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Buen retiro
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E-book549 pagine7 ore

Buen retiro

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ROMANZO (395 pagine) - NARRATIVA - Mollare tutto per un periodo di riflessione. Ma per il celebre e disilluso fotoreporter è solo l'inizio di un'altra storia. A tinte fosche. In una villa che non sarà un "buen retiro".

Il luogo era quello giusto e la villa sembrava proprio un affare, appena fuori da un piccolo paese, circondata da un vasto giardino e sulle rive di un lago: pareva perfetta per una pausa di riflessione. Un "buen retiro", forse definitivo. Ma per il celebre fotoreporter, disilluso e ferito,  quella villa non sarà un affare né avrà tempo per mettere ordine nel suo grande archivio, e nella sua vita. Sarà l'inizio di un'altra storia, a tinte fosche, costretto, come sarà, tra le briciole di un amore, a giocare una strana partita a scacchi che lo porterà a Torino, a inseguire le note di un violoncello sino a Venezia, a scoprire che quello che sembrava un pescatore di persici è ben altro, ad affidarsi alla rocciosa sicurezza di un gigantesco fabbro, a indagare insieme a un commissario che non si dà per vinto. Sino a vincere quel sottile brivido per un Capodanno che si avvicina e che proprio non si annuncia come la solita festa.

Luca Vido (Milano, 1957) è stato redattore editoriale, fotografo e giornalista freelance. Dal secolo scorso siede nella redazione di un quotidiano milanese. Sta per alzarsi, ma non sa ancora cosa farà.
LinguaItaliano
Data di uscita2 dic 2014
ISBN9788867755875
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    Anteprima del libro

    Buen retiro - Luca Vido

    farà.

    PROLOGO

    Un cartello arancione con una scritta nera. Più in piccolo un nome e un numero di telefono. Un cartello normale.

    Vendesi, nulla di straordinario.

    Rivolgersi, e quindi il nome di un’agenzia e un numero di telefono.

    È attaccato con del filo di ferro a un grande cancello verde, avvolto nel cellophane per difenderlo dalla pioggia. Il sole estivo lo ha fatto un po’ gonfiare. Ma non è logoro, non è appeso lì da molto tempo.Oggi è spruzzato da una sottile pioggia, quasi impalpabile. Minuscole goccioline e all’interno è offuscato, qua e là, da macchie di condensa. Dietro il cartello, e il cancello verde, un sentiero di ghiaia bianca, leggermente scurita dall’acqua. Il sentiero, largo quanto basta per farci passare un’auto, sale dolcemente. Poi scompare tra gli alberi e i cespugli. In fondo si intravede appena una bella costruzione, solida. Una villa.

    Villa Frais.

    Villa Frais è in vendita, nulla di straordinario. Normale ci sia un cartello con scritto vendesi. Ma allora perché l’uomo in bicicletta si ferma, come ogni giorno, lo osserva e sente un brivido? E perché quella donna, che sale a piedi per andare in stazione, si sposta improvvisamente sull’altro lato della strada?

    E perché l’uomo in motorino, che segue quello in bicicletta senza farsi notare, accelera guardando il cartello solo di sbieco? Perché ha un sussulto? Perché nessuno, in paese, si sognerebbe mai di chiamare quel numero di telefono?

    Perché?

    Capitolo 1 - Primi segnali

    1

    Lo osservò scendere lentamente lungo il vialetto di ghiaia bianca. Schiacciò il pulsante del telecomando e il cancello verde si aprì. Il camion dei traslochi lo attraversò, percorse la breve stradina in discesa, fino al lungolago, e sparì.

    È fatta.

    Si voltò e guardò la villa. Era molto grande, e lui era solo. Ebbe la sensazione di aver esagerato. Non pensava a una villa del genere quando era entrato in quell’agenzia immobiliare. Voleva ritirarsi, almeno per un po’. Uscire dalla mischia. E aveva bisogno di un posto tranquillo, fuori dal giro. Non troppo lontano, però. Davvero, ne aveva abbastanza. Ma una villa del genere…

    Pensò che avrebbe dovuto fotografarlo, quel camion: da dietro, mentre attraversava il cancello, un attimo prima che scomparisse. Tutte le tappe importanti della sua vita erano racchiuse in qualche fotogramma. Questo se l’era perso.

    Dovrò riflettere, ma ho tempo.

    Ancora non riusciva a crederci: aveva mollato tutto, o quasi. Se n’era andato dal suo studio, dalla città, dai giornali. Si era portato dietro solo i suoi cinquant’anni e il filo che lo legava a un grande editore che da tempo faceva la corte al suo archivio. Il conto in banca gli aveva permesso tutto questo, era libero. Ora poteva davvero fermarsi, scegliere cosa fare e come farlo.

    Sono libero, finalmente.

    Entrò nella villa, ancora non riusciva a chiamarla casa. Attraversò l’atrio e andò a sedersi su un divano, nel salone. Di nuovo ebbe la sensazione di avere esagerato, di avere acquistato una villa troppo grande. Rivide il funzionario dell’agenzia, mentre apriva le porte e gli mostrava i locali. Gli aveva spiegato che era relativamente nuova, anche se la particolare architettura la faceva sembrare molto più vecchia. Era stata costruita sul finire degli anni Cinquanta da un nobile tedesco che si era trasferito qui

    chissà perché proprio qui?

    forse per il clima, aveva aggiunto il funzionario come se gli avesse letto nel pensiero. Era morto alcuni mesi prima e gli eredi che vivevano a Monaco, parenti alla lontana poiché il nobile non era sposato e non aveva figli, volevano venderla in fretta, mobili compresi. E anche il funzionario pareva avere una gran fretta di fargli vedere la villa e di rientrare in agenzia.

