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I Racconti degli Esterni: Un Mondo Migliore
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E-book699 pagine9 ore

I Racconti degli Esterni: Un Mondo Migliore

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Info su questo ebook

Dopo la battaglia in Honduras, l’invasione dell’Oscura Regina ha subito una battuta d’arresto, ma un nuovo piano è già in atto per sottomettere la Terra. I suoi agenti sono ormai infiltrati nelle più alte sfere del pianeta: politici, lobbisti, magnati d’industria sono ormai al suo soldo e agli Esterni della Fondazione rimane poco tempo per evitare che Mordhia arrivi per prima al Grande Risveglio, l’evento atteso e paventato per tutta un’era. Irene Stratford e la sua pattuglia di cani sciolti sono pronti a combattere per la salvezza del pianeta. Ma perché gli agenti dell’Ombra sembrano conoscere ogni loro mossa in anticipo? E se ci fosse un traditore nella squadra? Lo scontro finale si avvicina e forse non ci sarà modo di sventare l’apocalisse.
LinguaItaliano
EditoreGM Libri
Data di uscita27 lug 2020
ISBN9788855289115
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    Anteprima del libro

    I Racconti degli Esterni - Giorgio Bernard

    Elenco dei personaggi

    La Nona Pattuglia

    Irene Stratford, Presidente degli usa, i suoi familiari sono stati rapiti ed è stata fatta sparire; adesso tutto il mondo la crede morta, ha scoperto di possedere poteri da guaritrice e guida la Nona Pattuglia al fianco di Brenn D’Argoliàn.

    Brenn D’Argoliàn, il colosso proveniente dal mondo di Alterea è un alto ufficiale dei Guerrieri D’Argoliàn, un ordine di sacri condottieri votati a combattere fino alla morte contro le forze dell’ombra.

    Harold Hembury, il vecchio professore di Archeologia, malato di Aids, è tenuto in vita dal suo pugnale, un poderoso artefatto che riesce a renderlo invisibile... al prezzo di strazianti dolori.

    Huatare Tiaroa, detto il Kraken era una guardia forestale neozelandese, adesso combatte per le schiere del Puro, brandeggiando il suo arco senza crine, capace di dominare il regno vegetale.

    Nadia Belmadi, maestra di musica franco-algerina, molto legata al professor Hembury, è la custode di Durlindana, la spada carolingia che la protegge dalle ferite anche più letali.

    Pill, al pari del Capitano D’Argoliàn, proviene dal mondo di Alterea; è un Sajheva, folletto capriccioso e imprevedibile, affetto da una cronica forma di bulimia sessuale.

    Siddharta Sena, figlio del magnate indiano dell’acciaio, è il custode di un’antica cetra, in grado di scatenare gli elementi della natura; i tragici eventi vissuti in Honduras hanno ulteriormente aggravato le sue condizioni.

    Marlon Delaine, sboccatissimo e improbabile detective privato di Los Angeles, è considerato uno degli Esterni più potenti: come Sommo Alteratore della nostra realtà, non avrebbe bisogno di artefatti per scatenare incontrollabili energie.

    Mavridas Kostantakis, detto La Leggenda è uno degli Esterni più anziani ed esperti.

    Matt Kowalchuck, un tempo leader e chitarrista del gruppo metal dei Barbarians di Seattle, balbetta come una mitraglia, ma è in grado di distinguere l’energia primeva anche a occhio nudo, dote che lo rende un Esterno prezioso.

    Wyatt, custode della Cattedrale, un’inaccessibile fortezza celata dai ghiacci della Siberia. Vive bloccato su una sedia a rotelle ed è depositario di segreti che neppure il più esperto degli Esterni conosce.

    La Fondazione

    Albert Crouch, ricercatore e studioso di esoterismo, è la somma autorità scientifica a disposizione delle forze della Luce; amico fraterno di Brenn D’Argoliàn, ha sempre visto di cattivo occhio l’intraprendenza di Irene Stratford.

    Andy Jackson, responsabile delle risorse umane della Fondazione, non è provvisto di nessuna abilità ancestrale e, a detta di molti, neppure di alcuna competenza specifica.

    Miss Klein, giovane assistente amministrativa della Fondazione, ha preso il posto di Cathleen Parks, rimasta uccisa durante l’attacco dei Drackers del 6 ottobre.

    Steve Kinrad, un tempo stuntman presso gli studios di Hollywood, lavora presso la Fondazione come maestro d’armi; ha perso un braccio durante l’attacco del 6 ottobre.

    Stefano Piccolomini, uno dei giovani Esterni reclutati da Keirasse, è ben lontano dal potersi considerare un agente operativo, limitando il suo ruolo a presenza fissa e inutile ai seminari di formazione di Andy Jackson.

    Le Schiere dell’Ombra

    Mordhia, signora e padrona di tutto ciò che di oscuro esiste nel mondo di Alterea, è determinata a conquistare il nostro mondo attraverso i suoi agenti extradimensionali e soprattutto grazie alla rete di lobbisti, militari e spregiudicati uomini d’affari che ha costruito sulla Terra.

    Sebastian, Favorito dell’Oscura Regina e suo braccio destro sulla Terra, è rimasto ucciso in Honduras a seguito dell’attacco della Nona Pattuglia.

    Julian, androgino condottiero dei cavalieri d’Orkai e deposto Favorito della Regina, è stato il primo responsabile della morte di Sebastian e da anni trama nell’ombra pur di riuscire a riconquistare il favore perduto.

    Ricklaunhim, un tempo precettore di Sebastian, è stato da questi condannato a un perenne stato di NonMorte e opera come infiltrato nelle oscure schiere per conto del Capitano D’Argoliàn..

    Nehu-Muhuriàn, custode menfrebita del palazzo di Mordhia, ha istruito personalmente l’ultima generazione di Favoriti di Mordhia.

    Elmes Gaudrie, spietato uomo d’affari a capo della B-Hond, multinazionale che fa da paravento alle attività della Oscura Regina, è da poco divenuto il suo Alfiere Nero sulla Terra: suo il compito di reclutare nuovi adepti e recuperare preziose reliquie.

    An-Sam-Job, l’antico veggente di Alterea è stato il padre putativo della Oscura Regina, ma nessuno sa niente di lui e delle sue vere intenzioni.

    James Gardener, vicepresidente dell’amministrazione Stratford, ha tradito Irene e reso possibile il rapimento di suo figlio Thomas; adesso è lui il Presidente e, con il ruolo di Alfiere Bianco di Mordhia, ha il compito di far passare inosservate le sempre più frequenti manifestazioni di energia primeva nel nostro mondo.

    Thomas Stratford, figlio dell’ex Presidente Irene Stratford è divenuto all’insaputa di tutti il nuovo Favorito di Mordhia e si sta preparando per invadere la Terra alla testa di un inarrestabile esercito.

