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TERRASIA
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E-book284 pagine4 ore

TERRASIA

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Sinossi

Anno 3818, sono passati settecento sei anni dalla fuga nell’oscurità, dalla guerra ed in un mondo rinato dalle devastazioni nucleari uno sparuto gruppo di uomini, orribilmente deformati dalle radiazioni, cerca di ridare vita ad un’antica profezia tra i ghiacci sconfinati del polo nord, mentre lontano, nella foresta vergine sorta sulle ceneri delle grandi metropoli del passato il male risorge velocemente.
Ancora una volta il nero pellegrino sarà costretto a cacciare l’uomo, per ridare un futuro alla razza umana ed al pianeta che, suo malgrado, la ospita.


 
LinguaItaliano
Data di uscita21 gen 2018
ISBN9788827555965
TERRASIA

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    Anteprima del libro

    TERRASIA - Ala Fabrizio

    Sequel

    Prefazione

    Terrasia è il primo volume della trilogia scritta da Fabrizio Ala, giunta alla terza edizione. Il poliedrico mondo post nucleare scaturito dalla sua fantasia si radica perfettamente nel nostro contemporaneo. Quasi con una forma di preveggenza da quando venne scritto Terrasia , il primo volume ( 2008 ), le cronache ci portano ad una reale concretezza che altro non fa che avvallare la stabilità del racconto.

    I molteplici personaggi che a prima vista risultano accomunati da un solo destino, la sopravvivenza, in realtà si dimostrano una parodia del nostro essere in se, ovvero una società che lotta quotidianamente per sopravvivere a se stessa. La sopravvivenza, grazie alla capacità narrativa, si dimostrerà più ramificata del previsto dichiarando apertamente che il delirio sociale altro non è che la somma dei singoli comportamenti di chi realmente forma la società, che popola il nostro fragile pianeta. Un pianeta che non si ribella ma reagisce agli stimoli esterni come qualsiasi essere vivente seguendo instancabilmente la sua missione ovvero preservare la vita, indipendentemente da chi per secoli lo ha stremato, sfruttandolo senza regole etiche e che poi per personale ripicca lo ha quasi distrutto con una guerra nucleare.

    Fabrizio Ala si è interrogato e ha disegnato uno scenario di rinascita, un nuovo umanesimo, l'araba fenice che risorge dalle rovine di una società industriale e un'economia forsennata e accecata coadiuvata dalla falsa ignoranza di governi complici implosi, vittime della loro stessa ingordigia.

    Un nuovo umanesimo che a stento porterà il nuovo pianeta, per quanto morfologicamente cambiato, verso una nuova luce, un gruppo di personaggi che altro non sono che lo specchio di se stessi, esistenze ondivaghe tra passato e presente che si apprestano, come bambini, a muovere i primi passi verso il futuro.

    Maurizio Bazzano

    Prologo

    Autunno. Il guerriero stava ritto sulla sella... pioveva forte quella notte, la stagione delle piogge in quella regione pareva senza fine. Dalla sommità della collina sulla quale si era fermato, si poteva vedere tutta la vallata e, a pochi chilometri di distanza dalla sua posizione, la preda attendeva inerme...

    Un piccolo avamposto fortificato lo separava dall’insediamento umano che da lì a poco avrebbe attaccato, le sentinelle di vedetta sui bastioni, senza dubbio avevano già avvistato la figura ammantata di nero che, immobile sulle staffe, li osservava e si stavano preparando ad accoglierlo come si conviene, ne era certo, ma non li temeva... li avrebbe spazzati via come tutti gli altri.

    Era nato per quello, la morte lo seguiva ovunque andasse. Non era umano, la sua struttura ossea, il suo portamento e le proporzioni del suo corpo avrebbero indotto un incauto osservatore a dire il contrario ma, ad una più attenta analisi, la stima sarebbe stata molto diversa...

    La sua pelle ambrata e le sue pupille prive di iride e di un nero intenso, di per sé sarebbero bastate a classificarlo come non umano, ma le differenze non si limitavano a questi piccoli ed insignificanti particolari...

