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46°10’00’’ n 5°16’60’’ e
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E-book248 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Un'amicizia nata sui banchi di scuola, la passione per la bicicletta, le nottate trascorse in cantina. Crescere, perdendosi. Ritrovarsi per correre la gara della vita. Ad ognuno la sua sorte, celebrata nel ricordo di chi resta. E tre salite ancora da fare...
LinguaItaliano
Data di uscita3 apr 2019
ISBN9788831612210
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    Anteprima del libro

    46°10’00’’ n 5°16’60’’ e - Mario Taddeucci Sassolini

    Filippo

    Parte prima

    GRANFONDO

    Pedalo da sempre. Lungo i rettilinei e le curve, che dall'infanzia portano ad una età considerata adulta, con una piccola bicicletta in testa che non smette di farmi girare in tondo, su questa terra tonda, come se la vocazione principale della bicicletta fosse smussare gli angoli del mondo... Il mio percorso ciclistico è una linea della vita su una macchina del tempo che viaggia a ritroso. Più pedalo più ricordo. È uno degli incantesimi della bicicletta quello di riportarmi indietro, mentre pedalo....

    Éric Fottorino, Piccolo elogio della bicicletta.

    IL PROLOGO

    I veri amici sono i solitari insieme A. Bonnard

    Esiste un prologo, in ogni accadimento.

    Ho imparato che esiste un prologo nelle cose d'amore, una annunciazione, un riflesso intuìto, una cosa buona.

    Poi esiste un prologo nel decadimento dei sentimenti, corre su di una parallela asettica, conformistica, anestetizzante e, per finire, scema nei simboli concitati, nella asserzione, nei timbri a secco.

    Infine esiste un prologo che è, al tempo stesso, annunciazione e sofferenza, allineamento con le cose della vita e pianto vero. Ha qualcosa a che fare con una certa spossatezza, che ognuno di noi riconduce alla primavera; poi scopri che sei l'unico ad avere frainteso una fioritura con una metastasi.

    Dunque esiste un prologo, che prepara ad una corsa dove si allineano teorie e intenzioni, regole e scatti in avanti e che si manifesta attraverso un perfettibile riferimento a concetti per iniziati: ilmetro, che è auspicio in potenza e misura ingenerosa in atto; il gruppo, che è una regola di azione e non un convincimento; la solitudine, che è il dono di ogni salita sofferta; il cuore, che scandisce l'ascensione, l'amicizia, che la certifica, secondo una differenza palesemente ostentata.

    Esiste, anche, una grammatica, in questo antefatto: si tratta di essere ruvidi, al limite del non commestibile. Si tratta di essere inverosimili, quanto la verità addomesticata odora di mezze misure e compiacimenti. Si tratta di essere poco comprensibili, quanto è vero che pochi sanno che la misura della parola non è la cognizione ma il suono, specie quando pensi, riassetti, contempli, definisci, pedalando in un giorno di sole, abbracciando un amico o teorizzando un amore.

    Di adorne...

    29 giugno 2013, Corvara, ore 16, consegna pettorali Granfondo.

    - Lei?

    - Lei che?

    - Il documento.

    - Il documento ve l'ho inviato per mail, insieme alla tessera ed al certificato medico.

    - Non è arrivato.

    - Lei non lo sa, immagino perché è troppo impegnato a spazzolare quella giacca di lana cotta che oggi indossa tronfio e che portava mio nonno quando fece la prima comunione con Crispi, ma esiste la posta elettronica certificata.

    - Io qui non ce l'ho.

    - Bene, ne sono felice, perché adesso io mi accampo davanti al suo tavolo fino a quando il suo intelletto si fa un dono e pensa, con gratitudine, che quella che le sto esibendo è la fotocopia di una mail che mi dice che lei ha ricevuto quei documenti.

    - Senta insomma... Pettorale n. 1927.

    - Insomma non suona come un grazie. Ma è più imbarazzato e tanto mi basta.

    §                  §                  §

    - Lei?

    - Buongiorno.

    - Si, buongiorno, i documenti?

    - Mi perdoni, non me ne voglia, ma avanti al buongiorno non si mette nulla. Le spiace togliere quel si che sa tanto di ufficio del catasto?

    - Senta, insomma, io ho bisogno dei documenti.

    - Insomma è fanciullesco. Insomma si dice alla mamma, quando non si trovano altre parole, figlio mio. Provi a farsi guidare dal suo intuito cromatico. Secondo lei, in una cartellina celeste, un inserto rosso non sarà mica qualcosa che aspetta di essere letto?