    Altri personaggi

    John Zmrzlina, il fumettista sognatore reclutato dalla Fondazione alla fine di settembre, è rimasto ucciso durante lo scontro con Sebastian e i suoi guerrieri ombra; sepolto nel cimitero di Père-Lachaise con tutti gli onori che spettano agli Esterni. Sono in molti tra i suoi ex colleghi della Nona Pattuglia a conservarne un nebuloso ricordo.

    Andrea Barozzini, rampante giornalista italiano, è in realtà un indolente scrittore, pieno di dubbi e incertezze... ma presto la sua vita cambierà radicalmente.

    Manlio Iacobelli, eminente scienziato che ha più volte sfiorato il premio Nobel, ha dedicato completamente la sua vita allo studio del comportamento delle particelle subatomiche, finendo per scoprire qualcosa di totalmente inatteso... e potenzialmente apocalittico.

    Semplicemente un’esperienza personale

    Lo Starter Set, realizzato allo scopo di introdurre i nuovi affiliati al sistema di marketing della NetBond, altro non era che una valigetta di plastica rossa, contenente i quattro prodotti di punta dell’azienda da anni leader nel settore del network businness.

    Dentro c’erano un detersivo per bucato, una crema da barba, una lozione per capelli e una bomboletta di doccia schiuma.

    Forse era per questo che le oltre milleduecento persone stipate dentro il centro congressi avevano tutte lo stesso odore.

    A uniformare il loro abbigliamento invece, aveva pensato l’Uplifting Basic, il corso di formazione in dispense e cdrom realizzato da Elmes Gaudrie in persona; la sua finalità era istruire ogni nuovo adepto, trasformandolo in pochi step nel perfetto venditore di network.

    L’Uplifting spiegava ogni dettaglio, dal vestiario che i nuovi promotori dovevano indossare, alle frasi che dovevano pronunciare, ogniqualvolta si recavano presso l’abitazione di un cliente, per svolgere una dimostrazione sul campo dei prodotti.

    La ragione per cui questa sera l’atmosfera in sala era più elettrica del solito era che Elmes era presente in carne e ossa; stava seduto in prima fila sotto il palco, dove tutti lo potevano vedere.

    Quell’uomo straordinario non occupava un ruolo di vertice all’interno dell’organizzazione, tuttavia incarnava come nessun altro le doti morali a cui ogni affiliato doveva aspirare:

    La costanza. L’umiltà. Il coraggio.

    Non appena si sollevò dalla sua poltroncina di velluto, il migliaio di affiliati seduti alle sue spalle schizzò in piedi e cominciò ad applaudire, mentre Bill, il relatore di Chicago che lo aveva preceduto sul palco, si incamminava verso di lui e gli porgeva il microfono.

    «Grazie, Bill. Grazie di cuore» disse Elmes, stringendogli la mano; l’ometto chinò il capo, invitandolo con un cenno impacciato ad avvicinarsi al leggio.

    Dietro di lui campeggiava una gigantesca riproduzione in bronzo del simbolo della NetBond, la stilizzazione di un sole che sorge dal mare, inscritta in un grande cerchio dorato.

    «Ti ringrazio soprattutto per questo invito e per le splendide parole che hai rivolto a tutti noi.»

    Gli diede una pacca sulla spalla e lasciò che si accomiatasse, quindi prese posto al centro del palco, sollevò le braccia in un cenno di saluto, e attese che l’entusiasmo della platea si spegnesse a poco a poco.

    «Be’...» iniziò, aggiustandosi i rever della giacca bianca che aveva indosso. «Ho come l’impressione che qualche nuovo amico abbia deciso di aggiungersi a noi, dall’ultima volta che ci siamo incontrati a Dusseldorf.»

    Gli applausi tornarono a crescere d’intensità ed Elmes lasciò che si spegnessero di nuovo, lisciandosi all’indietro il ciuffo di capelli castanti che gli ricadeva sulla fronte.

    «Sapete a cosa mi fa pensare tutto questo? Mi fa pensare che tutti noi stiamo facendo davvero un ottimo lavoro.»

    Altri applausi, alcune grida.

    «Mi guardo attorno e riconosco molte facce, facce di uomini e donne che non ho mai conosciuto personalmente. Fino a poco tempo fa erano dei semplici promotori e adesso sono diventati dei grandi dirigenti, dei Terzi Livelli magari... che hanno strutturato il network, aiutando a crescere chi lavorava con loro, sviluppando la rete in modo persino più efficace di quanto abbia fatto io.»

    «Vai, Elmes!» gridò qualcuno dal fondo della sala e lui spalancò i suoi occhi celesti.

    «Andare?» boccheggiò, stupito. «Dove devo andare?»

    Il pubblico rispose con una corale sghignazzata ed Elmes indugiò ancora un momento; si incamminò verso il bordo del palco e lanciò un’occhiata alla platea.

    «D’accordo, promesso: me ne andrò presto, così potremo mettere le mani sul buffet. Due parole voglio dirvele comunque però, anche se vi prometto che non sarà una cosa lunga. Voglio parlarvi di qualcosa che riguarda tutti noi: qualcosa a cui non ho potuto fare a meno di pensare, vedendo intorno a me così tanti amici pronti a cominciare la loro avventura all’interno dell’azienda.

    È qualcosa che riguarda il principio, i primi decisivi momenti di questa nostra grande avventura.»

    Detto questo si fermò per un istante, le mani giunte davanti alla bocca, come in cerca di un’ispirazione.

    «Non vi parlerò degli inizi della nostra Compagnia: di quelli sapete molte più cose voi di me; è una storia che raccontate a ogni presentazione di prodotti che fate. No: gli inizi di cui voglio parlarvi sono quelli di una persona come tante. Me.

    È la mia storia personale: una storia, scoprirete, che non è poi così speciale e in cui molti di voi, sono sicuro, si riconosceranno.»

    Sollevò gli occhi, cercando di far trasparire un po’ di tristezza. Chi lo conosceva sapeva bene che si trattava del suo asso nella manica, due armi improprie di un celeste disarmante, che aveva imparato a usare con maestria.

    Un silenzio carico d’attesa si propagò nel teatro, allargandosi come un incendio in un campo di sterpaglie.

    «A essere sincero, mi riesce difficile adesso pensare alla mia vita di prima. Mi sembra quasi di guardare un’altra persona. Una persona che, come molti di voi, era ben consapevole delle proprie potenzialità, ma le teneva nascoste dentro di sé, proprio qui, in fondo al cuore. A quei tempi me lo ripetevo di continuo: Tu vali tanto, Elmes. Dimostrerai di certo il tuo valore. Ma non è questo il momento più opportuno. E così andavo avanti, tenendo questa persona speciale chiusa dentro di me e continuando a dissipare il mio tempo, a gettare alle ortiche le mie preziose energie.»

    La platea tratteneva il fiato, attendeva la rivelazione.