    Il suo corpo, viso e testa comprese, erano glabri, non un pelo lo ricopriva, la sua pelle era formata da piccole scaglie ossee che lo rendevano immune a quasi ogni tipo di attacco, meccanico o chimico, le sue ossa erano formate da una materia simile all’alluminio, ma infinitamente più resistenti, non si deterioravano e non si spezzavano, leggerissime, permettevano al suo proprietario balzi non indifferenti e, in un eventuale inseguimento a terra, non pesando quasi sulla muscolatura, evitavano l’affaticamento respiratorio, donandogli una resistenza alla corsa pressoché infinita. Il suo sangue era due volte più fluido di quello umano, il che permetteva una circolazione dello stesso più rapida e un’ossigenazione del cervello quasi tripla rispetto ad un qualsiasi uomo, dandogli una capacità di calcolo, di analisi superiori e, in generale, un’intelligenza molto più acuta e pronta.

    La sua forza e la sua resistenza, una volta scatenate, erano spaventose e, fino ad ora, incontrastate, ma la sua figura non ostentava tale potere... era alto e di bell’aspetto, ma non era così possente nelle forme come ci si sarebbe aspettati da un essere simile. Longilineo, quasi femmineo, a prima vista non incuteva esagerato timore e questo era un vantaggio che gli permetteva di avvicinarsi ai villaggi o ai forti che li difendevano, quasi indisturbato. Le vesti che indossava, inoltre, nascondevano il suo armamento e il suo vero aspetto, conferendogli le sembianze di un viandante sperduto, ma la sua cavalcatura tradiva in parte, quest’immagine inoffensiva...

    Cavalcava una bestia da guerra dal manto bronzeo, manto che a stento conteneva una moltitudine di nervi e muscoli pronti a gonfiarsi nella corsa in ogni istante!

    Non era un cavallo, sembrava più un ibrido, un incrocio tra un felino e un rettile. Le zampe enormi erano munite di polpastrelli e dita indipendenti dai micidiali artigli, era privo di coda e di peli in genere, come il suo cavaliere, i quarti posteriori erano sovradimensionati rispetto a quelli anteriori, cosa che permetteva all’animale salti e scatti poderosi. La schiena, leggermente inarcata e declinante verso il basso, agevolava una corsa rapida e potente, il busto largo e massiccio era ricoperto da una pelle molto spessa e coriacea, resistente a colpi d’arma da taglio e a proiettili di piccolo calibro, era inoltre utile nelle cariche in battaglia. La testa, lievemente schiacciata sulla sommità, poggiava su un collo poderoso, del tutto simile a quello di un enorme cavallo da guerra, ed era dominata da un rostro osseo di medie dimensioni che divideva due piccoli occhi di un nero profondo, capaci, come quelli dei felini, di vedere oltre la notte, nel buio più pesto.

    Baldor era il nome della belva, il suo padrone la chiamava tramite impulso mentale e comunque nessun altro avrebbe potuto cavalcarla...

    Ora entrambi si trovavano su una collina verde sotto una pioggia battente e si preparavano ad affrontare l’ennesima caccia... sotto di loro anche i piccoli ma coraggiosi esseri umani si stavano preparando allo scontro, ben sapendo chi avevano di fronte!

    Lo conoscevano, le voci giravano lente su quel mondo devastato dalla follia degli uomini, ma non abbastanza da riferire che un individuo, un cavaliere solitario, dava la caccia agli esseri umani di ogni razza, credo o religione, quelle voci dicevano che, ovunque apparisse, la morte lo seguisse da vicino...

    Lo credevano lontano, a Sud, pensavano di essere al sicuro in quella valle, ma infine era giunto anche lì... l’oscuro viandante era infine arrivato!

    Capitolo 1

    Thomas osservava dagli spalti la nera figura che, in sella ad una stranissima creatura, avanzava scendendo lentamente dalla collina... la pioggia cadeva copiosa e il ragazzo non riusciva a scorgere molti particolari, notava però la mole, la forza che le due figure emanavano e aveva paura, ma allo stesso tempo ne era affascinato.