    Un paio di giorni dopo era tornato, con più calma. Si era fatto accompagnare da un amico che aveva una piccola impresa di ristrutturazioni. Il prezzo gli era sembrato troppo basso, temeva che ci fosse un inganno, qualcosa che non andasse. Il funzionario non era venuto: si era scusato dicendo di avere un altro impegno e li aveva fatti accompagnare alla villa da una giovane e nervosa impiegata.

    Avevano osservato minuziosamente muri, soffitti, infissi, impianto elettrico e idraulico. Tutto sembrava in ordine, aveva detto l’amico, solo qualche lavoretto qua e là. Una sciocchezza: con tre milioni se la sarebbe cavata.

    La giovane impiegata, che era rimasta in giardino, li accolse con un sorriso, quando uscirono. Sembrava molto sollevata. Risalirono in macchina e appena furono in agenzia Luigi Vismara firmò.

    Pagò in contanti. Era una condizione, e anche per quello, disse il funzionario distogliendo lo sguardo, il prezzo era basso.

    Anche?

    Erano passate solo tre settimane, ed era già lì.

    Salì al primo piano, in quella che, probabilmente, era stata la camera padronale e che stava per diventare il suo studio-archivio. Era una stanza molto grande, luminosissima. Tre enormi vetrate incorniciavano il lago. La sponda opposta era illuminata da una calda luce di fine settembre. Era bellissimo. Luigi pensò di prendere la macchina e di fissare quel momento. Ma sorrise, si guardò intorno e per un attimo rabbrividì al pensiero di tutti quegli scatoloni da aprire, di quelle migliaia di negativi, diapositive e stampe da catalogare e archiviare. Sarebbe stato un lavoro lungo e qualcosa di molto simile al rivivere la propria vita, e non solo quella professionale. Ma era lì per questo, ora era libero.

    Guardò l’ora, erano le quattro. Avevano fatto in fretta. C’era tempo, prima di cena, anche se aveva già fame. Decise che la prima cosa da fare era telefonare alla donna delle pulizie che gli aveva consigliato l’agenzia. Il telefono era posato per terra, in un angolo. Sollevò il ricevitore per sentire se la linea era già stata attivata, poi compose il numero. Rispose una sgradevole voce registrata che lo informava che non esisteva alcun abbonato con quel numero. Tornò a guardare il suo notes e si accorse che aveva sbagliato il prefisso. Ricompose il numero. Era sorpreso: pensava che si trattasse di una donna del paese. Al terzo squillo rispose una voce femminile.

    – La signora Elga? – chiese. E mentre spiegava chi fosse e come avesse avuto quel numero pensò che doveva avere almeno cinquant’anni.

    Niente avventure, almeno con la cameriera…

    Non ci fu bisogno di spiegarle molto, conosceva già la villa. Era stata al servizio del nobile tedesco, il precedente proprietario.

    – Verrò domattina – disse Elga con una strana inflessione autoritaria, – ci metteremo senz’altro d’accordo su orari e stipendio. Buona giornata – concluse chiudendo la linea senza attendere risposta.

    Luigi rimase col ricevitore in mano, il rumore della linea interrotta nelle orecchie. Il primo impulso fu di richiamarla e dirle che non importava, che andasse al diavolo. Ma non sapeva, almeno per il momento, come trovare un’altra cameriera e non poteva certo, ora che era libero, diventare schiavo delle pulizie e delle mille incombenze domestiche. La grandezza di quella casa lo preoccupava. Decise di rimandare ogni decisione alla mattina seguente, dopo averla conosciuta, e posò la cornetta.

    La stanza era piena di scatoloni. Erano decine, accatastati uno sopra l’altro. Tre pareti erano coperte da una grande libreria componibile che aveva fatto montare nei giorni precedenti. Arrivava sino al soffitto e incorniciava anche la porta: sarebbe stata perfetta per archiviare trent’anni di lavoro. Una vita.

    Davanti alla quarta parete, quasi interamente occupata dalle finestre, un lungo tavolo di legno scuro sul quale era posata una scacchiera. L’aveva trovata in un angolo del salone ma aveva subito deciso che il suo posto sarebbe stato lì, nello studio. I pezzi erano di legno, probabilmente lavorati a mano, e sembravano molto vecchi, antichi, forse. Non era un buon giocatore di scacchi, ma quell’oggetto gli piacque subito. Osservò i trentadue pezzi fronteggiarsi, pronti alla battaglia. Prese un pedone centrale, dalle file dei bianchi, e lo fece avanzare di due passi. Così, senza pensarci.

    Al centro della stanza c’erano cinque scatoloni, allineati. Gli operai li avevano messi proprio dove gli aveva detto, senza posarci sopra niente. Dentro c’erano il suo computer, il video, la stampante e lo scanner. Nel quinto, il più piccolo, un’infinità di cavi, cd rom e vecchi floppy disk. Decise di iniziare a sistemare quelli, per il resto c’era tempo.