    - Ah, già. Pettorale n. 411.

    - Ah già, che meraviglia imbattersi nella consapevolezza inconsapevole, insomma lei è un ossimoro di uomo, resti così, nella sua monumentale fissità, e ringrazi che giusto oggi non mi sento bene.

    §                  §                  §

    - Lei?

    - Io?

    - Si, lei?

    - Non saprei, ma se gradisce andiamo avanti un paio d'ore. Come diceva Eliot solo attraverso il tempo si vince il tempo.

    - I documenti, deve darmi i documenti.

    - I documenti... Intende quelli che dovevano accompagnare l'iscrizione?

    - Certo e quali sennò?

    - Be' non si sottovaluti. Magari mi poteva chiedere, che so io, documenti vari, sparsi, eventuali...

    - Senta mi vuole dare questi documenti o no?

    - Io credo di essermeli dimenticati, ecco.

    - Bene, allora lei non parte

    - Aspetti, aspetti, che cosa sta dicendo, lui parte, eccome se parte.

    - Di nuovo lei?

    - Sì, sa io sono la sua ossessione, si rassegni, nella mail le ho inviato anche i suoi documenti.

    - Veramente nella copia che mi ha dato c'erano solo i suoi.

    - Sicché per porre rimedio alla sua inettitudine, oltre che al suo scarso gusto nello scegliere le camicie, secondo lei io devo girare con l'archivio delle mail che le ho inviato? Sto perdendo la pazienza...

    - Va bene va bene, il suo amico ha il pettorale n. 1088.

    §                  §                  §

    - Ma io i documenti li avevo dimenticati davvero.

    - Lo so, demente.

    13 ottobre 1980, ore 11,12, Liceo Classico N. Machiavelli, bagno alunni maschi, piano terra.

    - Allora da dove cominciamo?

    - Ancora non siamo tutti.

    - Chi manca?

    - Manca quello.

    - Col cazzo che l'aspetto, ringrazi il cielo che non lo sfondiamo di schiaffi.

    - Non l'abbiamo mai fatto, perché dovremmo iniziare proprio oggi?

    - Sei insopportabilmente normalizzante.

    - Salve.

    - Salve che cazzo vuol dire?

    - Vuol dire salve, faccia di merda. Ho omesso faccia di merda, ma vedo che ti manca qualcosa, se vuoi rimedio.

    - Ragazzi non iniziate.

    - Mi manca di prenderti a schiaffi, mi manca da tempo sai... quei vuoti che via via si stratificano...

    - Sai... quelle facce di merda che via via si consolidano?

    - Smettetela. Vi rendete conto che hanno riparato il termosifone, il che significa che tra 24 ore esatte ricominciano le lezioni, segnatamente la Tavolari, tre ore secche di greco su tre sezioni, ne usciremo defunti.

    - Da noi arriva all'ultimo, la prendiamo per stanchezza. Tipo l'anno scorso che ebbe un esaurimento nervoso perché col cappuccio della penna Bic feci una stradina lunga lunga nell'intonaco della parete in fondo alla classe, che venne giù tutta insieme, sei metri quadri di intonaco e una settimana di sciopero contro il governo che non garantisce una scuola sicura.

    - Sei stato tu? Ha fatto il giro del liceo la notizia...

    - Certo, talune applicazioni manuali son sempre state il mio mondo ordinato, la mia costellazione dedicata.

    - Un fascista che scardina un muro col cappuccio di una Bic. Questa la racconto.

    - Non la raccontare, demente, che me lo fanno pagare.

    - Ora che si fa, cazzo. Io non ce la faccio domani, la Tavolari non posso assimilarla nelle condizioni in cui sono.

    - Mi pari in carne, giovanotto, e pure normodotato. Quale sarebbe il problema?

    - Il problema è quella che l'anno scorso stava in terza G, e che adesso s'è iscritta a Giurisprudenza. Quella che veniva a vederci giocare a calcio al campo Padovani a tette di fuori, e guardava sempre da un'altra parte.

    - Non è vero.

    - Te la trombi?

    - Sei volgare, fascista e volgare. Non è vero.

    - No, aspetta, fascista è fascista. Ma la curiosità è legittima. Te la trombi?

    - Io rifiuto di assecondare le vostre morbosità da carrozza di terza classe.

    - Le vostre... Ma come parli?

    - La palestra!

    - La?

    - La palestra...

    - Che vuol dire?

    - Lotta fantastica per la ginnastica, abbiamo una palestra che cade a pezzi, io ho bisogno di un’attività motoria adeguata, mens sana in corpore sano...