    Era così rapito dall’immagine oscura che minacciava le loro vite da non notare l’arrivo di Sacha. «Ehi Tommy cosa succede?», Sacha era il suo più caro amico, condivideva gli alloggi con lui, andavano a donne insieme, si addestravano insieme e facevano il turno di guardia sempre insieme per potersi coprire quando dormivano visto che Clark, il capo posto, faceva controlli continui per mantenere l’efficienza, o almeno così farneticava di tanto in tanto tra una bevuta e l’altra. «Dio Sacha, mi hai spaventato! Allerta gli armati, ci stanno attaccando e dobbiamo almeno provare a combattere... Va e fai più in fretta che puoi!» Avanzava sotto la pioggia... era piacevole l’acqua sulla pelle, scorreva velocemente sulle sue vesti bagnando il suo destriero, amico fedele e unico compagno. Era stato creato per quello scopo, la razza umana aveva fatto il suo tempo, aveva distrutto gran parte di quello che era un paradiso inquinando e cementando il novanta per cento delle terre emerse, sfruttando tutto ciò che avrebbe dovuto proteggere e preservare. Per questo l’oscuro viandante era lì, per mondare la Terra da quella presenza dannosa, dai parassiti che tornavano per distruggere, cambiare, violentare un pianeta nato per generare vita in tutte le sue forme e sfaccettature, che doveva vivere libero, che doveva riprendersi da tutto il male che gli era stato fatto. Per farlo aveva bisogno di tempo... molto tempo e gli umani erano un ostacolo, dovevano estinguersi e lui era lì per quello... il suo unico scopo. Era stato creato da una stirpe superiore, alieni di mondi lontani che avevano inseminato un sasso stellare creando un mondo bellissimo che di tanto in tanto visitavano... questi esseri da prima fieri degli uomini, dopo due millenni, intuita la minaccia nascosta nei loro animi e assistendo impotenti alla rovina della Terra, cercarono di porre rimedio ai loro errori, incrociando varie razze aliene con il genoma umano, creando così la razza dei cacciatori. Li disseminarono sul pianeta con lo scopo di sterminare gli uomini, ma la terza guerra mondiale decimò questa razza di predatori e pochi di loro riuscirono a superare quegli anni. Si dispersero ancora di più e, per quanto gli fosse dato sapere, lui era l’ultimo. Baldor era l’unico che lui amasse. Lo aveva trovato in una palude, seguendo le tracce di un gruppo di uomini. Il suo unico e gigantesco genitore lo attaccò temendo per il suo piccolo e dopo una strenua lotta con quella che sembrava una femmina di rettile, ebbe la meglio, ma la vista del fagotto abbaiante sotto la carcassa della madre lo mosse a compassione. Prese con sé il cucciolo e lo crebbe come un figlio, addestrandolo alla caccia, rendendolo forte, veloce, temibile, poi lo condusse nella palude dove lo raccolse piccolo e indifeso e lo abbandonò scomparendo tra la vegetazione. Una notte si accampò in un gruppo di rovine all’interno di un’antica città conosciuta un tempo con il nome di Hong Kong, accese un piccolo fuoco e si assopì, venne destato da piccoli fruscii e sibili, messo in allarme preparò un’esca con alcuni stracci e si nascose nell’oscurità... Baldor comparve alle sue spalle, lentamente gli si avvicinò e, allargando le zampe anteriori, lo inchiodò contro un muro, osservandolo in attesa. Da quel momento i due furono inseparabili, Baldor, seppure libero, scelse di vivere, cacciare e combattere al suo fianco. Insieme divennero formidabili, nessun’arma o macchina poteva tenergli testa, la caccia era la loro unica vocazione, ragione di vita. Erano entrambi longevi, Baldor aveva passato le trecento primavere ormai e non sembrava invecchiare, quanto a lui non conosceva la fatica e quando la terza guerra esplose lui era già a caccia.

    Sacha non aveva mai visto Thomas così spaventato, non fece domande inutili, se gli ordinavano qualcosa con quel tono non doveva perdere tempo. Scese a capofitto la scala di legno che dava alla sommità della palizzata e si diresse verso le case che fungevano da caserma.

    Chiamò a gran voce, ma non ricevette risposta, disperato corse di porta in porta, dimentico del raccolto... le piogge avevano preso alla sprovvista tutti nella valle ed ora si cercava di salvare il salvabile dalle coltivazioni, ecco perché, ad eccezione di Thomas e Sacha, il villaggio era vuoto. Corse oltre le case e si arrampicò sulla cima della torre di guardia, provvista di rudimentali campane e prese a percuotere il metallo arrugginito con un pesante bastone.

    Un allarme, un suono arcaico, antico risuonava nell’aria, chiamava all’adunata gli uomini armati... forse, dopo tutto, avrebbero posto una qualche resistenza e la cosa lo esaltava, un brivido salì lungo la sua schiena, in bocca il sapore metallico della pioggia, un luccichìo folle negli occhi, il cacciatore attaccò.

