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E-book173 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Un’autobiografia, forte, ironica.
Un cammino nel subdolo e lento palesarsi di una malattia che, quando si manifesta, porta con sé paura, inquietudine, ma anche forza, intuizioni, coraggio e voglia di non mollare mai, a qualunque costo e a qualsiasi prezzo.
“Una partitura in tre movimenti, dove i primi due sono interscambiabili.
L’abnegazione, la scelta talvolta comparata a un sacrificio, richieste a un musicista per diventare tale, sono gli stessi perni su cui la protagonista di questa storia fa leva per proseguire i suoi studi, ma più tardi anche per riappropriarsi di un’esistenza piena, della sua esistenza.
Del resto, se c’è un faro a squarciare le tenebre, qui, è esattamente ciò che è dotato di respiro.
Non ci sono muscoli più forti di quelli mossi dall’entusiasmo, non ci sono gambe più robuste di quelle che imparano il moto come una porzione di salvezza, non c’è mente più fertile di quella che ogni giorno, ogni ora è coltivata.
Niente pietismo in queste pagine, niente patinature, piuttosto un taglio di verità nuda e cruda. La testimonianza di quanto evitare la realtà sia utile solo a incontrarla di nuovo, presto o tardi.”
Lucia Grassiccia
LinguaItaliano
Data di uscita13 ago 2020
ISBN9788831687485
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    Anteprima del libro

    Io vinco - Catia Tilli

    iniziato

    PRIMA PARTE

    Capitolo 2

    CHISSA’ COS’ERA?

    È un pomeriggio di aprile del 1992, giornata prefestiva, il sabato prima di Pasqua per i maniaci della precisione, una giornata veramente molto calda, diremmo quasi un primo accenno di estate; sai di quelle calure che ti fanno vedere figure immaginarie sull’asfalto mentre guidi, o se invece sei su un cammello nel deserto ti fanno avvistare un’oasi?

    Ecco, con il senno di poi, Rita avrebbe preferito di gran lunga essere sul cammello.

    Rita ha appena fatto l’ingresso nel cortile di casa sua con l’auto.

    Sta rientrando a casa dopo la lezione di pianoforte.

    Rita è prossima al diploma in pianoforte, vicinissima alla data, una manciata di giorni la separava dall’agognato traguardo.

    Dodici lunghissimi anni di studio intrapresi dopo il liceo classico, durante il quale era riuscita a prendere solo il diploma di teoria e solfeggio.

    E Rita era giunta a fine corsa ed era pronta fisicamente e psicologicamente; era un fascio compatto che si muoveva inarrestabile verso l’obiettivo e niente l’avrebbe fermata; non sentiva nemmeno la fatica.

    Infatti, alla fine, poi in fondo, ma proprio dopo (parliamo del futuro), Rita si ricorderà di tutto questo percorso di studi molto faticoso, lastricato di ogni qualsivoglia ostacolo, fatica, caduta, gioia, gioietta, piacere, soddisfazione, molto di più rispetto a quanto, a livello emotivo, non abbia trattenuto nell’archivio dei download (e parliamo dell’uragano di emozioni, quelle esplose in un unico istante, forti da soffocare) al momento dell’arrivo e dove arrivando vinse.

    Dicevamo, un diploma fatto di fatiche indicibili e montagne impervie ma assolutamente superabili, tanto è vero che oramai era prossima al traguardo e Rita già vedeva il nastro da tagliare.

    La nostra protagonista aveva in sé la forza di una mandria di tori e nulla l’avrebbe più fermata dal raggiungere quell’obiettivo, niente!

    Oramai le mancavano solo due mesi, e cosa sono due mesi dopo dodici anni, dodici lunghissimi, interminabili anni, anni in cui la famiglia e il condominio l’avevano sopportata, supportata e sostenuta come se all’esame dovessero partecipare tutti? Anche la signora dell’ottavo piano, i condòmini in pensione, quelli che ascoltavano dalla cantina gli esercizi di tecnica, di velocità - quegli esercizi che ripeti all’infinito spostando solo di un impercettibile millimetro la lente del metronomo; quelli di interpretazione, del pedale; e oltre a questi anche le casalinghe del palazzo di fronte (di un altro condominio), i proprietari dei cagnolini che vivevano l’eco dei suoni del suo pianoforte dai giardinetti, quando con metodica regola portavano a spasso i loro cuccioli alle sette, alle otto, alle dieci e così fino a sera, e ancora oltre il parco e più in là.

    Ci impiegò dodici anni purtroppo, non dieci, i canonici anni del percorso di studi di pianoforte, perché ad un certo punto, tra il quinto e il sesto anno di corso, incaponitasi come pochi, Rita aveva voluto superare ostacoli tecnici, diciamo così, investendo sulla mano sinistra ore e ore di studio della tecnica pianistica di Longo, Brahms, Cortot, Czèrny, tutta quella conosciuta, tutta insieme e tutta sullo stesso arto, senza considerare i segnali importanti che la poverina, la mano intendiamo, stava mandando, dei veri e propri allarmi lampeggianti rossi con soneria incorporata.

