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Il Duca di Altatorre
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E-book211 pagine2 ore

Il Duca di Altatorre

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Info su questo ebook

Un’anziana nobildonna muore avvelenata durante la notte nel palazzo gentilizio di un arroccato paesino umbro, dopo aver ospitato per qualche giorno l’affezionato nipote, tornato a Roma il mattino precedente.

Quest’ultimo, subito avvertito, arriva di nuovo in paese per parlare con i Carabinieri in merito ai molti dubbi sull’accaduto:

Un “incidente”?  L’involontaria assunzione di una sostanza tossica per sciocca distrazione? Un suicidio? 
Ipotesi improbabili, date le condizioni della signora, energica e vivace nel pieno delle sue facoltà.

Appare poi del tutto incredibile l’eventuale omicidio di un’aristocratica dama stimata e generalmente benvoluta.

Eppure… non mancano possibili moventi:
Interessi ereditari, sotterfugi “politici”, antichi contrasti atavici, segreti di famiglia su leggendari tesori nascosti.

I Carabinieri indagano, senza riuscire a incastrare nessun possibile colpevole, finché, in modo inaspettato…
LinguaItaliano
Data di uscita28 lug 2020
ISBN9788831677066
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    Anteprima del libro

    Il Duca di Altatorre - Riccardo de Sanctis

    633/1941.

    1

    Il noto avvocato Serrani, appena tornato a casa nel lussuoso attico sull’Aventino, entrò nel terrazzo panoramico, ammirando il tramonto rosato che sfiorava i tetti di Roma. Si adagiò nella poltrona preferita e gridò:

    – Guido! Il mio caffè!

    Il maggiordomo, affacciato sulla soglia, rispose con prontezza: – Subito, avvocato. Il tempo di scaldare la macchina.

    – Allora sbrigati – replicò con mala grazia la voce roca del padrone di casa.

    Claudio Serrani si rendeva conto del modo sempre scortese e arrogante rivolto a Guido, con una aggressività del tutto in contrasto con la naturale amabilità sempre rivolta a qualunque interlocutore.

    L’avvocato rifletteva spesso sull’opportunità di mantenere il maggiordomo in servizio, o di licenziarlo. Cercava di capire il motivo della propria insoddisfazione. L’uomo era bravo, certo, ma fin troppo. Alto, elegante e austero cinquantenne, con i capelli grigi folti e ondulati, sembrava piuttosto un solenne gentiluomo, esperto in tutti gli aspetti del bon ton casalingo, anche oltre le cognizioni dello stesso padrone di casa.

    Una tale presenza permetteva a Serrani di godere di notevole considerazione da parte degli ospiti, ammirati per il servizio offerto da una persona così distinta, ma… lui si sentiva a disagio, quasi in soggezione di fronte a un dipendente che sembrava però avesse sempre un’aria di sufficienza, anche quando era intento a servirlo con apparente ossequio.

    Ecco – si disse – è questo che mi dà la voglia insopprimibile di trattarlo male.

    Agli inizi di agosto, aveva concordato con lui un periodo di ferie per un intero mese, ed era stato lieto di privarsi del supporto dell’ingombrante collaboratore per un buon periodo di tempo. Però… mentre era rimasto in casa dopo le solite brevi vacanze al mare, aveva sentito una certa nostalgia della situazione confortevole cui l’aveva abituato il perfetto servizio di Guido. Aveva anche avvertito quanto fosse fastidioso impartire e controllare le disposizioni per la cuoca bisbetica e la rustica donna a ore delle pulizie, mentre il bravo maggiordomo sembrava saper gestire quel difficile rapporto servile con cortesia ma con un’innata autorevolezza riconosciuta e accettata senza riserve.

    Verso la fine del mese, l’avvocato si rese conto che entro pochi giorni lui sarebbe tornato, e bisognava prendere una decisione sul futuro della collaborazione con l’altezzoso Guido.

    Guido, a sua volta, era quasi pentito di aver pattuito un così lungo periodo di ferie e attendeva quasi con piacere l’imminente ripresa del suo impiego. Non disponendo di un alloggio in cui rilassarsi in pace, non aveva avuto alcun interesse a girovagare in abusati luoghi turistici, o visitare diverse città d’arte italiane o straniere. Le vacanze turistiche, con viaggi dispendiosi in luoghi esclusivi e in alberghi di lusso, avevano riempito i suoi anni giovanili, e non ne provava alcun piacere nostalgico.