    Il suono arrivò anche nei campi di granturco, alle piantagioni di legumi e canna da zucchero, molte teste si sollevarono dalle ceste del raccolto, ci volle un po’ perché tutti capissero cosa stava succedendo stesse accadendo, ma poi finalmente si riscossero e, imbracciate le ceste colme, risalirono il fianco della collina. Arrivati alle caserme gli uomini si armarono e, correndo verso le palizzate, sbraitarono ordini ai sottoposti cercando con lo sguardo Omarik, il loro capo e comandante.

    Omarik era un bestione pelato con la pelle solcata da mille cicatrici dovute al vaiolo, una folta barba perennemente ispida e il caratteraccio tipico di chi è abituato a non essere contraddetto. Quasi sempre ubriaco, era però un ottimo capo e un formidabile bevitore. Ora nella calca e nella confusione che quello scampanìo furibondo aveva provocato nel villaggio, non lo si vedeva da nessuna parte. Era convinzione comune che l’allarme fosse dovuto all’avvistamento di qualche banda di predoni che aveva deciso di saccheggiare le loro case, nessuno immaginava ciò che realmente sarebbe uscito dalla pioggia.

    Baldor percorse i circa seicento metri che li separavano dalla palizzata in un attimo, schiumando sangue dalle fauci ruggì quando il suo corpo gigantesco colpì quello che sarebbe dovuto essere un portone fortificato, la struttura esplose, sbriciolandosi come argilla, schegge di legno volarono ovunque investendo i primi malcapitati, armati alla meglio e ancora confusi, facendo molti feriti, alcuni gravi. Con un balzo soprannaturale il cacciatore si staccò dalla sella e superò la palizzata volando nell’aria come un immenso uccello nero, con le sue daghe ricurve colpì due uomini che avevano appena raggiunto le loro postazioni di difesa. Uno riuscì a sfuggirgli lanciandosi nel vuoto appena dopo che Bardor ebbe sfondato il portale, non si curò della sorte di quell’uomo, ci avrebbe pensato dopo. Ora mirava ad un gruppo che si era radunato nella piazza d’armi, davanti alle abitazioni. Baldor, esaurito lo slancio iniziale, stava ringhiando la sua rabbia, accerchiato dal manipolo che, con aste e bastoni, lo teneva a bada.

    Il suo amico era ferito in maniera lieve alla testa, tuttavia il sangue che sgorgava dal taglio gli colava parzialmente sugli occhi, impedendogli di vedere chiaramente, così temporeggiava... aveva bisogno del suo cavaliere.

    Una volta al suolo si disfece delle vesti pesanti che lo drappeggiavano esponendo il corpo nudo alla vista e, mentre si avvicinava a Baldor, abbatteva chiunque gli si parasse davanti.

    Sembrava danzare e le sue armi, quasi invisibili per la maestria del loro padrone, sparivano nei corpi dei malcapitati e ormai sconfitti difensori. Aveva quasi raggiunto il punto in cui Baldor veniva tenuto in scacco, quando apparve Omarik...

    Il gigante umano gli si parò davanti improvvisamente e riuscì a sfiorarlo con la sua immensa scure, gli fece perdere l’equilibrio e quasi lo atterrò. Gli fu addosso con un balzo poderoso ma, riscossosi dalla sorpresa, il cacciatore pianto i piedi corazzati nell’addome del colosso e lo fece roteare nell’aria. Omarik atterrò al suolo con fragore e venne trafitto con incredibile velocità ad una coscia. La daga passò a pochi centimetri dall’arteria femorale e scivolando sull’osso trapassò la gamba restando incastrata nelle carni dell’uomo. Con le vene piene di adrenalina e alcol Omarik non sentiva dolore, nemmeno si era accorto dell’arma del suo avversario che usciva dalla sua gamba. Si rimise in piedi ed avanzò incalzando il cacciatore, ma questi era più rapido e letale di lui, era nato per quello e innumerevoli volte aveva tolto la vita in battaglia.

    Omarik caricò urlando, le braccia irsute sollevate sulla testa brandivano l’immane ascia, ma il colpo non giunse a destinazione, tracciando un ampio arco l’arma si conficcò nella terra bagnata dalla pioggia, mentre il cacciatore evitando facilmente il colpo, gli recise le mani e, recuperata la daga dalla coscia del gigante, gli spiccò la testa dal tronco.

