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Immortalis: La figlia del Meriggio
Immortalis: La figlia del Meriggio
Immortalis: La figlia del Meriggio
E-book440 pagine5 ore

Immortalis: La figlia del Meriggio

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Info su questo ebook

L’immortalità può essere noiosa, soprattutto se sei la principessa del regno dell’Alba. Da più di un secolo a Elbereth la vita di corte va stretta, tra l’etichetta che sua madre le vuole imporre e le fughe per allenarsi con i soldati. La situazione precipita quando suo padre, in missione diplomatica, svanisce nel nulla e i suoi fratelli vengono assassinati. Messa di fronte a un matrimonio combinato per salvare la successione, Elbereth fugge nei recessi delle segrete di Porta del Meriggio, dove le ombre paiono prendere vita e la conducono a una scoperta leggendaria: i pugnali perduti dei primi immortali che le donano il potere di dominare buio e luce e grazie ai quali scopre la verità. C’è un complotto a palazzo che minaccia di distruggere il regno della sua famiglia e l’unico modo per sventarlo è trovare suo padre, sparito nel regno del Tramonto. Per raggiungerlo deve però superare le Terre Senzanome. La patria dei ribelli umani che da sempre sono in guerra con gli immortali.
LinguaItaliano
EditoreGM Libri
Data di uscita29 lug 2020
ISBN9788855289108
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    Anteprima del libro

    Immortalis - Mary Alberio

    libri@gmlibri.it

    I

    La chiave

    Afelio, Quartiere periferico di Alba – Regno dell’Alba

    L’erba che costeggiava la strada era ancora bagnata di pioggia, colpa di quel tempo grigio e piovoso che continuava da giorni. Il firmamento sembrava essere malinconico e rinchiuso su se stesso, ma le prime case del villaggio accolsero il suo arrivo suddivise in file ordinate. Gli stendardi appesi alle finestre svolazzarono nel vento freddo e accompagnarono il suo passaggio.

    Da sotto il cappuccio del suo mantello, Elbereth lanciò un’occhiata alle nuvole che ondeggiavano sopra le montagne. Accarezzavano le cime più alte, ammantate del loro abito invernale e correvano impazzite fino a perdersi dietro i tetti delle abitazioni di Alba. Al di là di esse, alcune stelle diurne brillavano timide e argentee, pronte a spezzare quel grigiore. Nonostante il maltempo, quel luogo emanava la bellezza stessa del regno. Era umile e senza particolari ricchezze materiali, ma i suoi abitanti erano pieni d’amore e gentilezza.

    Tirò le redini di Themis e proseguì al trotto sulla via che profumava di neve. Aveva visitato il quartiere di Afelio altre volte, ma non riusciva a trovare un solo motivo per non tornarci. C’era una sorta di magia mistica tra le sue strade, qualcosa di sospeso tra la realtà e il sogno e che non era mai riuscita a definire con un’unica parola. Svoltò a destra e il centro abitato sbocciò davanti ai suoi occhi.

    Un ragazzino sbucò da una stradina laterale. Indossava pochi stracci e neppure puliti, aveva il viso incrostato e lo sguardo stanco. Non le parlò, come era giusto che facesse da essere inferiore che era, ma allungò la mano verso di lei e accennò un saluto. Elbereth sfiorò la tasca del suo mantello, lì dove aveva riposto le sue pagnotte. Sorrise a quell’anima infelice e gliene porse una, prima di continuare per la sua strada.

    Era giusto così, pensare al prossimo, immortale o feccia mortale che fosse.

    I suoni delle botteghe incrociarono le voci dei temerari che affrontavano le raffiche di vento. I colori sgargianti dei panni stesi ad asciugare lottarono contro il grigiore del firmamento e la pungente fragranza del pan speziato giungeva dalla casa del fornaio, dall’altra parte della strada.

    Smontò da cavallo tra gli sguardi curiosi dei passanti e coprì il viso con il lembo del cappuccio. Nessuno sapeva chi fosse in realtà, ma era meglio non dare troppo nell’occhio, anche se più cercava di passare inosservata, più l’attenzione ricadeva su di lei.