    - Ma sentilo, fascista e pure raffinato latinista. Ti consiglio di dare ripetizioni, affinché codesta scienza si perpetui...

    - No, aspetta, ha ragione, la palestra è un’oscenità.

    - Appunto, insisto. Lotta fantastica per la ginnastica.

    - Ne convengo.

    - Ne?

    - Convengo...

    - Ma come cazzo parli... Stasera in cantina da me, che ci organizziamo.

    - Prendete anche un fascista, in cantina?

    - Se porta da bere.

    - Porto da bere. E le carte, fenomeni.

    - Aggiudicato.

    - Semel in anno licet insanire.

    - Ma come parli...

    PETTORALE N. 1927

    Mi ricordo quanto era limpida la mattina, la conseguenza di un freddo non declinato nel corso di una notte solo umida. Nessuno sa davvero fissare quel momento, quando la nebbia vira, diventando freddo, e l'aria si ferma: gli unici che lo sanno sono i vignaioli di Château Mouton Rothschild.

    Venivo giù dalla via Bolognese, sulla mia vespa nera - nera, regalatami da mio padre perché, dopo avere toccato il fondo in un dimenticabile primo quadrimestre di quarta ginnasio, mi ero risollevato, accasandomi nella terra scolastica di nessuno, dove bravo non sei e coglione non sei.

    Sei un invisibile 6.

    Dunque la mattina.

    Fredda e neutra, una lastra da disegnare, con insolenza, distrazione, supponenza, quanto è vero che ad una certa età (nel caso di specie 18 anni) si è a perdere, come i vuoti della birra. O come i fiori piantati per una sola stagione, che sanno di avere vita breve, e sparano missili cromatici ad altezza d'uomo.

    In quelle mattine rassegnavo certe asperità, tutte mie, al servizio di un’amicizia straordinariamente non interessata.

    C’eravamo incontrati per caso.

    Sciopero, termosifone, missili, ma che ne so... eravamo una macedonia: ortodossi di sinistra, liberali con la cravatta, taluni socialdemocratici (ho sempre avuto il sospetto che si drogassero, ma non ho mai avuto le prove) eduna falange insopportabile, qualificata di destra e se ci avessero conosciuto davvero, a nessuno sarebbe venuto in mente di picchiarci perché, nonostante fossimo poche e sparute unità, riuscivamo a distinguerci, odiosamente, al nostro interno, secondo fazioni davvero incomunicabili: rautiani, almirantiani e, poi, non ortodossi allineati su Terza Posizione (io).

    Fuori da questi perimetri, fragili davvero, sopravvenne un vincolo, avvincendoci, in una mattina di ottobre - figurarsi - nei bagni al piano terra, ove stilammo una specie di armistizio; già disincantati, diventammo, invero, l'altrove di ognuno di noi. Intendo dire: avevamo imparato ad essere il primo perimetro conoscibile dell'altro, una volta che ognuno, quale sommo gesto eccentrico, fosse uscito dal suo immobile guscio.

    Una meraviglia davvero.

    Sono note disinteressate, quelle che suonano in questi frangenti.

    Ti scegli per elezione, e non per necessità.

    Basta una notte, una stellata, una sbronza e il destino ti consegna questa meraviglia.

    È una stagione breve, sei una lucciola curiosa e hai un solo, dedicato, buio.

    In quel dove costruisci il resto della tua banale, non sussultante, vita.

    Spera, io dico spera, d'esser sveglio, in quella formidabile notte.

    Capita che arrivino, a pioggia, amori, amicizie, stupori, insomma cose per sempre, ma davvero per sempre.

    Sono cieli stellati, uno per ognuno di noi.

    La fortuna pare essere questa: essere, in un giorno perfetto, e senza nuvole, sotto quel perfetto cielo.

    §                  §                  §

    Rincorrersi sui viali di Firenze è gioco innocente.

    Semini il segugio, in prima battuta.

    Poi ti ritrovi, come se esistessero dei riferimenti taciti ed universalmente riconosciuti.

    Il cinema Principe. Il bar Cavour. Piazza Savonarola.

    Con la mia vespa nera-nera avevo deciso di rincorrere certi fantasmi, a Firenze. Smarrire le mie intime fragilità, incompatibili con un nobile cavaliere celtico che cavalcava nel mio perimetro ardimentoso.

    Figurarsi, le ritrovavo ovunque, quelle bolle d'aria.

    Poi, nell'ordine: dovevo spiegarmi perché non ero adatto a conversare con il resto del mondo; con il sesso femminile, segnatamente; con C, bionda e sorridente e strepitosa amazzone, che attentava ai miei 17 anni dall'alto dei suoi 21.