    Ho tutto il tempo che voglio.

    Aprì gli scatoloni e cominciò ad allineare i vari componenti sul grande tavolo, dalla parte opposta della scacchiera. Gli ci volle un buona mezz’ora per collegare tutti i cavi, ma era stato previdente: su ognuno aveva scritto un biglietto, fermato con il nastro adesivo, per sapere subito dove andava inserito. Per ultima cosa infilò le spine nella presa della corrente. Accese il computer per essere certo che funzionasse e che durante il trasloco non avesse subito danni.

    Il disco rigido cominciò a gorgogliare e sul video apparve la schermata di caricamento dei programmi. Tutto bene. Aveva fatto un buon lavoro. Collegò il modem e avviò la connessione. Erano alcuni giorni che non guardava la posta e voleva controllare le email. Quando vide che ce n’erano tre, come sempre ebbe un brivido, un misto tra curiosità e inquietudine. La prima era di Frank, un amico che lavorava per un’agenzia americana. Solo due righe: Com’è che non ti si vede più in nessun angolo del mondo? Fatti vivo. E compra un cellulare. La seconda era pubblicità. Aprì la terza mail e il cuore prese a battere violentemente. Una sola riga. Pensò che avessero sbagliato destinatario ma l’intestazione era chiarissima: da fratelli a luigi.vismara@galassia.it. Guardò la firma per esteso nella casella del mittente. Era fratelli@webserver.it.

    Il messaggio era scritto in rosso, e diceva: Vattene, quella casa non è tua!

    2

    Milena posò l’archetto sulle ginocchia. Era stanca. Da quattro ore provava, alternandoli, quei due concerti: ormai era pronta, ma voleva tenersi in esercizio. E poi erano bellissimi, soprattutto la sonata.

    Aveva fame. Si alzò e rimise il violoncello nella sua custodia. Stette un attimo ad ascoltare il silenzio tra le spesse mura della sua taverna. La calda luce che precedeva il tramonto rendeva ancora più densi e ovattati i colori delle piccole vetrate colorate. Sembrava di essere in una chiesa. Sentì un brivido.

    Devo ricordarmi di fare controllare la caldaia, tra un po’ sarà ora di accendere il riscaldamento, pensò mentre saliva i gradini di pietra.

    Andò in cucina e aprì il frigo. Stava contemplando il desolante vuoto di possibilità gastronomiche che le si prospettava per la serata quando squillò il telefono.

    Era Greta, e il suo solito fiume di parole. Milena, involontariamente, arrossì. Le capitava quasi sempre, anche se ormai era passato più di un anno. E si era trattato di una volta, una volta soltanto, una sola notte. Ma non poteva farci niente. Non capì le prime parole che la sua amica

    amante?

    riversava attraverso la cornetta, apparentemente incurante di chi stesse dall’altra parte. E faticò a comprendere il senso di quel che diceva. Sembrava non avere fine. Approfittò di un attimo di pausa e disse – che ne dici di andarcene a cena da qualche parte? Ho suonato fino a poco fa e sono stanca morta.

    Probabilmente non fu un’entrata tempestiva perché Greta rimase sorpresa. Ma si riprese subito – dimmi la verità, hai il frigo vuoto?

    – Sì, ma non…

    – Passo a prenderti alle otto.

    3

    A Bellariva quel giorno molti altri telefoni squillarono. La notizia si diffuse rapidamente. Qualcuno, più intraprendente degli altri, si spinse addirittura sino ai margini del paese per controllare direttamente. Ma dall’esterno villa Frais non lasciava trapelare quasi nulla. Oltre il cancello il bianco sentiero di ghiaia curvava e saliva dolcemente nascondendo gran parte della villa alla vista. La fitta siepe a ridosso della recinzione faceva il resto.

    Ma molti telefoni squillarono. C’era chi aveva visto il camion del trasloco seguito da quel fuoristrada, tipico della gente di città, ricca e stupida. Arrogante. Altri già sapevano che Elga avrebbe preso servizio, nuovamente, in quella casa. E chi non aveva visto, riferiva come suo quello che aveva sentito, inventando magari qualche particolare.

    L’unico che ebbe fortuna fu il pescatore.

    Come ogni giorno Claudio Negroli, meglio conosciuto come Negus e da molti ritenuto un tipo strano e solitario, era sceso dalla sua modesta cascina, poco più che una capanna, in cima alla collina. Aveva preso la sua piccola barca a motore dal porticciolo comunale ed era uscito a caccia di persici. Aveva fama di essere il miglior pescatore di persici del lago, raramente tornava a mani vuote. Dicono avesse dei posti segreti nei quali andarli a scovare. Lontano. Spesso lo si vedeva uscire all’alba e non tornava che dopo il tramonto. Gran parte del pesce lo vendeva al ristorante Bellevue, insieme a qualche ricetta di sua invenzione. Ma quel giorno uscì tardi, solo dopo pranzo, e non andò lontano. Ancorò la piccola barca proprio davanti alla darsena privata di villa Frais. Prese le canne. Cominciò da quella più corta, per la pesca a fondo. Un grosso piombo e un amo, nient’altro. Infilò sulla punta acuminata un lungo verme marrone, che aveva preso quella stessa mattina tra il letame di una stalla. Lanciò a una ventina di metri verso destra, appena dopo le alghe, dove il lago cominciava a diventare profondo.