    Era un dono e una maledizione al tempo stesso, ma non poteva far altro che convivere con la certezza che ovunque andasse, non sarebbe mai stata da sola. Accennò un saluto con la testa e continuò per la sua strada.

    All’interno della panetteria, il profumo della farina e di altri aromi diventò più intenso e le fece venire l’acquolina in bocca.

    «Buongiorno, Hectar Menkar» disse al fornaio.

    «A te, mia cara. Che fine hai fatto? Non ti vedo da settimane!» rispose lui.

    «Ho avuto da fare» mentì e allungò il naso verso le pagnotte che guarnivano la parete. «Posso averne una? A casa non ce ne arriva di così buono.»

    Pane per i poveri e pane per lei. Un ottimo compromesso.

    «Sono due parsec» continuò lui con un sorriso.

    Gli porse le ultime monete che aveva e promise di tornare presto. Sempre che fosse riuscita a fuggire di nuovo da casa.

    Una volta fuori, il vento le agitò i capelli, portò via ogni profumo e la obbligò a stringere il mantello attorno alle spalle. Il freddo sarebbe durato ancora a lungo? La speranza era che Dramen mandasse presto la stagione calda. Afelio era ancora più bella con le ginestre in fiore nelle aiuole e i bambini che correvano spensierati nei prati fuori dalle mura cittadine. Themis nitrì, come se volesse rispondere a quella preghiera, dimenò la coda e la condusse oltre.

    Proseguirono verso una strada laterale ed Elbereth portò il pan pepato vicino al naso per inebriarsi ancora del suo aroma speziato: doveva essere buono proprio come lo ricordava.

    «Buonasera, mia cara.»

    Accanto alla porta della taverna della Stella Blu, c’era una vecchia dalla schiena curva, gli zigomi pronunciati e i lunghi capelli inariditi. Le sorrise dal fondo degli occhi dal sapore antico, molto strani per appartenere a una mortale. Se quella mendicante fosse stata più giovane, Elbereth l’avrebbe rimproverata per l’imprudenza di averle parlato, ma la sua vita sarebbe finita così presto che non valeva la pena farla punire. Ricambiò il suo sorriso e ignorò l’offesa.

    In realtà trovava pittoreschi i cittadini di Afelio e ammirava la loro semplicità. Ogni volta che donava loro qualcosa, il suo cuore sprizzava gioia perché non facevano altro che lodare la sua anima compassionevole.

    «Buonasera a te» rispose e lasciò scivolare il cappuccio sulle spalle.

    «Arrivi da molto lontano? Non ti conosco.»

    La vecchia si sistemò meglio sulla stuoia su cui era seduta, poi le regalò un sorriso a cui mancavano diversi denti. Sapeva di erbe vecchie e rinsecchite, come la sua pelle rugosa.

    «Sono in viaggio» rispose, «ma non è la prima volta che mi fermo da queste parti.»

    Nemmeno lei aveva mai visto quella vecchia prima di quel momento. Afelio era un piccolo quartiere alla periferia di Alba, ma era impossibile conoscere tutti, soprattutto la feccia mortale.

    «Neppure io sono ad Afelio da tanto.»

    I suoi occhi erano pozzi neri che sembravano ancora più vecchi di tutto il resto che c’era attorno. Anche se era impossibile. Non era un’immortale, il suo corpo si stava già disfacendo. Eppure era come se quello sguardo la chiamasse a sé. Quasi senza accorgersene, le allungò il pan speziato che aveva tra le mani.

    «Hai fame?» le chiese.

    «Frawa ha molta fame» rispose e afferrò la pagnotta con così tanta rapidità che Elbereth rimase lì col braccio proteso e vuoto, come una stupida.

    Ma che cosa le era preso? Dare cibo ai bambini più poveri era un conto, ma sprecarlo per una vecchia... Ormai la sua vita era al termine e non era il caso di prolungarle troppo quell’agonia. E poi che cos’avrebbe mangiato lei adesso? Il suo stomaco lanciò una fitta di disappunto.