    «All’epoca lavoravo per una Ltd di cui non farò il nome» riprese svelto. «Un lavoro grigio e ripetitivo come anche molti di voi avranno svolto. Io mi occupavo di risorse umane...»

    Così dicendo spalancò le palpebre in una smorfia disgustata.

    «Avete presente, no? Quegli estenuanti corsi di formazione che si ripetono monotoni, sempre uguali... Io li chiamavo i miei piccoli incubi quotidiani e avevo cominciato ad accettare il mio lavoro come una specie di condanna, un inevitabile spreco di tempo e risorse a cui non potevo in nessun modo sottrarmi. Ne avevo fatto la mia croce, capite? E il mio equilibrio ne risentiva. Ero sempre di pessimo umore, litigavo coi colleghi, avevo addirittura sviluppato qualche rara forma di malattia professionale.»

    Spalancò gli occhi di nuovo e una ventina di spettatori si abbandonò a una risata liberatoria.

    «Intorno a me vedevo solo persone altrettanto sofferenti, che però, a differenza mia, sembravano essere inconsapevoli della gabbia in cui erano finite. Anzi, alcuni di loro parevano addirittura contenti di arrovellarsi nel loro quotidiano teatrino degli orrori, e continuavano a interpretare il loro ruolo come le maschere di una commedia. C’era il piccolo dirigente, altezzoso e arrogante come se fosse il re del mondo; il giovane rampante, ansioso di fare le scarpe al superiore diretto: ragazzi cattivi e determinati, ve l’assicuro.»

    La platea rise di gusto ed Elmes chinò il capo, sorridendo a sua volta.

    «E poi venditori di fumo: gentaglia che si spacciava per chissà quale grande specialista; approfittatori, parassiti di ogni sorta. E io nel frattempo mi domandavo: Ma è mai possibile che a tutto questo non esista un’alternativa? Che non si possa costruire un lavoro diverso, un mondo migliore in cui l’interesse di ognuno sia proprio quello di aiutare chi gli lavora accanto? Per crescere insieme, come persone, prima che come professionisti?. Evidentemente no mi rispondevo ogni volta, continuando a crogiolarmi nel mio illusorio senso di sicurezza. Poi però è successo qualcosa di imprevedibile, che ha messo la mia vita sottosopra: un momento nero. Ho divorziato da mia moglie Barbie... un brutto colpo... Sono caduto in depressione. Mi sentivo chiuso in un vicolo cieco, come un’anima in pena imprigionata in un sogno confuso. E ho cominciato finalmente a capire il grande vuoto che avevo sempre avuto dentro di me. Ora lo so che qualcuno di voi mi risponderà: Capita a tutti, Elmes! Si chiama crisi di mezza età!

    Detto questo, si produsse in un sorriso da imbonitore, che strappò al pubblico un applauso a scena aperta.

    «Crisi di mezza età» ripeté, attendendo che l’eccitazione intorno a lui si placasse. «E invece in quel momento ho incontrato qualcuno che mi ha dato una risposta completamente diversa: qualcuno che, di lì a poco, sarebbe diventato mio primo line manager. Tu vali molto di più! mi disse. Per quale motivo continui a complicarti la vita? Le cose possono essere più semplici di così! Ebbene: una bella sera mi portò con sé, alla mia prima presentazione di prodotti... e fu il mio vero punto di svolta. Compresi subito che non si trattava soltanto di saponi e deodoranti; di vendita spicciola.

    Si trattava di un modo diverso di guardare alle cose, finalmente puro e onesto, come se guardassi il mondo con gli occhi di un bambino. Fu una presa di coscienza istantanea, che mi fece comprendere una verità che magari adesso mi pare banale e scontata. E cioè che esisteva una realtà diversa, fuori dalla scatola in cui mi ero rinchiuso; un mondo in cui era possibile fare ogni cosa, approcciandola da una prospettiva completamente nuova! Mi sentii pervadere da una tale energia che...»

    Elmes portò una mano agli occhi fingendo di essere sul punto di piangere; la platea lo incoraggiò con un applauso accalorato.

    «È così che vi ho incontrati» proseguì, con un filo di voce, «che ho conosciuto tutti quanti voi. Molto più che un ambiente di lavoro positivo e stimolante: una squadra! Un gruppo coeso di persone, focalizzate su di un unico obiettivo condiviso, e supportate da un metodo affidabile, dal più avanzato sistema di marketing esistente al mondo!»

    Riportare il pubblico alla calma era diventato impossibile; la gente continuava ad alzarsi in piedi agitando le mani e gli applausi si susseguivano, sempre più scroscianti.

    «Un ambiente ideale, improntato a una nuova scala di valori, in cui il mio upline diretto non era più qualcuno da cui dovevo guardarmi con sospetto, ma una persona come me, a cui potevo affidarmi, raccontare i sogni che intendevo realizzare; perché sapevo per certo che mi avrebbe aiutato a realizzarli! Fare cose mai fatte, percorrere strade mai percorse, avere cose mai avute! Non c’era più niente di impossibile. Dipendeva solo da me.»

    «Grande Elmes!» gridò il tizio di prima, dal fondo della sala.

    «E quindi decisi» riprese lui, ignorandolo. «Decisi di vivere la mia vita più vera, tirando fuori dal mio cuore quella splendida persona che avevo sempre saputo di essere. Lasciai il mio lavoro e fissai degli obiettivi tutti nuovi, degli obiettivi tutti miei. Iniziai a costruire un network più esteso, per cercare di raggiungere l’appagamento, la felicità! E perché no: anche il prestigio che sapevo di aver sempre meritato. E poi, chissà... anche togliersi qualche sassolino dalla scarpa non è affatto una brutta cosa di tanto in tanto, dico bene?»

    «Sì!» gli rispose un esagitato.

    «Puoi dirlo forte!» fece eco qualcun altro.

    La sala convegni andava somigliando sempre più a una chiesa pentecostale.

    «Scherzi a parte» disse Elmes, nel tentativo di placare gli animi, «gli obiettivi, lo sapete meglio di me, sono sempre strumentali. Erano i sogni che volevo realizzare ciò che per me contava davvero. Ognuno di noi è qui per realizzare i propri sogni, dico bene? E tutti insieme lo aiuteremo, trasformandoli in realtà.»

    La platea rumoreggiava e ribolliva come una pentola dimenticata sopra ai fornelli.

    «Come faremo?» domandò, ammiccando a una ragazza seduta in terza fila. «Certo, hai ragione: è questo che conta davvero, il modo in cui ognuno riesce a prendere la propria decisione. Ora: se nella storia che vi ho raccontato vi riconoscete almeno un po’, penso che vorrete ascoltare il consiglio che ho da darvi. Si tratta semplicemente della mia esperienza personale.»

    La folla trattenne il fiato ed Elmes le andò incontro, allargando le braccia come se volesse abbracciarla tutta.