    Stava passando il periodo feriale in una modesta pensione a Roma, dedicandosi a lunghe passeggiate nelle vie del centro di una città gradevolmente quasi deserta, e qualche visita al buon Augusto, l’anziano portiere del palazzo in cui Guido aveva vissuto a lungo. Aveva mantenuto un cordiale rapporto con il simpatico custode che, ai vecchi tempi, lo aveva divertito spesso con osservazioni di popolare arguzia romana. Ogni tanto, gli faceva quindi piacere andare a trovarlo, intrattenendosi per quattro chiacchiere.

    Augusto gli serviva anche da informale fermoposta, conservando e consegnando di tanto in tanto l’ormai rara corrispondenza che ancora arrivava al vecchio indirizzo, senza che nessuno avesse mai avuto notizia dell’avvenuto trasloco.

    Guido si stava ormai annoiando quando, proprio in occasione di una sua visita ad Augusto, poté rallegrarsi nel ricevere la lettera della sua unica zia, che non vedeva da molto tempo e che, in modo quasi perentorio, lo invitava a raggiungerla. Gli chiedeva anche di fermarsi per qualche giorno nel piccolo paese di Rualdo Montano, arrampicato su una rigogliosa collina umbra, dove lei risiedeva.

    Guido si emozionò, con qualche rimorso per aver trascurato la zia carissima per tanto tempo, e decise di mettersi in viaggio al più presto.

    Avrebbe passato con piacere l’ultimo periodo di ferie nei luoghi della sua prima giovinezza, risvegliando piacevoli ricordi.

    In quello stesso pomeriggio, si dedicò a pulire e rendere presentabile la vecchia BMW verde inglese ancora posseduta, poco usata negli ultimi tempi, e ferma da tempo in un isolato parcheggio.

    Partì quindi al mattino successivo dopo aver stentato a lungo per mettere in moto la vetusta automobile.

    2

    Dopo il viaggio, Guido aveva lasciato la macchina in fondo al paese, e aveva raggiunto a piedi il palazzo gentilizio sulla piccola piazza in cima all’abitato.

    Era l’ultimo residuo - pensò - dell’antico, immenso patrimonio dei duchi Petris di Altatorre. La facciata era però diversa e meno imponente da come lui la ricordava, tanti anni prima. L’intonaco appariva rovinato, con ampi spazi in cui s'intravedeva la grezza muratura sottostante, mentre le finestre, con la vernice scrostata, mostravano i segni di un forte degrado. Lo stemma ducale in pietra sopra il portone era poi tanto corroso da essere quasi indecifrabile, e sembrava confermare il travolgente, definitivo declino della famiglia.

    Il portone era aperto e Guido era entrato nell’atrio con rispettosa cautela, quando vide una ragazza che gli stava venendo incontro in affanno: − Eccomi Guido. Oh… scusate. Ora devo chiamarvi Don Guido. Venite in sala grande: Donna Ippolita scenderà subito.

    Lui la guardò con sorpresa: − Ma tu sei… sei Nicoletta, detta Niky! La figlia di Assunta, che era a servizio da zia Ippolita. Sei molto diversa da come ti ricordavo: una ragazzina cicciottella che veniva spesso a trovare la mamma.

    La ragazza assentì: − Ti… Vi ricordate?

    − Sì, certo, Niky. Ma dammi del tu, come facevi una volta, quando anch’io ero… beh, diciamo più giovane e ti facevo ballare sulle ginocchia. E quanto ti divertiva quel gioco! Lo ricordi anche tu, vero?

    − Lei arrossì: Certo, certo… Don Guido. Un bellissimo ricordo. Grazie, ma ora… non riesco a darvi del tu. Vi devo rispetto, e poi Donna Ippolita me lo ha comandato con severità. Anzi, non chiamatemi Niky. La signora non vuole perché dice che certi nomignoli sono un'abitudine americana brutta e volgare.

    Guido sorrise: − Va bene Nicoletta. Ora devo incontrare la terribile zia Ippolita. Poi vedremo; dille che l’aspetto.

    La ragazza si soffermò un attimo a osservarlo. Lui conservava il fisico snello e i lineamenti raffinati, dalla fronte ampia, il fiero naso sottile e lo sguardo intelligente, ma presentava ora un’aria stanca e malinconica, che lo faceva apparire diverso dal giovanotto brillante dal sorriso affabile che lei ricordava, ma che forse… gli attribuiva un aspetto anche più interessante dell’avvenenza giovanile.