    «Hai freddo, dolce creatura?» chiese di nuovo la vecchia. «Vai dentro a scaldarti vicino al fuoco, prima che questo freddo ti congeli il naso.»

    Forse quella non era una brutta idea. Aprì la porta e varcò la soglia, sperando di lasciarsi dietro il disagio che le era calato addosso. Anche nella taverna, il tempo era l’argomento principale di conversazione. Sempre le solite cose dopo un inverno più rigido degli altri. Gli dei erano adirati e presto sarebbe arrivata la fine del regno. Cose così. Lei non era superstiziosa ma doveva ammettere che quello strano clima era tutt’altro che normale. La stagione calda avrebbe dovuto essere alle porte, ma il freddo e il gelo non sembravano voler scemare. Anzi, c’era addirittura chi sosteneva che la neve sarebbe di nuovo scesa nella valle. A memoria sua non c’era stata una stagione così rigida in tutti i suoi centootto anni di età.

    Elbereth sospirò e avanzò verso l’ampio camino di granito stellato in fondo alla sala. Il locale era alla buona e affollato da viaggiatori, mercanti, ragazzi e schiavi. Il cibo non era sgradevole e nell’aria aleggiava anche il profumo del vino caldo.

    Quattro sacerdoti del tempio sedevano al tavolo più vicino al fuoco e fissavano con insistenza l’entrata. Erano vestiti con cuoio e cotone grezzo, ma senza nessuna effige del loro ordine di appartenenza. Uno di loro occupava da solo la panca di destra e di sicuro doveva essere un gran maestro. Di fronte a lui c’era un tipo magrolino dai capelli sottili, le guance arrossate e lunghe dita nodose. Quello accanto aveva i capelli chiari e parlava poco. L’ultima era in realtà una serva con quell’orrendo tatuaggio a coprirle parte del volto. Un brivido le attraversò la schiena. Come potevano accettare una mortale seduta alla loro tavola? Un conto era regalare qualche pagnotta, ma mangiarci assieme... Inconcepibile. Il posto di quella sguattera era fuori insieme alla vecchia ad attendere che i suoi padroni avessero terminato il loro pasto.

    «Non dovrebbe volerci molto» disse il magro e affondò il cucchiaio nella minestra.

    «Dobbiamo ricordarci di non avere fretta, la nostra missione vale molto di più di questo piccolo sacrificio» fece il gran maestro e passò un pezzetto di pane alla serva.

    La porta della taverna lasciò entrare una folata di vento gelido ed Elbereth avanzò di qualche passo per evitare gli spifferi gelati. In quel momento il magro sembrò notare la sua presenza.

    «Hai fame? Vieni a sedere anche tu con Maestro Colbat. Ti lascerà un pezzo del suo coniglio» le disse, facendole segno di avvicinarsi.

    La serva rivolse lo sguardo oltre la finestra.

    «Non fare caso a lei» continuò il sacerdote. «A Jenifire hanno tagliato la lingua.»

    Che cos’aveva commesso di tanto orribile per subire quella punizione? Schiuse le labbra per porre la domanda ma all’ultimo momento rinunciò. Non erano affari suoi e, qualunque fosse stata la sua colpa, aveva di certo meritato quel castigo.

    «Io invece mi chiamo Liram, Liram Acamar» continuò lui senza dare il tempo a nessuno di fare altre domande. «Qual è il tuo nome?»

    Elbereth torse le dita tra le pieghe della gonna e cercò ispirazione tra le fiamme del camino. Un filamento bluastro salì verso l’alto, attraversò il rosso e il giallo del fuoco e prese la forma di un bocciolo di rosa.

    «Róisin» disse tornando a dare attenzione a Liram. «Róisin Elnath da Torre dell’Aurora.»

    «Che cosa ti porta ad Afelio?» domandò Maestro Colbat.

    «Il desiderio di scoprire che cosa c’è oltre i confini di quella che chiamo casa.»

    «Brindo al viaggio e alla scoperta!» disse Liram alzando il boccale di birra.

    «Benvenuta alla nostra tavola, allora» fece Maestro Colbat come se stesse recitando una preghiera.