    «Liberatevi dalla paura» disse, «e troverete facilmente le risposte che cercate. Fate le vostre scelte senza piegarvi a compromessi e ogni cosa vi apparirà più chiara! Uscite senza timore dal rifugio dell’anima che vi siete costruiti! C’è un mondo intero là fuori, ancora tutto da costruire...

    E può essere vostro, vi assicuro: può essere vostro davvero!»

    «E come?» strillò a squarciagola il solito infervorato.

    «Basta che smettiate di nascondervi» rispose lui. «Smettete di ignorare quell’essere speciale che tenete chiuso dentro al cuore.»

    Le persone ai piedi del palco annuivano, sollevando verso il grande cerchio di bronzo sguardi ricolmi di speranza. Elmes si sporse in avanti, come una rockstar pronta a tuffarsi sul suo pubblico.

    «Datevi questa opportunità!» gridò, alzando le braccia al cielo, «e diventate le splendide persone che avete dentro di voi!»

    Gli uomini e le donne ammassati nella sala schizzarono in piedi, come un’inarrestabile marea, e l’applauso esplose fragoroso.

    Un venditore nella seconda fila si afferrò i capelli con entrambe le mani e si sfilò la faccia di dosso come se fosse un passamontagna: aprì le fauci del suo volto ferino e cacciò fuori uno stridente urlo di guerra.

    Il Gyrmumm in piedi al suo fianco si squarciò le vesti come Caifa nel tempio e con le zampe cominciò a picchiarsi il petto coperto di squame.

    Elmes salutò la loro goliardica esultanza serrando i pugni a sua volta, prima di ricominciare ad applaudire, sorridente.

    La vita di prima

    Sessione di reclutamento

    «Multinazionali e governi controllati da creature di un’altra dimensione» borbottò Mitesh Mistry.

    «Già» gracchiò il vecchio Wyatt sulla sedia a rotelle, «ma per noialtri non è una novità!» Sollevò lo sguardo verso l’orizzonte e prese un profondo respiro, prima di ricominciare a parlare. «Mi ricordo questo posto com’era giusto un paio d’anni fa, prima dello tsunami. Sulla spiaggia di Arugam Bay c’erano soltanto le capanne dei pescatori.»

    Dall’altro lato del tavolo, Mitesh lo fissò a lungo, negli occhi quello strano miscuglio fra cordoglio e riconoscenza che di solito si vede ai funerali, sulle facce degli amici del defunto.

    «Il governo ha ripulito tutto quanto» rispose. «Ha costruito campi provvisori per gli sfollati e poi ha venduto le licenze per la ricostruzione alle multinazionali del gruppo Beyond. Con i capitali della Regina delle Ombre hanno tirato su alberghi e ristoranti. E i pescatori sono rimasti nelle baracche provvisorie, a cuocersi al sole sotto i tetti di lamiera per anni.»

    «È un piacere rivederti, Mitesh» tagliò corto il vecchio. «Ti ringrazio per aver accettato di incontrarmi.»

    «Il piacere è mio» rispose. Aveva lunghi capelli neri, appiattiti intorno al faccione scuro da un’eccessiva dose di gelatina profumata. «Ti trovo bene, Wyatt. Non sembri invecchiato nemmeno di un giorno.»

    Il vecchio gli rispode con un’occhiata storta: Mitesh Mistry sapeva fare un sacco di cose, ma non era un granché a raccontare balle; del resto la voce circolava già da un pezzo tra gli Esterni: che il vecchio Wyatt aveva il cancro lo sapevano tutti e i segni grigi della malattia erano evidenti sul suo volto rugoso.

    «Come stanno i tuoi quattro ragazzi?» domandò, e il viso dell’indiano tamil parve illuminarsi.

    «Bene» disse, con un sorriso estasiato. Era stato maestro elementare per quasi vent’anni, una vita intera spesa in mezzo ai ragazzi, eppure, ogni volta che parlava dei suoi, metteva su la stessa espressione che aveva avuto quindici anni prima, mentre aspettava la lieta notizia, appena fuori dalla sala travaglio.

    Le urla di un gruppo di giovani americani risuonarono sulla spiaggia e Mitesh si girò verso di loro. Aveva i modi compassati di sempre: per lui sì che il tempo non sembrava passato.

    «Guardali» disse, «a loro sembra tutto perfettamente normale: prendere le tavole e buttarsi in mare, in un mondo incontaminato, senza regole né divieti.»

    Wyatt sibilò una risata arrochita da sotto la barba, mentre il tamil aggrottava la fronte.

    «Come fanno a non vedere? La spiaggia, il bar in stile tex-mex, l’albergo in riva al mare... È tutto finto! Come fanno a non accorgersi di cosa sta succedendo a questo pianeta? Non potrebbe essere più chiaro nemmeno se il nome "Mordhia" fosse scritto a caratteri cubitali sui muri e sulle palme!»

    «Giusto dieci giorni fa una Fenghuang si è ridestata nel centro di Pechino» ridacchiò ancora Wyatt.

    Mitesh scrollò il capo, perplesso.

    «Una specie di piccola fenice, tre metri di lunghezza: un Risveglio di Fase Quattro in piena regola. A fartela breve, questa bestia è schizzata fuori all’improvviso da una crepa nel terreno, sputando fiamme. È successo nei pressi di un parco e c’era in giro tanta di quella gente... soprattutto turisti stranieri. Insomma, lo sai qual è stata la loro reazione?»

    Mitesh fece cenno di no.

    «Hanno tirato fuori le fotocamere e si sono messi a scattare foto ricordo! Alla squadra di Esterni che è arrivata per fare contenimento, la maggior parte di loro ha posto una sola domanda.»

    «Sarebbe?»

    «Potete dirci il titolo del film che stavano girando?»

    «Come dire insomma che i comuni esseri umani non possono concedersi il lusso di sapere come stanno realmente le cose.»

    Wyatt fece spallucce e si sporse di lato.

    Sotto il tetto di paglia del gazebo, Emmanuel Cheyegory aveva finito di pulire i bicchieri, la testa scura e raggrinzita gli ciottolava dentro un enorme sombrero giallo e verde; rivolse ai due un sorriso imbarazzato e sgattaiolò nel locale cucine.

    Emmanuel era uno dei pochi pescatori a cui era riuscito di tornare sulla spiaggia, ma lui era un’eccezione: parlava abbastanza bene l’inglese e sapeva come comportarsi coi turisti stranieri. Pasarichenai Beach era la loro casa per le vacanze, adesso, e non apparteneva più ai pescatori tamil; solo chi riusciva ad adattarsi aveva il permesso di restare.

    «Allora, amico mio?» domandò Mitesh. «Avevi detto di avere un sacco di cose da raccontarmi.»

    «Be’, sì» bofonchiò Wyatt, incastrando la carrozzella sotto il piano del tavolo. «Davvero un sacco, in verità. Sono così tante che non saprei da quale parte cominciare. Facciamo così... perché non attacchi tu raccontandomi quello che già sai?»

