «Sono lì tra mezz’ora.»

    «Non...» Darridge aveva già riattaccato. «Non ho capito...»

    Harold si guardò attorno, frastornato. Aveva ancora in mano quel dannato foglietto. Intorno a lui, la sabbia del deserto di Uruk continuava a galleggiare senza peso, polvere dorata proveniente da un altro tempo, da un’altra vita.

    Poi sopra al numero cinquanta di Richmond Avenue passò pigra una nuvola e il raggio di sole sparì di colpo, come una candela spenta da un refolo di tramontana.

    Il professor Hembury fu scosso da un brivido di freddo.

    Los Angeles, due giorni prima

    Brad McTirst scese dal taxi e sbatté lo sportello; poi si guardò attorno con la fiera arroganza di un esploratore della giungla, infilò i pollici sotto la cintura da cowboy e si tirò su i pantaloni.

    In fondo a North Hill Street i grattacieli di Downtown emergevano dalla fitta nebbia grigiastra dello smog come torri d’avorio appoggiate su una nuvola.

    «Sono cento e quaranta otto dolla, mister» disse il tassista, affacciandosi al finestrino.

    «Cosa?» sbottò Brad, andandogli incontro come se volesse sbranarlo.

    «Cento e quaranta e otto» ripeté l’uomo, un indiano Sikh con la pelle scura e i capelli avvolti dentro un turbante.

    «Questo è assurdo, Mustafà!» ringhiò puntandogli contro l’indice. «Per chi mi hai preso, per un turista con la sveglia al collo?»

    «Macchinetta parla chiaro, mister» rispose il tassista picchiettando le dita sui numeri rossi del tassametro. «Tutto giorno noi avanti e indietro che cerca tuo amico! Ti aspettavi che non paga?»

    «Ma senti questo qua!» ridacchiò Brad gonfiando il petto sotto alla camicia a quadri. «Da quanto è che sei arrivato nella terra promessa, eh Alì? Due mesi? Scommetto che non hai neanche la licenza! Neppure il permesso di soggiorno ti hanno dato.»

    L’indiano gli srotolò davanti al naso il primo e il secondo documento, senza cambiare espressione.

    «Oh, merda...»

    «Allora tu paga, vero mister?»

    «Pago quando abbiamo finito quello che siamo venuti a fare, Salaam! Non è detto che il tizio che cerchiamo sia qua dentro!»

    «Quando finito?» replicò il tassista, mostrandogli l’orologio da polso. «Io fra quattro minuti ha finito. Fine turno. Io va casa mia. Io no resta qui solo perché tu attore famoso di Cinema americano.»

    «E io dovrei darti centoquarantotto dollari e poi farmi abbandonare in mezzo a China Town?»

    «Cento e quaranta e nove» precisò l’indiano. «Macchinetta corre, amico!»

    Brad trattenne a stento la rabbia; ballonzolò sugli stivali in pelle di pitone e si riaggiustò alla meno peggio il ciuffo di riporto sopra la pelata paonazza.

    «Sta bene!» concluse. «Aspettami solo cinque minuti. Torno fuori, mi riporti a casa e poi ti do centottanta dollari.»

    «Due e ottanta. Io finito turno. Non resto per meno.»

    «Strozzino di merda! Te ne do duecento e vedi di farteli bastare!»

    «Due e ottanta» ripeté il tassista senza fare una piega.

    «Due e cinquanta, Kabib! E voglio la fattura!»

    «Tu dici due e cinquanta, io dico due e ottanta e uno. Macchinetta continua che corre.»

    «Arabo del cazzo...» biascicò Brad; quindi si avviò verso l’entrata del ristorante, puntando il dito contro il taxi un’ultima volta. «Due e ottanta! Ma non azzardarti a muoverti di lì!»

    Sul volto scuro del tassista baluginò un sorriso raggiante.

    Il Golden City Restaurant si trovava al pianterreno di una palazzina in piena China Town; i marciapiedi erano ancora semideserti, nella luce fioca del tardo pomeriggio, ma Brad diede comunque un’occhiata circospetta tutt’intorno prima di aprire la porta del locale ed entrare. Era una brutta zona e non gli piaceva l’idea che qualcuno potesse vederlo.

    L’odore di spezie e olio rifritto lo colpì come un pugno al naso: i ristoranti cinesi erano per lui come l’aglio per i vampiri. Delaine doveva aver scelto quel posto a ragion veduta, per rendergli più difficile pedinarlo. Brad sollevò i lembi di una tenda di perline rosse e se lo ritrovò davanti, sbracato dietro un tavolino, all’estremità opposta del locale deserto.