    Appoggiò la canna alla barca, recuperò un po’ di lenza per tenere teso il ciminoin modo da notare subito ogni più piccola vibrazione. Poi prese l’altra. Infilò nell’amo un altro lungo verme, senza fretta. Poi fece scorrere il galleggiante stretto e lungo sino a dare circa tre metri di fondo. Ricontrollò il verme e lanciò, ma non al largo. Stranamente lanciò verso riva. Si sedette e rimase ancorato davanti alla villa sino a quando venne buio. E fu uno dei rarissimi giorni in cui tornò a riva a mani vuote.

    Fu a metà pomeriggio che lo vide, per un attimo. Era dietro le grandi finestre del primo piano. Pareva osservare il panorama.

    4

    Luigi era ancora seduto alla scrivania, davanti allo schermo nero. Aveva telefonato a un tecnico informatico che ogni tanto lo aiutava a sistemare il computer. No, non c’era niente da fare. Quel fratelli@webserver.it non bastava per risalire al mittente. Era un alias, uno pseudonimo dietro cui avrebbe potuto nascondersi chiunque: due fratellini in vena di scherzi, ad esempio. O una multinazionale del crimine. O chissà chi altro. La sua email, d’altra parte, non era un gran segreto. Era apparsa più volte come firma a qualche breve articolo che gli era stato chiesto da quotidiani e settimanali. E una volta anche in calce a un pieghevole che pubblicizzava una sua mostra di foto sulla guerra in Afghanistan.

    Il tecnico gli consigliò di rivolgersi direttamente al provider del mittente: quel .it dopo webserver stava a indicare che era italiano. Ma, aggiunse il tecnico, difficilmente gli avrebbero dato informazioni: non si rivelavano nomi o indirizzi dei propri abbonati. No, non lo avrebbero mai fatto se non dietro preciso ordine di un magistrato.

    Ringraziò e appese.

    E se rispondessi a quel messaggio? Aggredirli, minacciarli… No, forse la cosa migliore è chiedere semplicemente una spiegazione.

    Era sprofondato in questi pensieri, gli occhi fissi sullo schermo nero, quando squillò il telefono. Ebbe un sussulto, non aveva regolato il volume e la suoneria era al massimo. Corse alla cornetta e la sollevò. Disse – pronto… pronto… – ma sentì solo che dall’altra parte riagganciavano. Poi il suono della linea interrotta.

    Prese in mano il telefono, lo girò e regolò il volume a metà. In quel momento squillò di nuovo. Più piano ma tremendamente vicino. Sentì in bocca un gusto amaro per la paura. Sollevò la cornetta e se la portò all’orecchio, senza dire nulla. Un lungo silenzio. Poi un clic.

    Tornò alla scrivania e accese nuovamente il computer. Aveva ben chiaro in mente quello che doveva fare. Sulla casella destinatario scrisse fratelli@webserver.it e nello spazio riservato al testo solo poche parole Mi è arrivato un vostro messaggio, probabilmente si tratta di un errore, ma se così non fosse vi chiedo di spiegarmi che cosa significhi.

    Lo rilesse, gli sembrava perfetto. Fermo e distaccato. Non c’era aggressività, potevano davvero aver sbagliato, un caso di omonimia, o un provider confuso… e d’altra parte non lasciava trasparire alcun timore. Li affrontava, gentilmente, ma a viso aperto.

    Spiegatemi cosa significa.

    Non mise alcuna firma, non serviva. La sua email si sarebbe automaticamente composta alla casella mittente. Cliccò sul tasto invia e attese qualche secondo. Non comparve alcuna finestra di errore. Il messaggio era stato inviato.

    Ne compose un altro, destinato a Frank. Scrisse Ho deciso di fermarmi per un po’, di guardarmi alle spalle. Se capiti in Italia fatti vivo che ci beviamo qualcosa insieme. Poi scrisse il suo nuovo numero di telefono e inviò anche questo messaggio. Ma era convinto che non lo avrebbe più rivisto.

    Chi esce dal giro è perduto, dimenticato.

    Spense il computer. Rimase qualche secondo davanti allo schermo, poi sorrise. Osservò per un attimo il telefono e quindi scese al pianterreno. Pensò che era giunto il momento di fare un giro per la villa. Senza operai da controllare, senza problemi. Senza pensieri.

    Era il momento di visitare villa Frais.

    Che strano nome.

    La porta di entrata si apriva su un ampio ingresso, quasi una stanza rettangolare, largo tre metri e lungo una decina. In fondo una scalinata di marmo saliva, sulla sinistra, al primo piano e scendeva, sulla destra, nel vasto seminterrato dal quale si accedeva anche a un lungo e stretto corridoio, una sorta di buio cunicolo che, passando sotto la strada, conduceva direttamente alla piccola darsena privata della villa. Ricordò quando il funzionario dell’agenzia glielo mostrò, con orgoglio, dicendogli che di ville con un passaggio sotterraneo a una darsena privata oramai ne restavano poche. Poi percorse i trenta o quaranta passi nel buio corridoio in silenzio, velocemente. Sembrava molto nervoso. Salì rapido i gradini, aprì con una grossa chiave la pesante porta in ferro battuto e solo allora parve respirare. La darsena non era molto grande. Niente yacht, ma un gommone o una piccola barca a vela ci sarebbero stati, pensò Luigi, anche se sapeva benissimo che mai avrebbe acquistato l’uno o l’altra. Non che odiasse andare in barca, gli era semplicemente indifferente, ma detestava tutto quel lavoro di manutenzione che un natante, di qualunque tipo e dimensione fosse, inevitabilmente avrebbe comportato.