    In lontananza, le grida dei surfisti coprirono per un attimo il mugghiare profondo delle onde.

    «So che sei mesi fa Mordhia ha tolto di mezzo il Presidente degli Stati Uniti» riprese Mitesh, mettendo mano al taschino della camicia. «Ha costretto Irene Stratford ad abbandonare la Casa Bianca e l’ha sostituita con un Kre-henn, una sua riproduzione perfetta, che puntualmente si è dissolto, sei giorni più tardi. Poi ha rapito il marito e il figlio del Presidente, per assicurarsi che la donna non si azzardasse a rivelare al mondo l’inganno.» Fece una breve pausa ed estrasse una custodia per occhiali in cuoio. «Ma c’è una cosa che non sono riuscito a capire» continuò. «Per quale motivo l’oscura regina non ha semplicemente ucciso il Presidente? E perché non ha pensato di sostituirlo in pianta stabile?»

    «Be’» mugugnò Wyatt, «tanto per cominciare, l’operazione è stata programmata da Sebastian, il Favorito. E Sebastian non era neanche un Favorito qualunque: era lui la mente suprema. Non sappiamo ancora quale fosse il suo piano, probabilmente voleva che il Presidente, non importa se vero o fasullo, facesse qualcosa di ben preciso nel corso di quei sei giorni. Oppure più semplicemente intendeva sviare la nostra attenzione, in modo da poter agire indisturbato. Una sola cosa è certa: tra le sue mire non c’era quella di insediarsi alla Casa Bianca.»

    «Stai andando bene. Vai avanti.»

    Mitesh storse la bocca e tirò fuori dalla custodia un paio di occhiali con una sottile montatura dorata.

    «Allora» bisbigliò, sistemandoseli in punta al naso, «so che il Capitano Brenn D’Argoliàn ha messo insieme una squadra ed è corso in aiuto del Presidente Stratford. Hanno scoperto che anche lei era una Risvegliata. E hanno inseguito Sebastian fino in Sudamerica.»

    «In Honduras, certo.»

    «Qui hanno incontrato altri Risvegliati e, insieme a loro, hanno attaccato il Favorito nel suo covo, un tempio sotterraneo dove era stato allestito un complesso rituale. Hanno ucciso Sebastian... il che ha veramente dell’incredibile... ma non sono riusciti a interrompere il rito, né a ritrovare i familiari del Presidente. Ho sentito Keirasse, qualche giorno fa... e non sapeva di che razza di rito si trattasse.»

    Wyatt si sporse in avanti, puntando gli occhi sul volto scuro del tamil.

    «Abbiamo studiato quel rituale per mesi e abbiamo concluso che si tratta di roba terrestre... al cento per cento. Il primo rito autoctono che si celebra sulla Terra dopo millenni. Riteniamo che fosse impiegato dai Maya per amplificare il carisma dei loro re.»

    «Forse la cerimonia è servita per investire il nuovo Favorito di Mordhia.»

    Wyatt scosse la testa.

    «No, crediamo di no. Non ha senso che Sebastian abbia deciso di aiutare chi l’avrebbe rimpiazzato, non trovi? E comunque, a tutt’oggi, ancora non sappiamo chi sia il nuovo Favorito.»

    «Già... Keirasse mi raccontava anche questo» rispose Mistry; fece per aggiungere qualcosa ma si trattenne, irrigidendosi: un giovane cameriere stava venendo verso di loro con un vassoio carico di bevande.

    «Queste sono per voi!» strillò. «Un omaggio del vecchio Emmanuel!»

    «Aaaaah!» esultò Wyatt, battendo le mani. «Pastis! Che meraviglia! Ringrazia Emmanuel da parte mia.»

    Mitesh aspettò che si fosse allontanato e riprese a parlare.

    «Insomma, stavo dicendo... non è stata questa l’unica scoperta che il Capitano ha fatto nella giungla dell’Honduras: mi hanno detto che ha trovato anche delle casse.»

    Wyatt versò l’acqua dentro al bicchiere del pastis e il liquido ambrato si allargò in una torbida nuvoletta color avorio. Mitesh intanto andava avanti a raccontare.

    «Casse piene di armi e artefatti, ricolmi di energia primeva, destinati a schiere di Risvegliati di cui neanche sospettavamo l’esistenza.»

    «Decine di artefatti» mormorò Wyatt. «E così abbiamo scoperto che anche Mordhia stava creando una sua rete di agenti terrestri. E che questa rete esisteva oltretutto da un sacco di tempo.»

    «Ecco un’altra cosa che non capisco» sospirò Mistry, portandosi una mano alla fronte. «Come sono riusciti a tenere nascosta una cosa tanto grande? Saranno centinaia di persone e...»

    «Nell’unico modo possibile, riteniamo: ogni nuovo affiliato è stato vincolato al silenzio. Mordhia ha creato due strutture parallele, entrambe piramidali e perfettamente isolate l’una dall’altra, i cui componenti conoscono soltanto chi si trova immediatamente al di sotto... e al di sopra di loro nella scala gerarchica: se uno qualsiasi degli affiliati dovesse provare a pronunciare il nome del suo diretto superiore, il vincolo si attiverebbe all’istante... con conseguenze alquanto spiacevoli, come ben sai.»

    Le grida dei ragazzi risuonarono di nuovo e Mitesh si voltò verso di loro con lo sguardo perso.

    «Al vertice delle piramidi si trovano i due Alfieri di Mordhia sulla Terra» riprese Wyatt, richiamandolo alla realtà. «Nessuno sa chi siano. Neppure l’Alfiere Bianco conosce l’identità dell’Alfiere Nero. E dirigono la baracca da chissà quanto tempo! Ognuno, crediamo, con le sue specifiche direttive.»

    «Forse il nuovo Favorito è uno dei due alfieri» osservò il tamil, le guance paffute tutte imperlate di sudore.

    «O forse il nuovo Favorito non è ancora stato scelto... chi lo sa! È esattamente questo che il Capitano e la sua pattuglia stanno cercando di scoprire: intendono risalire la piramide e smascherare i due Alfieri. Sono convinti che solo gli Alfieri sappiano dove si trova adesso Thomas... il figlio del Presidente.»

    «E questa è la terza cosa che trovo incomprensibile» borbottò Mitesh, storcendo la bocca. «Per quale motivo Irene Stratford non si è fatta ancora avanti? Perché non ha rivelato al mondo di essere ancora viva?»

    «Perché non vuole mettere in pericolo la vita dei suoi più stretti collaboratori. Si pensa che ci sia una talpa all’interno di quello che un tempo era il suo staff. È stata questa talpa ad aiutare Sebastian, a rendere possibile il suo colpo di mano. Il Capitano D’Argoliàn è convinto che, a un gesto come quello che suggerisci, seguirebbero ritorsioni e rappresaglie.»

    «Come è successo a Ben Stratford? Il marito del Presidente...»