    Ma Rita non era minimamente interessata ad ascoltarli perché, cascasse il mondo, le ottave spezzate le dovevano venire bene e soprattutto a tempo, quindi testa bassa e lavorare!

    Per non lasciarvi con dei dubbi, le ottave spezzate sono esercizi in cui la mano aperta suona con il mignolo un DO e con il pollice il DO dell’ottava superiore, non contemporaneamente ma ondeggiando tra un Do e l’altro, apparentemente semplice, non se lo rendi impossibile nelle sue ripetizioni.

    Come avrebbe potuto altrimenti eseguire la Sonata di Beethoven, la Patetica (ecco proprio come era la sua esecuzione… patetica!) se la mano sinistra viveva in modo anarchico e autonomo rispetto al resto del corpo, come?

    Studiare, sì! senza criterio fino alla perdita della sensibilità dell’arto.

    AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH!!!!!

    Complimenti! Come ha fatto? Me lo spieghi, perché mi è incomprensibile visto che non fa il muratore! le disse l’ortopedico, il primo di una lunga serie.

    Un igroma sul polso sinistro, un grappolo di cisti che appoggiate sui tendini impedivano a Rita di prendere contatto con la sua mano. Per due lunghi anni Rita non riuscì a percepire nemmeno la puntura degli aghi che i medici le ficcavano sui polpastrelli per testare la ripresa della sensibilità.

    Ogni ortopedico incontrato diceva la sua, ma per il novanta per cento erano tutti propensi a operare, senza però dare garanzie sulla perfetta riuscita dell’intervento; infatti, l’igroma giaceva troppo attaccato ai tendini e la sua rimozione avrebbe potuto (non necessariamente, ma nessuno si prendeva la responsabilità dell’intervento perfetto) lesionare definitivamente l’articolazione della mano, non considerando che Rita era prossima a completare l’ottavo anno di pianoforte, che aveva ventisei anni e che nella vita non aveva mai fatto altro se non suonare. Che prospettiva!

    Ma né Rita né tantomeno sua madre avevano intenzione di arrendersi e quindi presero appuntamento con un altro ortopedico, chirurgo della mano, l’ultimo primario serio prima di prendere una decisione (ricordati quanto è importante non arrendersi mai, perché questo atteggiamento alla fine ripaga sempre), che con grande saggezza spiegò che, posizionando una moneta sull’igroma (quella da cinquecento lire, perché era il conio più grande a disposizione) e tenendola ferma con una benda elastica, il liquido presente nel grappolo di cisti non si sarebbe infiammato e Rita avrebbe potuto suonare per tutta la vita così senza dolore e con grande agilità, ma soprattutto senza nessuna operazione.

    Una stregoneria, un atto sciamanico: alla fine, il metodo empirico, fondato sulla pratica e non su criteri scientifici vince su anni di studio, preparazione e master.

    Quindi Rita trascorse due anni curandosi prima con terapie farmacologiche, con terapie riabilitative della mano, prima per disinfiammare tutta la fascia muscolare e tendinea che attraversava il polso, e per poter riprendere gradualmente a suonare.

    Che dire quando poi all’esame di ottavo corso Rita si presentò necessariamente con due pezzi da cinquecento lire e con le bende ai polsi?

    Signorina non avrà mica tentato l’insano gesto? Forza, su, in fondo è un esame come un altro.

    Aver spiegato il perché teneva i soldi nei polsi metteva Rita di diritto più tra gli studenti psichiatrici che non tra quelli depressi con manie suicide.

    Ma non importava nulla a Rita che, infatti, superò brillantemente l’esame nonostante fosse arrivata come privatista.

    Teoria e Solfeggio, Quinto corso di pianoforte, Storia Della Musica, Armonia Complementare, Ottavo Corso di pianoforte, tutto fatto, tutto superato nonostante la rivolta degli arti, dei tendini, dei muscoli e, ultima, ma non meno importante, nonostante l’età; ricordiamo che Rita aveva raggiunto quella veneranda di ventisette anni ed era già tardi per la carriera pianistica; d’altra parte se uno frequenta il liceo classico non è così scontato riuscire a portare avanti anche lo studio del Conservatorio iniziato quindi a diciotto anni.

    Quelle bende l’accompagnarono per lunghissimo tempo. Ma per due anni non riuscì a recuperare la mano sinistra e fu allora che decise di dedicarsi all’Università, smettendo di suonare.

    Un traguardo da Forrest Gump insomma.

    Torniamo all’aprile del 1992. Rita dopo la lezione di pianoforte era felice quel giorno, tutto sembrava tendere piano piano al giusto compimento ma era molto stanca e provata; studiava dalle dieci alle dodici ore al giorno, era oramai diventata brava e nessuno dei vicini, in quei dodici anni, aveva mai chiamato le forze dell’ordine per farla smettere. Insomma, erano tutti d’accordo che quel diploma era giusto, il premio da conseguire per tanti anni di passione e sudore. Così anche per il diploma finale era tutto pronto.