    Jenifire le lanciò un’altra occhiata torva ma annuì, mentre il silenzioso le allungò un pezzo di carne.

    «Io non posso» disse Elbereth allontanando il piatto. «Non ho parsec per pagare.»

    Non avrebbe approfittato di quelle persone da bene, togliendo loro il cibo di bocca. Avevano sudato per permettersi quel pasto. Non dovevano fare a lei la carità.

    «Ecco perché devi accettare. I soldi del clero servono per questo» continuò Liram. «Consacra con noi questo animale, morto per il nostro bene.»

    Beh, in fondo gli alti sacerdoti erano sovvenzionati dal re e di certo a lui non sarebbe dispiaciuto se avesse consumato quel pasto.

    «Siete molto gentili» disse prima di prendere il piatto che il silenzioso le stava ancora porgendo.

    «Ho notato che hai condiviso il tuo pane con quella mortale lì fuori» le disse Maestro Colbat. «Che gli dei Dramen e Alder ti benedicano. Non tutti gli immortali sono generosi come te.»

    Il suo cuore sprizzò gioia. Se anche un alto sacerdote lodava la sua carità, allora stava davvero facendo del bene per gli altri. Aiutare chi disprezzava dava i suoi frutti, in fondo.

    «Non ho fatto nulla di speciale...» rispose addentando il coniglio. Era morbido e succoso, mai assaggiato uno così buono.

    La compagnia continuò a chiacchierare del più e del meno. Le funzioni, le offerte, la comunità dei sobborghi. Elbereth rimasé lì ad ascoltarli, senza entrare nella discussione. Non era mai stata così vicina a dei religiosi e li aveva sempre immaginati rigidi come le colonne dei loro templi. Liram invece aveva il senso dell’umorismo e il silenzioso aveva il dono di infondere pace e tranquillità a chi gli stava accanto. L’unica nota stonata di quel gruppo era Jenifire, ma poteva tollerare la sua presenza soltanto perché non era in grado di parlare.

    «Resterai a lungo in città?» chiese Maestro Colbat, scacciandole quei pensieri.

    Elbereth controllò fuori dalla finestra. Le stelle accennarono un lieve sbrilluccichio ma dalla loro posizione doveva essere già mattina inoltrata. Era tardissimo! Dania le avrebbe fatto passare un brutto quarto d’ora se non l’avesse trovata nella sua stanza.

    «Io... devo andare!» disse. «Grazie di tutto. Appena potrò farò un’offerta al tempio.»

    Lasciò il piatto e la compagnia, seppur con riluttanza e corse via, come se avesse un lupo alle calcagna. Che cosa avrebbe inventato questa volta, per non subire l’ennesima punizione per la sua disobbedienza?

    Uscì all’aperto e si diresse verso le pastoie di Themis.

    «Aspetta, mia cara.» La vecchia alzò un braccio per fermarla. Che cosa voleva ancora da lei? Non aveva nient’altro con cui sfamarla. Ecco cosa succedeva a dare troppo a quelli come lei.

    «Mi aspettano a casa!» disse per levarsela di torno.

    «Volevo solo ringraziarti per essere stata così misericordiosa con me.»

    Ah, allora non voleva altro. Lasciò andare le pastoie e si voltò verso di lei.

    «Non ho fatto nulla di speciale» rispose, trattenendo a stento un sorriso compiaciuto.

    «Per me è molto. Lascia che io ti faccia un dono. Non vale nulla ma ti ricorderà di tornare a trovarmi.»

    Un braccialetto apparve come per magia tra le dita nodose della vecchia e, attaccato, pendeva un ciondolo a forma di chiave che le dondolò davanti agli occhi. Era molto grezzo, quasi usurato dal tempo. Di certo non era prezioso.

    «Non posso accettare» rispose Elbereth.

    Ma in realtà lo voleva eccome. Era un segno del bene che faceva, una giusta ricompensa per tutti i suoi sforzi. E poi era così strano... quasi esotico. Era come se quella chiave che oscillava davanti a lei la chiamasse, che bramasse che fosse sua. Ebbe l’impulso di alzare la mano per strapparlo alla vecchia e andarsene via di corsa, ma si trattenne Un’immortale come lei non si comportava così.