    Wyatt annuì col capo chino. Il corpo senza vita di Benjamin Stratford era stato ritrovato lo stesso giorno in cui la Nona Pattuglia aveva smascherato Carmona, l’agente di Mordhia a Santiago del Cile.

    «Un avvertimento» bisbigliò Mitesh, pensieroso. «Come dire: prova ancora ad avvicinarti e il prossimo cadavere che ti facciamo trovare è quello di tuo figlio.» Chinò il capo, cincischiando col bicchiere ancora pieno. «Cosa vuoi da me, Wyatt?» domandò, senza rialzare lo sguardo.

    Lui lo squadrò, inarcando un sopracciglio.

    «Ti conosco abbastanza bene da sapere che non sei venuto fin quaggiù solo per raccontarmi la storiella degli Alfieri.»

    Wyatt lo fissò per un lungo istante, dondolando un po’ il capo, quindi afferrò il bicchiere e lo vuotò in un sorso.

    «C’è bisogno del tuo aiuto, Mitesh.»

    «C’è bisogno?» ripeté il tamil. «Chi è che ne ha bisogno? La Fondazione? Oppure la pattuglia del Presidente?»

    «Pattuglia del Presidente? La Nona Pattuglia è guidata da D’Argoliàn.»

    «Allora? Chi dei due ha bisogno di me?»

    «Che differenza c’è?» domandò allargando le braccia. «La Nona Pattuglia lavora per la Fondazione... proprio come tutte le altre!»

    «Non è quello che ho sentito dire in giro.»

    «In giro? Cosa diavolo vuol dire in giro

    «Ho parlato con altri Esterni, Wyatt... e le cose che mi hanno detto sono...»

    «Che cosa?» sbottò Wyatt. «Sono proprio curioso di sentire cosa dicono!»

    Mitesh scosse la testa, imbarazzato, e abbassò lo sguardo a terra.

    «Allora?» domandò, agitandosi sulla carrozzella.

    «Si dice che sia Irene Stratford ad aver preso il controllo della Pattuglia... e che adesso si comporti come una pazza: sempre al limite, correndo ogni volta rischi assurdi. Dicono che non le interessa affatto proteggere la razza umana e prepararla al Grande Risveglio, che non le importa niente della missione della Fondazione o del volere del Puro.»

    Wyatt riprese ad annuire.

    «Si dice che pensi solo alla vendetta» continuò Mitesh, «a ritrovare il figlio scomparso... Dicono che l’attacco del 6 ottobre agli uffici della Fondazione sia avvenuto per colpa sua.»

    «Questa è davvero una stronzata!»

    «... e che il Capitano D’Argoliàn si sia fatto prendere la mano da quella donna.»

    «Cosa? Sangue del Puro, Mitesh! Questa cosa detta proprio da te...»

    «Dico solo quello che ho sentito dire da altri.»

    «Gli altri non conoscono il Capitano come lo conosci tu! E non ho visto nessuno di questi famigerati altri mettere a rischio la vita come fa lui, o fare qualcosa di più che obbedire agli ordini ed eseguire il compitino assegnato! La maggior parte di questi altri di cui parli tanto assomiglia a un circolo ricreativo, una massa di colletti bianchi rammolliti che non hanno mai affrontato un battesimo del fuoco!»

    Mitesh dondolò il capo, amareggiato. Wyatt invece non mosse un muscolo, gli occhi chiari piantati in quelli del tamil.

    «Dov’erano loro quando Brenn e Patch hanno scoperto l’esistenza dei Risvegliati di Mordhia? O mentre si sbarazzavano di Sebastian? Ha concluso di più la Nona Pattuglia da sola, in questi ultimi due mesi, di quanto sia riuscita a combinare tutta quanta la Fondazione fin dall’alba dei tempi!»

    «D’accordo!» lo interruppe Mitesh, alzando le mani in un gesto di resa. «Ho sbagliato, amico mio... e non volevo mancare di rispetto al Capitano D’Argoliàn, te lo assicuro.»

    Wyatt afferrò il bicchiere vuoto con mano tremante e se lo portò alla bocca, rovesciando la testa all’indietro per riuscire a berne almeno un’ultima goccia.

    «E quindi?» domandò Mitesh. «Cosa dovrei fare di preciso?»

    «Niente di operativo» gracchiò Wyatt, cercando di ricomporsi come meglio poteva. «Il Capitano vuole chiederti di recuperare un ragazzo, un giovane Risvegliato. E di occuparti del suo addestramento.»

    Mitesh socchiuse gli occhi; il vento stava montando e il profondo mormorio dei cavalloni risuonò incontrastato per un istante.

    «Si chiama Siddharta Sena. Era anche lui in Honduras... ma non è stato reclutato, fino a ora.»

    «Sena? Non è lo stesso Sena che...»

    «Invece è proprio lui, il figlio del magnate dell’acciaio. Tu sei il miglior addestratore a nostra disposizione. Oltretutto parli la sua stessa lingua, e non è un vantaggio da poco.»

    Mistry si fece pensieroso per un istante.

    «Poi, visto che ci sei, dovresti portare con te anche un altro Risvegliato, un Alteratore americano. Il suo potenziale è davvero incredibile, ma non ha ancora ricevuto un addestramento e...»

    «Alteratore americano? Non starai mica parlando di Marlon Delaine?»

    Wyatt assentì, un po’ a disagio.

    «È stato lui a combinare quel disastro a Helsinki.»

    «Sì, ma da allora è...»

    «Quell’uomo è pericoloso, amico mio.»

    «Sì lo so, ma...»

    «Una bomba atomica pronta a esplodere! Così l’ha definito Keirasse e...»

    «Oh, insomma!» protestò Wyatt. «Solo tu puoi riuscire a insegnargli qualcosa, Mitesh... Sei un Empate e un maestro. E in entrambe le cose sei dannatamente bravo. Senza contare il fatto che sei anche il custode dell’Occhio di Horus... Non c’è segreto nell’animo mortale che possa restare nascosto al prezioso opale. Non è così che dice quella vecchia filastrocca?»

    Un sorriso amaro increspò le labbra dell’omone e un penoso sospiro gli uscì fuori dal petto.

    «Che c’è? Cos’è quest’aria da funerale?»

    Mitesh annuì, tirandosi fuori di tasca una sfera d’avorio appena più piccola di una pallina da tennis: la superficie era perfettamente liscia, con l’unica eccezione di una sottile incisione, che avvolgeva il globo come un minuscolo equatore.

    «Non sono riuscito a risvegliarlo, Wyatt. L’occhio mi resta precluso. Ho provato e riprovato, ma a questo punto è più che evidente: il suo magister non sono io.»

    «Questa è un’altra stronzata! Tu sei il miglior Menctalio che ci sia in circolazione. Se c’è un uomo su questo pianeta che può dischiudere l’occhio, quello...»

    «Quello non sono io.»

    «Stronzate, ti ho detto!» ribadì Wyatt, sporgendosi di lato nella speranza di incrociare lo sguardo del cameriere.