    La darsena era una sorta di piccola casetta costruita con grosse pietre grigie e immersa per metà nell’acqua. Sul muro a destra erano inchiodati dei grossi anelli di ferro per legarvi la barca. Un muretto, sulla sinistra, con tre livelli: il più basso era sommerso, per seguire il periodico alzarsi e abbassarsi delle acque del lago. In fondo il muretto faceva una leggera curva verso destra per riparare dalle onde, e quindi l’apertura verso il lago.

    Tornò all’ingresso. Si appoggiò con le spalle alla porta di entrata: l’impatto visivo era molto bello e si sentì quasi imbarazzato per quel lusso. Ma pensò che se lo era anche meritato dopo trent’anni e più di lavoro. Non si era mai curato troppo della propria casa: metà dell’anno, e spesso anche più, era in viaggio. E quando non viaggiava preparava nuovi viaggi, o qualche mostra. Bagno, cucina, una camera da letto con armadio, un’altra, la più grande, per l’archivio e la sua attrezzatura e un piccolo bagno di servizio trasformato in camera oscura gli erano bastati, per molti anni. Mobili qualunque e un gran disordine ovunque. Da sempre.

    Ebbe un attimo di nostalgia per la sua vecchia casa di ringhiera sui Navigli. Quando l’acquistò, più di vent’anni prima, era considerata una casa popolare in un quartiere vecchio e piuttosto degradato. Ma poi la zona diventò di moda e da allora quando dava l’indirizzo non lo squadravano più con malcelata compassione, ma con invidia. Rivenderla fu un vero affare. Quasi un furto.

    Basta con la nostalgia.

    Sulla stanza d’ingresso si affacciavano cinque porte, tre sulla destra e due sulla sinistra. Varcò la prima ed entrò in una grande sala da pranzo occupata quasi interamente da un enorme tavolo di legno scuro, quasi nero. Ci sarebbero state comodamente sedute almeno una ventina di persone. Le pareti erano coperte da una ricca tappezzeria dorata con bassorilievi floreali, forse un po’ troppo pretenziosa. Appoggiate ai muri due grandi madie piene di piatti e bicchieri. Gli eredi pareva proprio non avessero preso nulla. Tutto sembrava ancora come quando ci abitava quel nobile tedesco.

    Ma chi sarà stato? Mi piacerebbe saperne di più sul suo conto. Magari domani lo chiederò a Elga…

    Di fronte alla sala da pranzo c’era un’altra grande stanza che fungeva da salotto. La seconda porta si apriva su un disimpegno e quindi su un bagno di servizio. L’ultima a destra conduceva alla grande cucina con camino. La quinta porta, la seconda a sinistra, era quella dello studio del vecchio proprietario. Quando, dopo aver acquistato la villa, pensò a come sistemarsi rifletté a lungo se usare quello studio per sé o no. Poi decise di lasciarlo com’era e di sistemarsi al piano superiore dove c’erano quattro stanze. Avrebbe usato le due con vista sul lago: una come camera da letto e l’altra, quella più grande, come studio. Il grande solaio, con le sue piccole finestre, era bellissimo e aveva una vista ancora più bella, ma rimetterlo in ordine gli sarebbe costato troppo. E di spazio ne aveva già fin troppo.

    Luigi entrò nel vecchio studio, così decise che lo avrebbe chiamato. Sulla sinistra c’era un’alta libreria zeppa di volumi e carte. Sulla destra una scrivania e nell’angolo, tra due portefinestre che davano sul giardino, un divano di pelle nera.

    Appeso alla parete di sinistra, appena sopra la spalliera del divano, un grande quadro che già durante la prima visita alla villa aveva attirato la sua attenzione. Raffigurava un oscuro anfratto, probabilmente una cantina o un sotterraneo, illuminato solo da alcune candele. Non vi era, o almeno non si distingueva, alcuna forma umana, solo ombre. E colonne. Era molto cupo. Dava i brividi.

    Dovrò toglierlo da lì.

    Anche dal vecchio studio sembrava che non fosse stato portato via nulla. Si avvicinò alla libreria e diede un’occhiata ai volumi. Erano quasi tutti in tedesco, alcuni in inglese e altri, che parevano molto vecchi, in latino. Lesse un po’ di titoli, a caso, ed ebbe una strana sensazione. Spiacevole. Continuò a scorrere i dorsi saltando da una parte all’altra della grande libreria. Titoli perlopiù incomprensibili dei quali riusciva solo, e non sempre, a cogliere una parola nota, un nome.

    Un brivido.