    «Meriti qualcosa di più elegante, lo so. Ma c’è una leggenda che sorveglia questo bracciale. Dicono sia la chiave di qualcosa di dimenticato dai tempi dei tuoi dei caduti. Un lascito di Dramen e Alder Polaris stessi.»

    Era davvero appartenuto a Dramen e Alder o era solo una vecchia storia? Vecchio era vecchio. Più di lei sicuro. Ma no, impossibile che una mortale potesse possedere qualcosa di così grande valore. Però alla fine non era neanche male. Avrebbe potuto indossarlo per qualche strano ballo in maschera. Giusto per scherzo.

    «Allora lo terrò con me come se fosse davvero il più pregiato dei gioielli» mentì.

    «Custodirà i tuoi desideri» continuò la vecchia. «Tienilo sempre con te, chissà che un giorno non servirà per aprire il forziere di un grande tesoro!»

    Certo, come no. Probabilmente lo avrebbe lasciato a prendere polvere nel suo portagioie. Allungò le mani per prenderlo e per un istante un’ombra nera passò sul metallo opaco del bracciale. Ma un battito di ciglia dopo era sparita, forse una nuvola di passaggio aveva oscurato per un attimo la stella del Meriggio che stava sbucando nel firmamento.

    La stella del Meriggio? Era troppo tardi! Dania le avrebbe tirato il collo di sicuro.

    «Tornerò molto presto e ti porterò altro pane fresco» disse di fretta. Poi afferrò il dono reprimendo un brivido di disgusto nello sfiorare le dita raggrinzite della vecchia. Be’, almeno era stata ringraziata per il suo buon cuore. Quel gesto valeva più di cento quasar.

    II

    Il colore azzurro del Meriggio

    Porta del Meriggio, Colline di Alba – Regno dell’Alba

    Elbereth si spostò tra le fronde spoglie degli aceri che circondavano il castello, trovando riparo tra gli arbusti bassi ai piedi degli alberi. Il fiato corto formò nuvolette d’aria, intrecciò i rami dei cespugli pesanti di neve ghiacciata e infine scivolò nell’infinito.

    Il vento vorticò tra gli arbusti, la circondò con il suo soffio gelido e le solleticò la schiena fino a farla tremare. O era solo la paura di poter essere scoperta? Restò immobile quanto più poteva, rannicchiata sotto quel groviglio di foglie e cercò di resistere all’impulso di rivolgere la sua attenzione verso il lato del cortile dal quale provenivano rumori d’acciaio e grida di soldati. Non poteva perdere la concentrazione.

    Dania attraversò il chiostro del castello in quel momento. Aveva il viso paonazzo e l’espressione accigliata. Si fermò a pochi passi dal cespuglio coperto di neve dove si era nascosta, come se potesse annusare nell’aria l’odore della sua paura. L’armatura cozzò contro il selciato ed Elbereth trattenne il respiro. Gli istanti sembrarono ore, il sudore le gelò sulla fronte ma Dania passò oltre e così poté riprendere fiato. Quello stupido mastino non voleva proprio cedere. L’aveva quasi scoperta di nuovo, ma questa volta non le avrebbe permesso di fare la spia! Che consumasse le suole per tutto il castello nel cercarla.

    Il vento soffiò debole, questa volta. Le foglie suonarono cupe, accompagnarono Dania verso i dormitori delle guardie e lei sparì dietro la grossa porta rossa. Per un attimo, tutt’intorno sembrò esserci solo pace e quiete. I rami degli alberi oscillarono placidi alla luce del pomeriggio e anche il freddo sembrò essere meno pungente. Elbereth uscì dal suo nascondiglio e affrettò il passo per raggiungere lo spiazzo usato per gli allenamenti.