    Marlon Delaine lo stava fissando dritto negli occhi. Era un uomo tozzo, basso di statura; il naso da pugile e gli occhi stretti come due sottili feritoie sembravano fuori posto in mezzo a quel faccione indurito, sormontato da una lustra pelata.

    «Delaine» lo salutò Brad, infilando i pollici nei passanti della cintura come uno sceriffo del vecchio West.

    «McTirst» gli rispose Marlon, inclinando la testa un paio di millimetri di lato. «Cosa porta una mammola come lei quaggiù nei bassifondi?»

    Brad si lasciò sfuggire una secca risata, ma l’espressione che aveva in viso era tutt’altro che divertita.

    «Perché non prende una sedia e non mi tiene compagnia?»

    «Non sono qui per strafogarmi di wanton fritti, Delaine!» rispose Brad, avvicinandosi al tavolo minaccioso. «Sono qui per dirle che sono stanco di vedere come spende i miei soldi, razza di balordo!»

    «I suoi soldi?»

    «Proprio così. I miei soldi!»

    «Si vede che lavoro per un altro e mi sono sbagliato.»

    «Come dice?»

    «Ho detto che dev’essere che lavoro per un’altra persona» rispose Marlon, schiudendo la bocca in un ghigno, «perché il Brad McTirst che conosco io non mi ha anticipato nemmeno i soldi delle spese.»

    «Questo non vuol dire un accidenti, Delaine!» sbottò Brad, sfoderando il suo dito e puntandolo in faccia al pelato come se fosse una pistola automatica. «Tanto lo so come funziona con la gente come lei! Siete anche troppo veloci ad arrivare quando si tratta di presentare il conto!»

    «Il conto?»

    «Però intanto sono quasi due settimane che le ho affidato l’incarico di ritrovare i miei quadri e lei non ha fatto altro che starsene seduto in qualche bettola a bere e a mangiare a spese mie!»

    «Guardi che...»

    «Non m’interrompa, per la miseria! Ho chiesto in giro e lo so benissimo che sta tenendo tutte le ricevute... sta preparando una nota spese lunga più di un chilometro!»

    «Merda di cane...» sussurrò Marlon senza staccare gli occhi dalla faccia arrossata che aveva di fronte.

    «Come ha detto?»

    «Ho detto che è sbagliato...»

    Brad spalancò la bocca, scostò la sedia dal tavolino e si mise a sedere di fronte a lui.

    «Che cosa c’è di sbagliato, per la precisione?»

    «Tutto quanto» rispose Delaine senza togliergli gli occhi di dosso. «Anzitutto i quadri sono per metà di sua moglie.»

    «E questo che c’entra! Quella baldracca è entrata nella mia villa col suo istruttore di yoga, forzando la serratura... e me li ha portati via mentre dormivo!»

    Marlon non gli diede alcun peso; si sfilò di tasca un pacchetto di sigarette tostate e ne accese una con l’accendino a benzina. Prese una lunga boccata, espirò il fumo poco alla volta. «Punto numero due: quello che lei chiama mangiare e bere nelle bettole io lo chiamo raccogliere informazioni sul campo. Come lo dice lei è sbagliato, McTirst.»

    «E questo sarebbe un posto adatto per raccogliere informazioni?»

    «Il proprietario fa contrabbando, è un covo di delinquenti. Ha sentito parlare in giro di quella storia delle statuette, l’anno scorso?»

    Brad annuì nervoso.

    «Be’» sussurrò Delaine, dondolando il capo, «erano proprio loro, cacchio. Quelli del Golden City.»

    Brad non era per niente convinto dalla storiella che il detective gli stava propinando.

    «Avevamo un accordo» si decise a rispondere, sfoderando la sua espressione da duro. «Avevamo concordato che lei mi avrebbe chiamato almeno una volta ogni tre giorni. Aggiornamenti continui avevamo detto e questo non è sbagliato come dice lei!»

    «... per quelle tre cazzo di croste...»

    «Come dice, Delaine?» ringhiò.

    «Perché, ho detto qualcosa?»

    «Veda di non prendermi per il culo, investigatore da strapazzo!»

    «Non ci penso neanche.»

    «Sta parlando di tre autentici capolavori. I tre cavalli di Leroy Dermott, sono...»

    «Ci mancherebbe altro!» concluse Delaine, sollevando i palmi aperti delle mani come se volesse arrendersi, la sigaretta penzoloni dall’angolo della bocca.