    5

    Bellariva era un piccolo paesino, tremila abitanti o poco più. A detta di molti il più bello del lago, almeno tra quelli della sponda occidentale. Sicuramente era quello che meno aveva ceduto al turismo. C’era un solo albergo, grande e lussuoso, alla periferia nord, ma abbastanza nascosto e ben inserito nell’architettura locale. Se qualcosa, Bellariva e i suoi abitanti, avevano ceduto al turismo, erano le case. Soprattutto quelle che si affacciavano sul lungolago. I vacanzieri del fine settimana, la grande città era soltanto a un’ora di autostrada, lo avevano invaso da tempo, armati di denaro contante. I locali avevano trattato il prezzo della resa e poco alla volta si erano ritirati in collina.

    Bellariva, infatti, si affacciava sul lago solo per qualche centinaio di metri, quanto permetteva la bella insenatura sulla quale era sorto. Sia a nord sia a sud le grandi ville dei ricchi ne avevano fermato l’espansione e si era, quindi, cominciato a costruire risalendo la collina. Non troppo però. Le case erano basse e costruite perlopiù con materiali locali. Molti i tetti in pietra grigia.

    Due sole eccezioni, in nome dell’edilizia popolare: quasi in cima alla collina un grande condominio a cinque piani, fortunatamente nascosto dal bosco, e attorno al quale erano sorte, per chissà quale ragione, una schiera di villette unifamiliari che sembravano uscite da un catalogo di chalet svizzeri; e l’orrendo casermone di sette piani, indegno anche della periferia di una grande città, costruito a metà collina sul finire degli anni Sessanta a poche decine di metri, in linea d’aria, dalla chiesa vecchia.

    Nel primo si erano ritirate in buon ordine le famiglie meno abbienti e con qualche aggancio in Comune. Affitti irrisori ma anche molta paura che d’inverno cadesse la neve. Per scendere in paese, infatti, vi era una sola via: quasi due chilometri di tornanti con una pendenza impressionante, soprattutto nel primo tratto. E lo spazzaneve lassù arrivava, se arrivava, solo quando a valle tutto era sgombro. Ma fortunatamente non tutti gli anni nevicava.

    Gli appartamenti del casermone vicino alla chiesa vecchia, invece, erano andati a ruba tra la piccola borghesia della città, quella che non poteva permettersi una villa o un appartamento sul lungolago, ma non poteva permettersi nemmeno di non avere una seconda casa al lago.

    Bastava, quando scattavano una foto del paese, inquadrare la chiesa vecchia e tagliare via il casermone. Poi, indicando un punto appena fuori dal lucido rettangolo di carta, avrebbero detto Il mio appartamento è proprio qui, una vista stupenda.

    La chiesa vecchia, chiamata così perché ce n’era un’altra quasi nuova sul lungolago, proprio al centro del paese, era l’unica attrattiva artistica di Bellariva. Il parroco, quand’era stagione di turisti, saliva fin lassù di prima mattina e apriva il portone di legno. Accendeva qualche candela, non c’era luce elettrica, e se ne andava. Tornava la sera a chiudere. Un’anziana donna che abitava lì vicino si era offerta, gratuitamente, di pulirla e di tenerla d’occhio. Ma dentro non c’era proprio niente da rubare se non qualche sedia di legno. Alle volte vi si officiavano funzioni religiose. Qualche funerale, il cimitero era proprio lì a fianco, e parecchi matrimoni di sposi alla ricerca di scenari più raccolti e romantici di quello che poteva offrire la grande, ma un po’ asettica, chiesa del lungolago.

    Per gli altri abitanti non rimanevano che le basse case addossate l’una all’altra. Non restava che arrampicarsi a piedi sulla lunga e ripida scalinata della piazza della chiesa, o salire gli stretti e tortuosi viottoli, che si aprivano qua e là.

    Anche per chi aveva l’auto c’erano poche possibilità: una sola strada, c’era anche un viottolo che tagliava a metà il paese ma era stretto e le auto non ci passavano, che saliva all’entrata del paese e ne usciva, dopo la piccola stazione, all’altezza di villa Frais. La strada aveva due sole ramificazioni: la prima, passando sotto il ponte della ferrovia, portava sino al casermone e alla chiesa vecchia; l’altra, poco prima della stazione, si inerpicava sino al condominio tra i boschi e agli chalet svizzeri. Quindi proseguiva ancora per qualche centinaio di metri nel bosco.

    Poi, semplicemente, finiva.

    Da lì un sentiero si inoltrava nel fitto della vegetazione. Non vi passava quasi mai nessuno, solo qualche cercatore di funghi e Claudio Negroli, Negus, il pescatore, per andare alla sua cascina.

    6

    Non sapeva perché gli avessero dato quel soprannome. La prima volta che lo sentì ne fu stupito, ma non lo dette a vedere e non ci pensò più di tanto. Aveva altro a cui pensare, a quel tempo. Però la cosa continuò e allora andò a cercare quella parola in una vecchia enciclopedia. Lo stupore cedette il posto a una sottile inquietudine: era convinto che quel negus non avesse niente a che fare con stirpi reali, tantomeno etiopi. Non avrebbe avuto senso. Ma cominciò a pensare che fosse un modo per definirlo straniero, per rimarcare la sua diversità, il suo non avere un passato, almeno per la gente del luogo. E allora cominciò a osservarla, la gente del luogo, cercando di evitare, però, che loro osservassero lui. Riuscì anche a capire da chi era nato quel soprannome. Lo studiò e poco alla volta si convinse che non era possibile. Gino, il barista, non poteva arrivare a tanto. La sua mente non era così sottile. Quel soprannome, sicuramente, era cominciato per caso, una reminiscenza scolastica, forse. Si convinse che quel negus non nascondeva nulla, che era nato, probabilmente, solo perché suonava molto simile al suo cognome. Da quel giorno non ci pensò più, semplicemente lo accettò.