    Chi scorse la scena fuggì dal villaggio in preda alla disperazione, ma quelli che accerchiavano Baldor non videro cadere il loro capo e non videro la morte che li raggiunse silenziosa e rapida...

    Capitolo 2

    Thomas era riuscito a saltare appena in tempo, quell’essere aveva superato la palizzata con un unico balzo, mentre la sua cavalcatura sfondava il portale armato semplicemente caricandolo come un ariete. Aveva estratto due spade nere in volo e staccato la testa dei suoi compagni con un unico identico movimento delle braccia per poi atterrare oltre, cominciando a correre non appena toccato il suolo. Mentre, però, correva velocemente verso la sua bestia abbattendo i difensori con facilità, si era imbattuto in Omarik che, completamente ubriaco, lo aveva impegnato in combattimento.

    Il gigante sembrava tenergli testa distraendolo, così Thomas colse l’occasione e corse via dal villaggio, dirigendosi verso i campi, sperando di incontrare il suo amico Sacha che non aveva più visto dopo l’allarme. Forse stava cercando un rifugio da qualche parte proprio come lui. Corse tra le case e cadde non vedendo alcune ceste di cibo che nel caos dell’attacco erano rovinosamente cadute al suolo, abbandonate. Ruzzolò varie volte prima di fermarsi poi, coperto di fango, raggiunse le colture e si addentrò fra esse, sparendo alla vista. Mentre si allontanava dalla carneficina si chiese come fosse stato possibile... lo aveva avvistato poco prima sotto la pioggia, era lontano, ai piedi della collina prospiciente le mura, sembrava che avessero tempo per organizzare una difesa, ne era stato sicuro, aveva impartito l’ordine a Sacha, ma poi, proprio mentre l’allarme risuonava nell’aria, in un attimo, era piombato loro addosso!

    Era finita. Anche quel villaggio era stato distrutto, i suoi abitanti uccisi o dispersi, Baldor era salvo. Aveva vinto ancora, ma quell’uomo, quel gigante orribile gli aveva tenuto testa, la paura non lo aveva afferrato impedendogli di lottare, gli aveva tenuto testa valorosamente e anche trafitto ad una gamba, lo aveva caricato con ferocia senza curarsi delle ferite. Il drappello che intrappolava Baldor poi non tremava di fronte all’ira della bestia, anzi la incalzava da presso cercando di vibrarle il colpo ferale.

    Qualcosa non andava come sarebbe dovuto andare, era abituato al terrore che la sua figura ammantata di nero scatenava nei cuori degli umani ed era rimasto stupito nel vedersi caricare frontalmente da un uomo, seppur possente. Lo aveva abbattuto certo, agilmente, ma qualcosa stava cambiando negli uomini, lo avvertiva da qualche tempo ormai. Forse per questo ne aveva lasciati scappare alcuni, per trasmettere l’orrore del suo arrivo ai villaggi vicini, per ristabilire l’antico timore...

    Sacha si aggirava tra le rovine di quello che un tempo era il suo bel villaggio, ovunque le membra dei suoi amici testimoniavano l’epilogo della battaglia, l’oscuro viandante e la sua bestia avevano sterminato quasi tutti gli uomini e messo in fuga donne e bambini, anche Omarik, il collerico e possente Omarik, era caduto sotto le lame nere, la sua testa era rotolata poco lontano dal corpo inginocchiato nel fango privo anche delle mani, che ancora stringevano l’ascia gigantesca.

    Lui, dal canto suo, era rimasto nella torre di guardia, nascosto alla vista e quando il portale era esploso le schegge erano volate ovunque colpendo anche lui al viso, fortunatamente aveva avuto la prontezza di spirito di tenere gli occhi chiusi, altrimenti ora si sarebbe aggirato cieco e solo. Cercava Thomas tra i cadaveri ormai da qualche tempo quando arrivarono i corvi e, come la nera figura che li aveva attaccati e massacrati, superarono volando la palizzata e si avventarono sui corpi martoriati ed esangui. Sacha scese lungo il lieve declivio che degradava verso i campi e la fattoria retrostante il villaggio e si addentrò tra le colture, andando verso nord, sperando di rivedere il suo caro amico Thomas.