    Rita entrò in cortile, e lo attraversò con l’auto percorrendo il tragitto che la separava dal suo box, tragitto che visto dall’alto era molto geometrico, composto da un rettilineo, una curva a gomito, un altro rettilineo, un’altra curva a gomito ed un breve rettilineo fino ad arrivare davanti al box numero trentaquattro.

    Arrivata quindi davanti al box Rita scese dall’auto, lo aprì fissando le due ante con i due fermi di ferro tra i sanpietrini, artigianalmente ideati dal padre per evitare che durante i momenti in cui la corrente d’aria si fa sentire le porte del box rovinino sull’auto, e introdusse la macchina all’interno del garage.

    Quel giorno Rita aveva avuto in prestito la macchina da sua sorella e quindi aveva viaggiato comoda. Rita non lavorava ancora a tempo pieno e, quindi, un’auto non se la poteva permettere, ma stava mettendo via i soldi perché ne voleva acquistare una nuova.

    Dove abita Rita ci sono mezzi di superficie, metropolitane, ti muovi da una parte all’altra della città salendo sopra ogni genere di tram o autobus numerato, quindi la macchina spesso è inutile, ma quel giorno Rita era felice, le scuole erano chiuse, la gente era partita, c’era poco traffico e quindi la città era in mano sua… sì l’auto era proprio una comodità.

    Raccolse quindi i suoi libri sparpagliati sul sedile di fianco.

    Non si capisce come mai Rita non avesse mai avuto una borsa per i suoi spartiti, ma preferisse, invece, trasportarli da una casa all’altra (dalla sua a quella dell’insegnante), in braccio come se fossero dei bambini, e non le importava che facesse freddo e che fosse scomodo portarli in tram con l’ingombro di una sciarpa che penzola e con guanti goffissimi per proteggersi dal gelo o che facesse talmente caldo da lasciare aloni di sudore sulle copertine: Rita se li voleva portare in braccio.

    Durante il tragitto li apriva a caso. Improvvisamente colta da dubbi ripassava a memoria le note, le diteggiature, tamburellava sugli spartiti cercando di verificare se fosse pronta, mentre con l’altra mano si teneva ai bastoni dell’autobus come avrebbe fatto Schubert. Cioè, non stringendo con il pugno la pertica messa a disposizione dalla ATM (Azienda Trasporti Milanese) per quello scopo: no lei non faceva così! Durante il viaggio cercava di mantenere l’equilibrio inforcando l’asta tra il dito indice e il medio, poi tra il medio e l’anulare, prima con la mano destra e poi con la sinistra, per cercare di allargare, divaricare e, perché no anche fratturare, quanto più possibile l’apertura tra le dita della sua mano non proprio da pianista.

    La borsa sarebbe stata solo di impiccio a tutta questa ginnastica fisica e mentale, i libri le servivano in mano.

    Ma Rita in questa giornata era in macchina; spense il motore, si girò a destra verso il lato passeggero, guardò i libri, li riunì e raccolse ai piedi del sedile quello di Chabrier, il più leggero tra tutti, perché era volato per terra sul tappetino.

    A Rita, una volta dentro il cortile, piaceva arrivare molto velocemente in fondo alla prima curva, quella messa a novanta gradi, per fare la sgommata tipo rally o meglio tipo zarro per cui tutto ciò che poteva volare da qualche parte con quella manovra certamente l’avrebbe fatto.

    Anni più tardi questa manovra cretina le costò il cellulare che, attraversando il cruscotto coast to coast, uscì dal finestrino aperto andando a fracassarsi in tre pezzi sui sanpietrini; ecco, da quella volta smise.

    Rita prese la borsa che invece si trovava sul sedile dietro (perché prudentemente evitava che mani lunghe potessero sfilargliela dal finestrino aperto) e con una sequenza routinaria scese dall’auto, chiuse lo sportello, inserì l’antifurto ed uscì per chiudere le due ante del box.

    A questo punto, quando tutto oramai è compiuto (e tu sei finalmente a casa, non stai più guidando, quindi sei salvo e nulla ti può più accadere), a questo punto Rita sfilò dal suolo il gancio che tratteneva la porta del box, allungò la mano destra per chiudere la seconda anta del box e proprio in quel momento, all’improvviso, senza alcun sospetto, senza avvisaglie, una tromba d’aria si impossessò del suo corpo sollevandola da terra, facendole cadere dalle braccia tutto quello che aveva e, come sulle note di una danza macabra, arrotolata su se stessa, lanciata come una palla di sterpi, di quelle che vengono soffiate dal vento dietro le spalle dei pistoleri nei film western, Rita si scontrò con un muro, distante circa trenta metri dal suo box.

    Mille sensazioni albergavano nella sua mente: disagio, nausea, vertigini, irrequietezza, PAURA, ma lei continuava a volteggiare anche da ferma.

    "Ma chi è che gira? Sono io? È la terra? Perché non riesco a fermarmi? Dove sto andando? Chi mi trascina? Aiuto!!!

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