    Guardò fuori dalla finestra della cucina. In realtà era solo un angolo, con un vecchio lavandino e una stufa a legna, della grande stanza che era anche camera da letto e soggiorno. La cascina aveva solo un bagno e quest’unica stanza. Niente luce elettrica e gas, solo le tubature dell’acqua erano riuscite, chissà come, ad arrivare fin lì. Ma a lui andava bene così. A quel posto ci era affezionato, era quello che cercava.

    Fece mentalmente il conto: dieci anni. Sì, erano già passati dieci anni da quando aveva comprato quella vecchia cascina senza luce e gas.

    Sono già passati dieci anni… Dio mio!

    7

    Villa Frais si trovava all’estremità nord del paese, poco dopo il lussuoso albergo. Luigi uscì a piedi. Si sentiva bene, era tonificato da una lunga doccia bollente e i vestiti puliti gli accarezzavano dolcemente la pelle. Gli era passata anche quella sottile angoscia che lo aveva preso quando aveva cominciato a scendere i gradini che portavano nel sotterraneo. Ora non era più così certo di avere sentito dei rumori laggiù. O forse sì, forse c’era stato veramente un rumore, uno dei mille che abitano le vecchie e grandi case. Ma non quel rumore.

    Schiacciò il telecomando e il cancello verde si aprì. Era ridicolo, pensò, passarci a piedi ma non aveva voglia di cercare nel grosso mazzo che teneva in tasca la chiave per la piccola porta laterale.

    Fu sul lungolago. Attraversò. Non gli piaceva sentire il rumore delle auto alle sue spalle, preferiva averle di fronte. Non si sa mai. Guardò verso il lago. La strada in quel punto era almeno quattro metri sopra il livello dell’acqua. Sulla sinistra vide la sua darsena. Era completamente ricoperta di arbusti e rampicanti, anche sul tetto, e se non fosse stato per il muretto che si allungava sull’acqua a ripararla dalle onde, non la si sarebbe nemmeno notata. Sembrava una roccia. Luigi la osservò e non la sentì sua.

    Ci vuole tempo.

    Era l’imbrunire e si avviò verso il centro di Bellariva. Quando lo aveva attraversato aveva notato un ristorante, forse due. Dopo pochi passi si voltò e guardò verso la sua nuova casa. Era su un dosso, leggermente in alto rispetto al livello della strada. La siepe e gli alberi ne lasciavano intravedere solo il tetto e una parte della grande vetrata.

    Ci vuole tempo, e ne ho.

    Camminò osservando ora il lago, alla sua sinistra, ora il grande parco dell’albergo, alla sua destra. Sulla sinistra vide la cima di alcuni alberi stagliarsi sull’acqua, ne fu incuriosito. Si spostò ancora di più verso il bordo della strada, avanzò e vide, qualche metro sotto, uno spiazzo abbastanza largo e lungo un centinaio di metri e un prato, con al centro un grande cerchio piastrellato. Un cartello diceva Porto di Bellariva. Discoteca. Oltre lo spiazzo una grande darsena con molte barche attraccate, perlopiù coperte da teloni.

    Continuò a camminare e dopo una curva vide la Perla del Lago. Era una costruzione bassa, a tre piani, e tutto lasciava trasparire lusso e comodità. Le stanze avevano graziose terrazze fiorite e soffici tende dietro ai vetri. Poche le tapparelle abbassate. Sulla sinistra la costruzione era a un solo piano. Sicuramente era stata aggiunta in un secondo tempo al corpo centrale della vecchia villa trasformata in albergo, ma doveva averlo fatto un buon architetto perché si notava appena. Al centro una grande porta d’entrata e quindi la lunga vetrata del salone da pranzo dietro alla quale si vedevano tavolini, coperti da immacolate tovaglie, attorno ai quali si muovevano rapidi alcuni camerieri. Un sentiero di ghiaia conduceva al parcheggio che stava dietro l’albergo.

    Poco più avanti una casa apparentemente abbandonata attirò la sua attenzione. Il contrasto con la Perla del Lago era così forte che Luigi si fermò e guardò più volte prima l’una e poi l’altra. Lo colpì il colore di quelle vecchie mura dalle infinite sfumature che andavano dal giallo ocra al bianco, quasi che una pioggia intrisa di zafferano fosse caduta da un cielo impazzito. Attraversò la strada e si avvicinò al cancello.

    Stava facendo buio, ormai, ma rimase a osservare quella vecchia casa come rapito. Nel corpo centrale si aprivano quattro finestre formate da piccoli quadrati di vetro incorniciati da un legno ormai tanto consunto e trascurato da cadere a pezzi. Ognuna delle finestre era sormontata da un arco. Un paio di vetri erano rotti. Dietro si intravedevano delle tende lacere. Al piano superiore altrettante finestre alte e strette. Le persiane erano chiuse e cadevano letteralmente a pezzi.