    Capitolo 3

    Faceva caldo in quella che un tempo era Mosca. L’antica capitale della Russia, riunificata prima della guerra, era stata colpita ripetutamente dai bombardamenti, quasi niente era rimasto in piedi e poi settecento anni d’inverno nucleare e la furia degli elementi avevano fatto il resto. La natura si era riappropriata di quelle terre, una natura un po’ deviata dalle radiazioni certo, ma pur sempre viva e gli uomini erano tornati in superficie e avevano ripreso a colonizzare, ma in modo diverso. Nei lunghi secoli passati sottoterra l’umanità aveva cercato di preservare scienza, tecnologia, arte e tutto ciò che nel lontano passato separava gli uomini dagli animali ma, ben presto, dispersi nelle vaste caverne, lontani migliaia di chilometri le une dalle altre, le piccole comunità di superstiti, impossibilitate a ricevere o inoltrare ogni tipo di comunicazione, avevano finito per ricreare una sorta di medioevo sotterraneo e col tempo si erano rese autosufficienti, isolandosi sempre più nelle profondità della Terra. Tutti lavoravano, ogni individuo era necessario per la sopravvivenza della comunità, ma alcuni occupavano posti di comando e mantenevano la memoria del passato, quello che ne rimaneva, con la speranza di tornare un giorno a vedere la luce del sole, per rimirare la magnificenza e le opere degli antichi uomini. Negli anni a venire la storia divenne leggenda, ciò che un tempo si sapeva essere reale assunse le sembianze di racconti della sera, storie fantastiche della superficie... l’operato degli antenati venne mitizzato e l’umanità tornò ad essere più semplice, lontana dagli esseri arroganti che nella loro megalomania avevano finito per distruggere il pianeta. Così, quando finalmente tornarono in superficie, gli uomini non trovarono il mondo ordinato e pulito che veniva narrato loro nei canti, ma un luogo selvaggio e alieno, sconvolto dalla guerra del passato. Ripresero a costruire per ripararsi dalle intemperie in maniera rudimentale ed arcaica, a coltivare la terra. Costruirono fattorie provando ad allevare gli strani animali che la contaminazione nucleare aveva loro lasciato e si riappropriarono della loro antica dimora, la Terra.

    Passarono molti anni, anni in cui le comunità tornarono ad organizzarsi in nuclei civilizzati, ma col tempo nella mente degli uomini il bisogno di cibo e la necessità di sopravvivere lasciarono il posto alla curiosità della scoperta, al bisogno di sapere, alla voglia di esplorare i confini di quel nuovo mondo.

    Si organizzarono spedizioni, si tracciarono nuovi confini, vari insediamenti arrivarono ad un contatto e si organizzarono nei commerci, scambiarono conoscenze e crearono società più grandi, più avanzate.

    Gli esploratori riferirono cose incredibili! Per quanto era dato vedere a quei tempi, la morfologia della Terra era stata radicalmente cambiata dalla guerra, alcune cime un tempo alte e vetuste erano franate, spianate dalle esplosioni e dai terremoti. Nuovi altipiani erano sorti nei vari deserti e in territori vasti della Cina e della Mongolia, altopiani in cui erano fiorite foreste di conifere e sequoie. Gli oceani e i mari in generale si erano sollevati di parecchi metri, il Mediterraneo era così diventato un unico grande mare interno che aveva invaso due terzi dell’Europa, lasciando affiorare solo la catena delle Alpi e parte della Spagna. Il paese iberico, complice lo schiacciamento delle masse tettoniche causate da un immenso terremoto sottomarino scatenato dall’inabissamento delle Americhe e dell’Australia, aveva finito per scontrarsi con l’Africa chiudendo di fatto lo stretto di Gibilterra, creando un’immensa conca. L’oceano Atlantico non esisteva più senza l’ostacolo del continente americano, il Pacifico aveva inglobato le sue acque estendendo la sua superficie ai quattro quarti del pianeta, modificando il clima e creando nuove coste. Solo le cime delle Ande, un tempo spina dorsale del continente americano, erano scampate all’inabissamento e formavano ora un piccolo arcipelago di isolotti nell’unico grande mare. Il continente australiano, essendo prevalentemente un’unica grande pianura, scomparve negli abissi senza lasciare traccia.

    I ghiacci del Polo Sud si sciolsero quasi del tutto a differenza di quelli del Polo Nord che aumentarono del settantacinque per cento a causa dello spostamento dell’asse

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