    Contro la parete in calce bianca del gazebo, era appoggiata una tavola da surf di legno. Ci avevano scritto sopra Point View. El Loco Restaurant. Il tutto in caratteri sgargianti.

    Wyatt si passò la mano sulla barba. Se davvero il nome Mordhia fosse stato stampato su quei muri, sarebbe stato avvolto in una ghirlanda di jalapeños.

    «Sono sicuro che ti serve solo più tempo» concluse. «D’altronde se il Capitano ha richiesto proprio te per questo incarico, è perché lo sa bene che sei il migliore su cui poteva puntare.»

    «Oppure» sussurrò Mistry, rimettendosi il globo in tasca, «forse sono semplicemente l’unico che non può dirgli di no.»

    Il vecchio lo guardò con espressione inquisitoria, mentre i giovani surfisti ricominciavano a gridare, in lontananza.

    Poi si tirò indietro contro lo schienale della sedia a rotelle, grattandosi il petto con foga: delle due talpe serigrafate sulla t-shirt gialla che indossava non rimaneva che una traccia sbiadita.

    «E quindi» disse, «a farla breve, non hai intenzione di accettare questo incarico.»

    Mitesh scosse la testa, decidendosi ad afferrare il suo benedetto bicchiere.

    «Tutt’altro» disse, prima di mandare giù un sorso d’acqua. «Devo la vita al Capitano D’Argoliàn... La mia e quella dei miei quattro bambini. Sai bene che non potrei mai rifiutargli il mio aiuto.»

    Wyatt espirò grato. Il nodo di tensione che aveva avuto per tutta la mattina gli si stava sciogliendo dentro al petto: la Nona Pattuglia era ora completa: Mitesh Mistry era l’ultimo tassello, esattamente la persona che serviva.

    «Ebbene» chiese Mitesh, sporgendosi verso di lui, «comincia a spiegarmi i dettagli.»

    Il vecchio gli rispose con un sorriso sollevato.

    Anche questa è fatta si disse. A questo punto ogni cosa andrà per il verso giusto.

    Incerti del mestiere

    Il Capitano Brenn D’Argoliàn respirava a stento.

    L’avevano sbattuto sopra una seggiola, a ridosso della grande vetrata della premium lounge, e poi legato talmente stretto che il filo di ferro in cui era avvolto gli si era conficcato dentro la carne viva.

    Joe si piegò in avanti e gli aprì la palpebra dell’occhio rimasto, scrutandolo pensieroso.

    Pure adesso che era ridotto a un piagnucolante grumo di sangue, quel mostro gigantesco gli metteva una paura del diavolo e non gli piaceva affatto l’idea di dover restare chiuso qui dentro assieme a lui. Come se non bastasse, il ritardo di Sharok, custode dell’anello di giada, cominciava a farsi preoccupante.

    «Dov’è andato a finire quell’idiota?» mormorò, rialzandosi in piedi e accostandosi alla vetrata.

    Al di là del cristallo appannato, lo stadio BeyondDome, casa dei Milwaukee Invaders, sonnecchiava sotto una pesante coltre di neve e una trentina di spalatori lavorava senza sosta, nonostante la nevicata non accennasse a finire.

    Era stato lo sceicco Al Naydum a volere quel colossale sperpero di denaro. Lo aveva spacciato al consiglio direttivo della Beyond come un’irripetibile occasione di marketing, ma lo sapevano tutti che il suo vero obiettivo era vincere a mani basse le World Series.

    Soltanto in seguito, quando qualcuno gli aveva spiegato che era proibito mettere sotto contratto creature extradimensionali in una squadra professionistica di football, lo sceicco aveva desistito dal suo folle proposito; ma purtroppo a quel punto la frittata era fatta e i lavori di costruzione dello stadio ormai conclusi. L’ennesima cattedrale nel deserto.

    «Idiota megalomane...»

    Brenn D’Argoliàn mandò uno strozzato mugolio e Joe guardò l’orologio ancora una volta.

    «È tardi, cazzo!»

    «Fra quanto arriva?» biascicò Janice, sollevando l’ingombrante posteriore dal faraonico divano sul lato opposto della sala Vip.

    Il suo corpaccione era stritolato dentro uno striminzito tubino in similpelle verde acqua. Caracollò fino al tavolo del buffet e si voltò verso di lui; sotto una cesta di capelli arruffati, gli occhi spenti della ragazzotta ricordavano le lancette di un orologio, bloccato irrimediabilmente sulle otto e venti.

    «Cos’hai detto?»

    «Ho detto: fra quanto arriva?» bofonchiò Janice, cacciandosi in bocca un’altra manciata di minisandwich.

    «E io che ne so?» sospirò Joe.

    Lei rispose qualcosa di incomprensibile, prima di inghiottire il boccone; quindi agguantò un bicchierino di plastica e lo porse alla hostess in tailleur viola che se ne stava ritta in piedi accanto al tavolo. La donna poggiò in terra il kalashnikov e afferrò la bottiglia di champagne con un gesto fulmineo.

    «Chun Tohoy i-vong» borbottò, con voce cavernosa. «Ban-ghet-ty-hoo

    «Tu pensa ai fatti tuoi e versane ancora!»

    La hostess si abbandonò a una risata da scimpanzè e Brenn D’Argoliàn cacciò un nuovo lamento.

    Janice svuotò il bicchiere in un sorso e se lo fece riempire di nuovo.

    «Quello è Bollinger...» protestò Joe a denti stretti, ma Janice non si curò di lui. Abbrancò due piattini stracolmi di sandwich e trotterellò sui tacchi a spillo color verde acqua, fino a lasciarsi cadere con un tonfo sopra al divano.

    «Idiota...» mormorò Joe, tornando a guardare verso il campo da gioco innevato.

    Janice non aveva neppure vent’anni e aveva passato gli ultimi due col culone appoggiato su una seggiola, a lavorare come cassiera in un minimarket di Encino.

    Poi i Ricettori l’avevano individuata. «È la magister dell’Opale degli Oceani» avevano assicurato. «Bisogna trovare qualcuno che l’addestri.»

    E indovinate un po’ chi era questo qualcuno? Proprio lui, esatto; era il prototipo del company man: che si trattasse di una compagnia di assicurazioni o di un concessionario di automobili, per tutta la vita Joe aveva fatto sempre la stessa cosa, spaccarsi la schiena sedici ore al giorno per la gloria di qualcun altro.

    Poi, immancabilmente, ogni volta che si avvicinava il tempo del raccolto e lui intravedeva la possibilità di una promozione, cosa succedeva? Che arrivava qualcuno in giacca e cravatta con un sorriso di circostanza stampato in faccia, a fargli il solito discorsetto.

    «Abbiamo apprezzato i tuoi sforzi, Joe. Pensiamo che tu sia una persona davvero in gamba.» E tutte le sante volte c’era di mezzo un ma.