    Le sgargianti giubbe di lana di venti soldati spiccarono tra i tristi colori invernali identificandone i vari gradi. Con un movimento preciso e veloce, uno di loro sferrò un montante contro un fantoccio di paglia tagliandolo a metà. Un altro tese i muscoli delle braccia mostrando i nervi sotto la pelle. Parò un fendente con l’aiuto di uno scudo, arretrò di un passo e andò a colpire la lama di un suo commilitone.

    Elbereth si strinse meglio nel mantello, con i muscoli che fremevano per prendere parte all’allenamento. Perché non poteva essere come loro? Non avrebbe esitato un istante a brandire una spada e difendere la sua famiglia da eventuali nemici. Non era una fanciulla immacolata, né tantomeno voleva essere lo specchio della nobiltà del regno. Valeva molto di più di quanto gli altri pensassero di lei e suo padre, per quanto l’amasse, la considerava soltanto una bambola di porcellana da esibire. Non voleva cogliere il fuoco che le bruciava dentro e cercava di spegnerlo in ogni modo, complici le colpe che le aveva cucito addosso. Morse il labbro maledicendo il giorno in cui lo aveva deluso e anche il giorno in cui Coretin Dabih era entrato nelle loro vite. Le guardie finirono i loro esercizi e sfilarono una dopo l’altra davanti a lei. Le porsero sgraziate riverenze e la scrutarono con i loro occhi curiosi. Chissà se erano imbarazzati dalla sua presenza o se ne erano infastiditi. In verità, le importava poco della loro opinione.

    Quando anche l’ultimo soldato sparì oltre la porta dei dormitori, Elbereth occupò il centro del campo. Era il suo turno per gli esercizi e, anche se doveva farlo di nascosto, non aveva nessuna intenzione di rinunciarvi.

    Sfilò la spada dal fodero, la strinse nel pugno destro e la puntò contro il paglione. Tese il braccio e tirò i muscoli nell’estremo tentativo di non tremare di fronte al fantoccio. Se lo immaginava sempre con le forme mascoline di Dania, le sue spalle larghe e gli occhi da cane bastonato. Cercò di reggere l’arma con una sola mano e digrignò i denti nel considerarla l’estensione del suo braccio. Era pesante, ma forse un po’ meno dell’ultima volta. Il primo colpo tagliò l’aria e la punta della lama passò oltre il bersaglio senza sfiorarlo.

    «Non muoverti, vigliacca!» disse al fantoccio.

    Il vento soffiò ancora e frustò gli alberi che circondavano l’arena. Le foglie caddero lente e ricoprirono qua e là il terreno con informi macchie grigie e nere. Il tramonto dai colori infuocati, incorniciato dalle stelle diurne morenti, stava ormai volgendo verso la sera. Il firmamento stava passando dal blu scuro al nero, le stelle dal giallo mutarono di gradazione scivolando nelle striature violacee delle nuvole. La stella del Vespro sarebbe sorta entro poco e il verde e l’azzurro avrebbero trapunto il firmamento illuminando la notte nel regno.

    Elbereth sarebbe rimasta ad ammirare quello spettacolo per ore, ma dei passi risuonarono in lontananza. Avrebbe riconosciuto quell’incedere in mezzo a una parata. Madron Alderamin, il capitano della guardia reale.

    «Principessa...» Madron accorciò le distanze, la salutò con un elegante inchino e posò la mano sulla sua spalla.

    Le gambe le tremarono all’improvviso, lo stomaco gridò ed Elbereth quasi incespicò nei suoi stessi piedi.

    «Che gli dei ti siano propizi» gli rispose con il fuoco che le scaldava le guance.

    Madron non indossava la sua divisa. Una casacca nera aveva preso il posto di quella rossa militare ma anche questa portava l’effigie del suo grado nell’esercito dell’Alba. Gli occhi blu scuro brillarono alla luce delle stelle illuminandogli il viso irsuto.

    «State di nuovo sbagliando. Il vostro braccio tende a curvare troppo verso destra» le disse.

    «È la lama di questa spada a essere storta!» brontolò.

    «Riprovate...» continuò lui come se non l’avesse neppure ascoltata.