    Devo tornare a fotografarla, con la luce migliore, leggermente di taglio.

    Due ali laterali, lunghe come il corpo centrale, arrivavano sino al muro di cinta formando, con questo, un quadrato pressoché perfetto. Nel cortile interno un vecchio pozzo circolare di pietra annerita dal tempo e ferro battuto.

    La mente di Luigi, mentre entrava al ristorante Bellevue, già si era rifiutata di crederci, ma non poteva essersi sbagliato: seminascosto da una tenda qualcuno lo stava osservando.

    Sparì non appena guardò nella sua direzione.

    8

    Milena non si guardava quasi mai allo specchio, solo di sfuggita, quando proprio non poteva farne a meno. E anche allora non si guardava mai veramente. Osservava, quando si truccava, ad esempio, un particolare: le labbra, per il rossetto, gli occhi, per la matita o le guance le rare volte che metteva un velo di fondotinta. Ma non si guardava, si vedeva e basta. Era bella, a dispetto della sua noncuranza, era bella naturalmente. Forse lo sapeva anche, i corteggiatori non le erano mancati. E a qualcuno aveva anche ceduto. Anche a qualcuna, anzi a una, una notte. Ma mai completamente. Si diceva non hai ancora incontrato quello giusto, ma sapeva che era vero solo in parte. Non lo aveva cercato, così come non aveva cercato sino in fondo nel cuore dei pochi che aveva lasciato avvicinare. Ma mai completamente.

    Era sempre stata attenta alle sue emozioni, però. Sin da bambina. Era da allora che le aveva paragonate a un aquilone. Quand’era sola le lasciava libere di volare ma stava ben attenta a che il filo non le scappasse di mano. L’aquilone, a volte, spariva dalla vista. Accadeva quando il vento soffiava forte. Allora recuperava il filo.

    La musica, diceva, era entrata nella sua vita per caso. Ma anche questo sapeva che non era vero. Da giovane aveva provato a scrivere. Qualche racconto era anche stato pubblicato su una piccola rivista della zona. Usava uno pseudonimo, per pudore e per non doverne parlare, per non dover spiegare se mai qualcuno che conosceva lo avesse letto. Non lo seppero nemmeno i suoi genitori. Nel frattempo erano cominciate le lezioni di piano, aveva quindici anni. E una cosa sostituì l’altra. Così, naturalmente. Fu il conservatorio e la scelta

    ma fu una scelta?

    del violoncello. Fu un’attrazione irresistibile, fatta di forme e suoni. Quello che aveva adesso era il suo terzo strumento, il primo di un certo valore. Per comprarlo aveva dovuto fare un piccolo mutuo in banca, ma aveva quasi finito di pagarlo. Però i primi due li conservava ancora, con amore. Ogni tanto li puliva, controllava l’accordatura e li suonava. Il timbro, ora se ne rendeva conto, era un po’ scadente. Ma li amava.

    Poco alla volta vennero, senza cercarli, i primi, timidi successi. A lei bastava ma ora, così sembrava, stava per fare il salto. Il primo concerto importante: Vivaldi, e proprio a Venezia.

    Ma era tranquilla. Di nuovo posò l’archetto sulle ginocchia e ancora ascoltò il silenzio. Stava facendosi buio, tra poco Greta sarebbe venuta a prenderla.

    9

    Decisero di andare a piedi fino al lungolago. Scesero lo stretto e tortuoso viottolo chiacchierando, attente a non inciampare. Milena pensava a quanto era bella Greta, a quanto le invidiava quei lunghi capelli rossi. Per un attimo, quasi arrossendo, pensò alle sue labbra.

    Greta pensava solo a fare in fretta.

    Ormai sarà arrivato, è solo e non ci metterà molto a mangiare.

    – Perché non andiamo al Bellevue? – disse come fosse un’idea improvvisa.

    – Ma è caro.

    – Offro io – disse Greta.

    Milena sorrise mentre scendevano il lungo scalone che portava alla piazza della chiesa. Sapeva che Greta aveva già deciso, era fatta così e quando si metteva in testa una cosa.

    – Allora, sei pronta?

    Milena trasalì, con lei c’era d’aspettarsi di tutto.

    – Pronta per cosa?

    Greta rise – rilassati, parlavo del concerto, non manca molto ormai.

    – Sì, sono pronta – erano sul lungolago e Milena osservava i riflessi delle luci sull’acqua appena increspata da un leggero vento. – Almeno tecnicamente – continuò. – Conosco ogni nota a memoria, non ho incertezze, posso suonare quei concerti a occhi chiusi. Soprattutto la sonata. Il problema è proprio quello: riuscire a chiudere gli occhi.

    – Cosa vuoi dire?

    Che palle…

    – Voglio dire riuscire a lasciarsi andare, non suonare solo una serie di note, magari eseguite perfettamente per tempi e ritmi. Lasciarsi andare: ecco quello che voglio dire, trasmettere attraverso la musica, attraverso quelle note, ciò che il compositore voleva esprimere e come tu lo senti. Non devono esserci più le note, ma la musica. Nella mia taverna mi riesce, quasi sempre. Ma con tutta quella gente…

    Ormai erano davanti al

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