    «Ebbene» riprese Brad, ballonzolando sulla sedia, «e allora?»

    «Allora cosa?»

    «Allora dove sono i miei quadri, razza di idiota!»

    «... merda di cane...»

    «Come ha detto?»

    «Ho detto: sarebbe male» rispose Marlon, avvolto in una spessa nube di fumo.

    «Che cosa sarebbe male?»

    «Passare qualche informazione mentre le indagini sono ancora in corso. Non sarebbe mica professionale, che cacchio.»

    La porta delle cucine si aprì e ne uscì un cameriere cinese; era basso, minuscolo, e reggeva un largo vassoio.

    «Professionale, eh?» ridacchiò Brad.

    «Proprio così» gli rispose il detective, col suo sorriso da indiano pellerossa stampato in faccia.

    «Ma almeno qualcosa su Charmaine me la può dire?»

    «Charmaine?»

    «Sì, maledizione! Mia moglie!»

    «E che diavolo vuole sapere, McTirst? Vuole sapere quali attrezzi da scasso ha usato? O vuole sapere da chi si fa sballottare in questo momento?»

    «Voglio sapere se è ancora in città, brutto imbecille!» Brad fu sul punto di saltare alla gola di Marlon, quando il cameriere si accostò al tavolo, poggiando il vassoio sulla tovaglia bianca.

    «Sue tle bille cinesi» disse.

    Poi si voltò e tornò in cucina. Delaine abbozzò un sorriso imbarazzato, tirò un’ultima boccata e schiacciò la sigaretta in un posacenere di plastica, mentre Brad continuava a fissarlo, sbattendo e risbattendo le palpebre, allibito.

    «Raccolta informazioni, eh?» sillabò in un sussurro.

    «Vede, McTirst...»

    «Brutto deficiente!»

    «Andiamo...» protestò Marlon, versando la birra dentro al bicchiere. «Sono in giro da prima dell’alba... con la mia vecchia ferita alla gamba... abbia almeno un po’ di rispetto per un reduce.»

    «Un reduce?» strillò Brad sbattendo le mani sul tavolo. «Ma la faccia finita.»

    «Quando eravamo a Na-Drang...»

    «Lei non è mai stato in Vietnam!»

    Il detective piegò la testa di lato, come se avesse appena preso uno schiaffo.

    «E prima che cominci con uno dei suoi aneddoti di guerra, so anche che non è neppure stato a Grenada!»

    «Questa poi!» obiettò Delaine; sollevò il bicchiere e tracannò in un sorso.

    «Ho controllato.»

    «Ha controllato cosa, McTirst?»

    «Ho fatto delle verifiche e so per certo che lei non è mai stato nell’esercito, nemmeno per venti minuti! L’hanno riformato prima ancora di chiederle di tossire!»

    «... merda di cane...»

    «Cosa ha detto?»

    «Ho detto Verifiche?» borbottò Marlon, drizzandosi contro lo schienale. Un clacson suonò tre volte, giù in strada. «Quali verifiche avrebbe fatto, McTirst?»

    «Ho chiesto a un suo collega detective, un certo Markle, di darmi informazioni su di lei.»

    «Buddie?» domandò Delaine, aggrottando la fronte. «Buddie Markle?»

    «Precisamente!» rispose Brad gongolando; mise mano alla tasca del gilet da pistolero ed estrasse il portafogli.

    «Buddie Markle non troverebbe il buco del culo di un elefante addosso a un canarino.»

    «E allora qui l’idiota devo essere io, ad affidare il lavoro a uno come lei» gracchiò Brad, tirando fuori dal portamonete ogni genere di foglio, cartoncino e fotocopia ripiegata. «... e si vede che lei è un bel po’ più grosso di un culo d’elefante, dato che tutti in giro sanno che razza di inutile parassita è lei in realtà.»

    «Ma... veramente...»

    «Guardi qua» disse Brad, allungando al di là del tavolo la prima fotocopia. «Patente ritirata per guida in stato di ebbrezza.»

    «Oh cacchio.»

    «Le piace bere, vero Delaine? E le piace anche farsi beccare mentre piazza scommesse clandestine.»

    Una seconda cartaccia attraversò la tovaglia bianca da capo a capo, subito seguita da una sgualcita pagina di giornale.

    «Ma niente le piace di più dei cavalli, a quanto pare.»

    Marlon restò come pietrificato. Sulla pagina di giornale spiegazzata, c’era la foto di uno splendido cavallo purosangue, circondato da una folla festante, sulla pista di un galoppatoio;

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