    Si scosse subito, fece una specie di breve inchino, e corse via.

    Guido attraversò il cortile contornato da uno snello loggiato, ed entrò nella sala grande dalla porta che lui ricordava bene, accanto allo scalone in pietra che portava ai piani superiori.

    Si trattava di un ampio salone di rappresentanza al piano terra del palazzo in cui viveva l’anziana zia, ormai in completa solitudine. Tranne la compagnia della giovane Nicoletta, anche lei quasi figlioccia, come la zia era stata da sempre abituata a trattare le giovanissime figlie di qualche contadino povero che le venivano affidate, un po’ a servizio e un po’ per garantir loro sostegno e protezione. Alla morte di Assunta, evidentemente la tradizione era continuata con la figlia Nicoletta.

    Gli tornarono alla mente immagini sfocate dell’infanzia, e ricordi più vividi dell’adolescenza, quando era mal volentieri ospite per qualche settimana di obbligatoria vacanza dopo la chiusura dell’anno scolastico.

    il ragazzo è sciupato diceva sempre la zia con il consueto affetto burbero e un po’ altezzoso. Ora me ne occupo io.

    E giù una dieta ferrea, che iniziava al mattino con le uova appena rilasciate dalle galline di Assunta nell’orto dietro il palazzo, curato dal taciturno marito Nunzio, nella totale indifferenza della padrona di casa.

    Guido aveva continuato a visitare la zia per alcuni anni, per periodi sempre più brevi, fino a che, conquistato dalle tante distrazioni della vita, aveva colpevolmente trascurato l’anziana, affezionata parente.

    Se ne rammaricò e si lasciò trasportare da quei ricordi con nostalgia.

    Poi si scosse e, quasi intimidito, rivolse l’attenzione al grande locale in cui si trovava, dove si avvertiva un odore persistente, anche se non del tutto sgradevole, come di chiuso, di polveroso, di antico.

    In fondo alla sala, erano ancora ben disposti i vecchi divani dalle cornici dorate ma dalla tappezzeria consunta, sormontati da un grande quadro. Questo era ora ancor più annerito di quanto Guido ricordasse, tanto da non lasciarne distinguere i soggetti in un’oscura boscaglia.

    Altri importanti arredi, presenti nella sala, apparivano trascurati e sviliti, mostrando anch’essi l’inesorabile decadenza del palazzo, un tempo notevole e prestigioso.

    Guido si chiese se anche la zia Ippolita, un tempo risoluta e vivace, denunciasse i segni dei tanti anni trascorsi, e l’attese con curiosità e trepidazione.

    3

    − Buon giorno zia, come stai? Ti trovo bene.

    − Come vuoi che stia, ragazzo mio. Non hai bisogno di essere ipocrita e non puoi trovarmi bene. Ho quasi ottant’anni e a questa età si sta male, dentro di noi e anche esteriormente. So di sembrarti vecchia e orrenda.

    Donna Ippolita appariva però ancora vigorosa, con la figura ben eretta, elegante con l’abito scuro accollato e ravvivato da un filo di perle, il trucco leggero e i capelli bianchi, tendenti all’azzurro, raccolti in una sobria acconciatura.

    −  Ma il mio aspetto non ha alcun interesse – continuò lei. − Parliamo invece di cose serie. Ho dovuto convocarti, caro, giacché da tempo non sei venuto a trovarmi, limitandoti agli auguri nelle feste comandate, e ti ringrazio di aver accettato di passare qualche giorno da me, sacrificando un po’ delle tue ferie.

    La zia lo guardò con studiata severità: − E a proposito di ferie dal lavoro... È vera la notizia della tua attività servile in casa di un borghese? Non voglio crederci, Guidubaldo.

    Guido sorrise. Nessuno lo aveva più chiamato con il nome per intero, quasi mai usato al posto del diminutivo famigliare, diventato poi consueto anche nella vita sociale.

    Con ogni probabilità la zia lo aveva usato proprio per evidenziare quel nome antico che, unito al cognome aristocratico, doveva ricordare al nipote le superbe origini famigliari che le sembrava lui stesse oltraggiando, prestandosi a un lavoro volgare, indegno di lui.

    Guido guardò in alto e si chiuse in un lungo silenzio.