    Elbereth strinse la mano libera in un pugno. L’idea di lanciare l’arma per terra la sfiorò per un istante. Era quella maledetta a sfidare la sua pazienza e ci avevano provato già in troppi in quella giornata! Sospirò a lungo. Spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, respirò l’aria frizzante del tramonto e soppesò la spada stringendola nel pugno. A cosa sarebbe servito riversare la sua frustrazione su un oggetto inanimato? Chiuse gli occhi, riascoltando con la mente le parole del capitano. Cercò di sfruttare i suoi insegnamenti, di trovare la tranquillità dentro di lei.

    La ruvida impugnatura della spada le sfregò sui polpastrelli, il peso della lama tirò verso il basso. Uno stormo di uccelli passò in lontananza e delle crisalidi di ghiaccio caddero dagli alberi precipitando al suolo.

    Riaprì gli occhi. Era un’unica entità con la spada.

    Il dolce profumo dei capelli di Madron Alderamin le inebriò i sensi. Sapeva di pesche fresche e dei colori dell’estate. Elbereth lottò con tutte le sue forze per non restare immobile a contemplare il suo bel viso. Chiese aiuto agli dei per combattere il desiderio di accarezzarlo. Era l’immortale più bello che avesse mai visto e le sue labbra sembravano così morbide che avrebbe voluto sentirle premute contro le sue. L’avrebbe baciato in quello stesso momento se lui non fosse stato così importante. Trattenne il respiro per tornare in sé.

    Lui le riposizionò le dita attorno all’elsa della spada e col piede destro picchiettò contro i suoi in modo che allargasse di più le gambe.

    «Avanti, colpite!» le sussurrò all’orecchio.

    Il fuoco sulle guance diventò un incendio. Il cuore prese a batterle all’impazzata, il rumore martellante di cento tamburi le otturò le orecchie ma lei tentò lo stesso di eseguire il suo compito. Scattò in avanti e la lama partì con un affondo diretto verso il fantoccio. La punta dell’arma fischiò attraverso il vento, rapida come un fulmine. Penetrò la paglia senza incontrare ostacoli e fermò la sua corsa nel perfetto centro del bersaglio.

    «Avete visto, mia piccola stella? La spada sente se siete adirata. Al contrario, se siete in perfetta armonia con voi stessa, eseguirà i vostri ordini.»

    Madron curvò le labbra in un sorriso incantevole.

    «Ti ringrazio, zio!» civettò lei mentre il cuore le usciva dal petto.

    Lui diventò subito serio e i suoi occhi scrutarono tutte le direzioni.

    «Elbereth, abbassate la voce! Se vostro padre dovesse venire a sapere che mi chiamate in questo modo, potrebbe farmi tagliare la testa!»

    «E rimanere senza il miglior guerriero del regno? Dovrebbe prima passare sul mio cadavere. E poi non c’è pericolo, sono quasi due mesi che è partito.»

    «Non parlate in questo modo di lui, vi prego!»

    «Sei stato tu a insegnarmi a cavalcare e a combattere. Tu, ad assecondare la mia natura e di questo te ne sarò grata in eterno. Il mio affetto per te è pari a quello che ho per mio padre.»

    Se fosse stato per re Sylien l’avrebbe chiusa a palazzo a rammendare tutto il giorno. Non appena aveva raggiunto l’età giusta, Elbereth era stata educata a leggere, a scrivere e a fare di conto. Era stata preparata per essere una buona principessa e un’ottima consigliera per i suoi fratelli. Zio Madron invece le aveva sellato un palafreno e le aveva regalato una spada di legno. Lui la conosceva meglio di chiunque altro.

    Senza replicare, Madron brandì una seconda spada e le andò di fronte. Il vento calò all’improvviso e un corvo restò a osservarlo appollaiato sul ramo di un albero. Elbereth trattenne un’imprecazione.

    L’animale lo fissava con così tanta insistenza da sembrare inopportuno ma il suo corpo era così slanciato e atletico, una vera delizia per gli occhi, che non se la sentì di incolpare il povero corvo.