    «Ma il tuo posto lo diamo a tizio. Ma la promozione se la becca caio.» Il più delle volte era qualche idiota che non valeva un fico secco: il figlio di qualcuno, il nipote di qualcun altro, un imbecille qualsiasi arrivato da un quarto d’ora. E adesso che faceva parte dei Risvegliati, le cose erano andate nello stesso modo di sempre.

    «Risvegliata di classe dau-tien, amico. Ti tocca farti da parte.»

    Joe era stato uno dei primi a vedere ridestata la sua abilità ancestrale e, adesso che il Grande Risveglio era a un tiro di schioppo e che gli antichi arcani erano pronti a risorgere, a lui toccava fare un passo indietro. C’era qualcuno che veniva prima.

    «Idioti» ripeté per l’ennesima volta, tornando a guardare fuori.

    All’estremità più lontana del campo da gioco deserto, sotto i flosci stendardi viola dei Milwaukee Invaders, una squadra di spalatori stava risalendo di corsa le gradinate coperte di neve; erano in cinque, indossavano tutti la stessa tuta da lavoro e si muovevano col sincronismo aggraziato di un corpo di ballo.

    Poi D’Argoliàn brontolò qualcosa e Joe trasalì.

    «Per la miseria... questo mostro mi mette i brividi.»

    «Ban Laha mohòt ke-henn nahàt!» borbottò la hostess in viola col suo vocione da rinoceronte e Joe fu sul punto di controbattere, quando da sotto lo stipite della porta baluginò un’intensa luce arancione.

    «Alla buon’ora!» mugugnò e Janice si rigirò sopra al divano di pelle, producendo lo stridio di un pneumatico in curva.

    La porta si spalancò, rivelando un ometto dalla carnagione olivastra, oberato da una decina di pacchi e sacchetti. Teneva un ingombrante cellulare schiacciato tra spalla e orecchio e richiuse l’uscio con una pedata, senza neppure degnare i presenti di uno sguardo.

    Sharok. Il custode dell’anello di giada.

    «Ti ho detto che me non importa!» strillò al telefono con la sua vocetta da castrato. «No! Me non importa niente di colore che vuoi per mobili. Me non frega queste cose! Io persona importante!»

    «Sharok» sibilò Joe, «brutto idiota...»

    Accanto a lui, Brenn D’Argoliàn brontolò di nuovo.

    «Ora basta!» concluse Sharok. «Tu ha scassato!»

    Quindi chiuse il telefono e lo ripose con orgoglio dentro al portacellulare in cuoio che teneva appeso alla cintura.

    «Salve tutti!» squittì. «Scusate me per mia moglie. Ma lei è americana e scassa me ordaek con mobili svedesi che voi non potete capire come... Oppòrcamisseria!»

    Nel vedere il gigante avvoltolato col fil di ferro, era trasalito e le buste della spesa gli cascarono di mano, sfracellandosi sulla moquette viola.

    Sharok era di Teheran e fino al mese prima il suo nome era stato Amin Zakani. Rappresentante per una ditta di vernici, aveva vissuto in periferia, dentro una stamberga di trenta metri quadri insieme alla moglie e cinque figlie.

    Poi era stato reclutato dai Risvegliati, gli avevano affidato l’anello di giada e un ruolo di spicco all’interno dell’organizzazione. Adesso aveva una moglie americana, una casa americana e pure uno schiavo personale americano.

    «Tu non me detto che lui qui!» gli strillò in faccia. «Perché casso no hai detto?»

    Il telefonino cominciò a vibrargli dentro la custodia e lui si zittì, mentre all’interno della premium lounge risuonavano le note suadenti di Something stupid.

    «Bella suoneria...» sibilò Joe, mentre Sharok lottava per riuscire a rispondere; l’enorme cellulare continuava a schizzargli tra le mani peggio di un’anguilla.

    L’hostess si abbandonò a un ruggito sghignazzante.

    «Pronto! Come devo tu dire che noi parla di mobili dopo! Sei forse xaerguf che no capisce che io...»

    Poi spalancò la bocca, impallidendo.

    «Oh, Victor, sei tu...»

    «Idiota del cazzo...» borbottò Joe, sbiancando.

    Victor Baranin non era un Risvegliato qualunque, non lo avevano raccattato da dietro la cassa di un supermercato. Era uno degli uomini più potenti del pianeta e stava con l’organizzazione fin dall’inizio.

    «No, scusa... Io no visto numero in telefono... Tu dici giusto.»

    Da dentro l’auricolare risuonò un ronzio incomprensibile.

    «Sì, è vero... io chiesto scusa. E comunque io ora è qui.»

    Il ronzio riecheggiò di nuovo, più forte e adirato di prima.

    «Sì-Sì, scusa... ma perché ti incassi? Ora lui proprio qui davanti a me... è sicuro che è D’Argoliàn... sicuro a cento per cento.»

    «Sono notizie riservate, idiota» mugugnò Joe. «Devi usare il Vhe-Shin-Khan per dire questo genere di cose.»

    Dalla bocca del Capitano uscì un indecifrabile mormorio, quasi a volergli dare ragione.

    «No...» continuava a protestare l’ometto. «Io non fatto questo... Come dici? No... io non capito... Poi tu spiega meglio, okay? Quando vengo su Italia... a prendere mia ricompensa, il 9 aprile.»

    Viktor Baranin doveva essere furibondo, perché fuori dall’auricolare si riversava un ininterrotto brusio di rimprovero. Joe fece un passo in avanti per cercare di sentir meglio e in quello stesso istante, Brenn D’Argoliàn aprì la bocca e disse qualcosa.

    «Cosa ha detto?» domandò Sharok riponendo il cellulare.

    «Ho detto: Adesso!» berciò il gigante. Quindi balzò in piedi e allargò le braccia, urtando Joe e scagliandolo a terra.

    Il filo di ferro gli lacerò le carni e, da dentro gli squarci, uscirono di scatto due braccia minute, che si agguantarono la testa e la tirarono indietro sulla schiena, come se altro non fosse che il cappuccio di una tuta da sci.

    «Adesso!» ripeté con voce argentina una testa più piccola, che sbucava dal collo taurino del colosso. Era la testa di una donna, poco ma sicuro; aveva i capelli corti tutti arruffati e due occhi grandi, di un azzurro intenso.

    Joe fece per rialzarsi, quando una fitta di dolore lo trafisse al costato, facendolo cadere sulle ginocchia. Sollevò il capo e spalancò la bocca.

    «Esterni!» tentò di gridare, ma dalla gola non gli uscì altro che un ringhio strozzato.

    Accanto alla porta da cui Sharok era entrato, comparve un uomo esile, come se fosse affiorato da sotto il pelo dell’acqua. Aveva un giaccone scuro indosso; traballò sulle gambe e poggiò un ginocchio in terra.

    «Attento, Harry!» gridò la donna prigioniera e il tizio sfoderò un pugnale a

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