    − Scusa zia – disse infine, notandone la palese impazienza. – Per risponderti, devo prima raccontarti un episodio che riguarda mio padre: il tuo amato fratello che non hai più frequentato da molti, forse troppi anni prima che lui morisse.

    − Il mio amato fratello, che ha preferito non frequentarmi negli ultimi anni, accusandomi di non aver ceduto a certe sue legittime richieste di denaro… ma ora non ha più importanza e sia pace alla sua anima. Quale episodio?

    − Come ben sai, papà è vissuto alla grande, anche sperperando più del necessario, e ha fatto vivere nel lusso anche me e la povera mamma, finché… finché ha avuto qualcosa da vendere dei tanti beni ereditati. Ma è ovvio che questi, pur cospicui, alla lunga, finiscono.

    − Questo lo so fin troppo bene, caro, ma continua.

    − Verso la fine, zia, l’ultimo immobile e l’ultimo lotto di terra, proveniente dal patrimonio dei Petris d’Altatorre era stato alienato, ed era iniziata la vendita dei gioielli di famiglia: argenteria, quadri antichi, ecc., che sembravano ancora eccedenti, ma che erano in esaurimento. Allora un industriale amico di papà, consapevole della nostra situazione non più florida e  in via di rapido peggioramento, gli offrì di andare a lavorare nella sua azienda.

    − Uhm… questo non lo sapevo.

    − E non sai quale fu la sua risposta! La ricordo ancora. I Petris d’Altatorre… esclamò papà drizzando il busto i servi li hanno sempre tenuti, e non sono mai stati servi di nessuno.

    La zia lo guardava senza interromperlo e Guido tacque a lungo. Poi riprese guardando il soffitto con aria assorta: – Dopo che l’amico, piuttosto offeso, era andato via, papà mi prese in disparte e sentenziò: Ricorda Guido: nella vita o si è padroni o servi. E me lo ha ripetuto in punto di morte.

    − Era solo una forzatura teatrale, ragazzo mio!  Tanto per ostentare uno strano tipo di orgoglio che è però del tutto errato nella vita reale.

    − Sì, forse. Ma quell’orgoglio mi è stato trasmesso, zia. Da mio padre, dai nostri sdegnosi antenati… non so, ma ormai fa parte di me. E poiché non sono più padrone di niente… non ho cercato condizioni intermedie, non ho cercato sotterfugi borghesi tentando di intrufolarmi da impiegato in un ufficio qualsiasi, dietro raccomandazione di qualche amico influente. Il vero orgoglio, eccessivo, paradossale, se vuoi, mi ha ricordato che se non sono padrone, posso soltanto essere servo. E tale ho accettato di essere.

    − Ma che dici? Non ha importanza che non esista più il ducato di Altatorre e tu non abbia diritto al titolo di Duca, che spetta in linea diretta al tuo secondo cugino Alfonso, trasferito in America − la zia pronunciò il nome del continente con una smorfia di disprezzo – per non so quali rozzi affari. Però, il nostro emblema lo portiamo nel cognome, che almeno questo privilegio ci è stato concesso dalla cosiddetta Repubblica, e ci ricorda l’appartenenza a una stirpe di antica e altissima nobiltà.

    − Sì zia, ne sono consapevole, e avrei anche potuto farmi chiamare Duca, dato che le rigide norme araldiche non hanno ormai alcun valore legale, ma mi è sempre sembrato superfluo e ampolloso.

    Ippolita sorrise: − Almeno in questo hai ragione. In effetti… anch’io ho proibito a tutti di chiamarmi Duchessa.

    − Bene! Dunque, siamo orgogliosi delle nostre origini aristocratiche, ma, come è stato ben detto, "il guaio di molti nobili è di non essere nient’altro". Io sono… me stesso, ma almeno faccio qualcosa di utile!

    La zia scosse la testa con aria afflitta, e Guido le si avvicinò con una carezza affettuosa: − Su, zia – disse ridendo. – In fondo, la situazione non è poi male. Almeno ho un posto dove vivere bene, appagando ogni esigenza primaria, e a fine mese ho un discreto stipendio praticamente intatto. D’altronde ho evitato con cura di infangare la reputazione della famiglia. La mia attività è ignota a tutti gli amici insigni e boriosi, che si erano già pian piano distaccati dopo il dissesto della nostra situazione economica, e che ho a mia volta allontanato.

    La zia era ancora rabbuiata, e Guido continuò nel tentativo di sdrammatizzare:− Vedi, zia – disse ridendo – A mio modo,

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