    I capelli di Madron oscillarono alla luce violacea del tramonto, sfiorarono la fronte aggrottata e i muscoli del collo fiorirono sulla pelle nuda. Elbereth trattenne l’aria nei polmoni mentre lui abbassava il gomito e divaricava i piedi pari alle spalle. Infine, drizzò la schiena e socchiuse gli occhi. La spada schizzò in avanti e lei arretrò di un passo. Non aveva previsto quel movimento, ma il suo istinto era stato più veloce dei suoi pensieri. Alzò il braccio che teneva la spada e il gomito virò a reggerne il peso, pronto a parare il colpo.

    La lama della spada però le passò accanto, così vicina che l’aria frizzò solleticandole il volto. Madron la oltrepassò con un movimento preciso, ruotò su se stesso e la punta della spada tagliò il paglione nel punto esatto in cui lei lo aveva colpito poco prima.

    «La vostra passeggiata dell’altro giorno è stata piacevole?» chiese lui con il suo sorriso schietto mentre rinfoderava l’arma.

    «Quale...»

    «Non mentitemi. Dania vi ha vista uscire dal castello e me lo ha riferito.»

    Elbereth schiuse le labbra per rispondere ma non trovò le parole. Che giustificazione avrebbe inventato questa volta per evitare l’ennesima ramanzina?

    «Ad Afelio la gente dice che gli dei sono adirati e che l’inverno non finirà tanto presto.»

    «Elbereth, non prendetemi in giro. Perché siete uscita da sola dal castello? Lo sapete che vostro padre vi ha ordinato di non farlo.»

    La bile risalì dallo stomaco e le bloccò il respiro. Era da un secolo che le ripetevano di non uscire dal castello, che il mondo al di fuori di Porta del Meriggio era pieno di pericoli. Che non avrebbe saputo come reagire davanti a un nemico. Lei non era d’accordo. Aveva il coraggio ereditato per geni paterni e sapeva combattere quasi come i suoi fratelli. Scagliò la spada sul selciato e sfilò il fodero dalla cintura posandolo però con cura accanto al fantoccio. Non voleva rovinare la pelle nuova su cui erano incise le iniziali del suo nome.

    Madron la fissò con le braccia strette al petto e l’aria accigliata. Lei sfidò il suo sguardo e sospirò per quella libertà che continuava a esserle negata. Affondò la punta del piede nella sabbia e la scalciò all’indietro, come faceva Themis quando era irrequieta.

    Odiava Dania e tutti quelli che la consideravano soltanto una bella principessa. Detestava tutti in realtà, ma non Madron. Lui era l’unico che lasciava libertà ai suoi pensieri o almeno fin dove gli era permesso concederglieli. Inspirò a fondo e, un respiro alla volta, calmò il fiatone. Rispondere male a suo zio non sarebbe servito a niente, lui le voleva bene e non avrebbe fatto nulla per ferirla. Forse era meglio dire la verità e non peggiorare la situazione. Una bugia avrebbe causato più guai di quella sincerità che lui avrebbe invece apprezzato.

    «Ho fatto una passeggiata fino ad Afelio. Niente di più. Lo giuro sul mio nome.»

    «Ed è accaduto qualcosa di cui devo essere messo al corrente?»

    Elbereth alzò le spalle.

    «Una vecchietta mi ha regalato questo.»

    Sfiorò il braccialetto dorato che aveva al polso. Il ciondolo a forma di chiave tintinnò e il suo suono addolcì gli occhi di Madron.

    «Venite prima da me, la prossima volta. Verrò con voi ad Afelio» disse e le regalò un sorriso luminoso. «Ora andiamo, vi riporto nelle vostre stanze, prima che vostra madre vi veda.»

    Elbereth non disse altro, ma presto o tardi sarebbe andata a cercare Dania e le avrebbe fatto strappare la lingua.

    ***

    Quando riaprì gli occhi, le fiamme crepitavano ancora nel camino. Danzavano placide nella gola di mattoni aperta sul muro a ovest della sua stanza. Una folata di vento freddo entrò dalla finestra socchiusa e alzò i lembi delle tende. Elbereth stiracchiò le braccia e respirò la profonda frustrazione di ciò che l’attendeva una volta

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