    Compensavo, in ordine sparso: il cineforum all'Esperia, i manifesti su Acca Larentia, Ramelli, i compagni con la Hazet, la cantina, Battisti che canta Vento nel vento, F. con il suo seno nervosissimo, Terza C contro Prima C (ed una mia rete di testa in netto anticipo sul portiere e quelle morettine della B giù con gli applausi...)

    Ho avuto una gran fortuna, io penso.

    Troppa scelta, per scegliere.

    È stata la mia salvezza, in fondo.

    Potevo finire ovunque, in piena e totale dedizione alla causa (politica, ormonale, del contropiede).

    Non ho preferito niente.

    Rinviando a tempi migliori un amore non corrisposto, nei fatti; non compreso, nella mia immaturaintimità.

    Rinviando anche il mio appuntamento con le cose supreme della politica, finite in cantina, in un confronto ardimentoso e sincero, lucido, destabilizzante.

    Rinviando, infine, la mia carriera calcistica, che mi vedeva lezioso ed inutile, lento e raramentetecnico, capace solo di risse memorabili e contegni sinceramente antisportivi (che condussero mio padre ad una ritirata vergognosa dagli spalti, l'unica volta che venne a vedermi quando, per cinque esatti minuti, ignorando la partita, mi sputai in faccia con un tipo di Catanzaro, che parlava un italiano improbabile e giocava un calcio troppo veloce per me).

    Ero troppo giudicabile, tali apparivano le mie acuzie.

    Scelsi chi non mi giudicava.

    In cantina valevano, alternativamente: i decibel, la citazione dotta (spesso non conferente), la migliore bottiglia offerta, la migliore mano a poker, la migliore mattina, se trovava sveglio l'insofferente della notte, la medaglia d'oro del consesso serotino.

    Poi mi ruppi il ginocchio, durante una partita di metà settimana, scalciando a vuoto un ciuffetto che mi faceva tunnel e finte, tunnel e finte, sorridendo.

    Che se lo prendo...

    Non lo presi: fu gesso 20 giorni.

    E poi montai su una bici, a mo' di rieducazione.

    E non ne sono più sceso.

    Così, proprio così, ho smesso di rincorrere fantasmi.

    Sui viali.

    A Firenze.

    PETTORALE N. 1088

    Io sfido chiunque a scoprire d’essere, in piena adolescenza, l’unità di misura della altrui inettitudine.

    Bellizzi, tu sei più ignorante di M.

    Rigoni, questa suprema castroneria non l'avrebbe detta nemmeno M.

    Dopodiché, siccome il corpo docente aveva un ragionevole senso di colpa nei confronti di M, arrivavano gli scrutini e M portava a casa un immotivato 6.

    Con la conseguenza che M nulla di nulla sapeva. E nessuno, a proposito di M, sapeva nulla.

    Dunque trascorsero mesi, poi anni, nel corso dei quali M era invisibile, un paragone ormai astratto, codificato: non era amato, ma nemmeno odiato.

    Pian piano imparò a fare della sua invisibilità un’arma da guerra.

    Ovunque fosse, non si notava.

    Entrò in certi collettivi, giravano molotov e cattivi propositi, e M contava quanto il giornale del giorno prima, mentre si progettava la rivoluzione.

    In una manifestazione, nonostante M si fosse messo un fazzoletto rosso a coprire il volto, un celerino lo ignorò, letteralmente scansandolo, per manganellare quello dietro di lui.

    Siccome, in fin dei conti, non stava sul cazzo a nessuno, M parlava con tutti, senza passare per collaborazionista.

    Parlo di me stesso in terza persona.

    Un guaio.

    Col senno di poi credo che non ci saremmo conosciuti, se quella mattina non fossimo stati nel bagno al piano terra, davanti alla seconda C, quando firmammo con l'inchiostro della nostra irrequietudine un contratto meraviglioso, un vincolo supremo.

    Ero un notaio, credibile, invisibile (credibile perché invisibile): ai miei rogiti diventammo un’unica cosa.

    Da allora.

    E per il resto dei nostri giorni.

    Perfetti, a mio modo di vedere.

    Che dico.

    Perfetti, M sostiene.

    §                  §                  §

    Non c'è rimedio.

    Ogni volta che vedo la sua immagine così fissa, distratta, giudicante, sul comodino, dall'altra parte del letto (dopo la separazione ho lasciato intatti fotografia, comodino e letto e ce ne vuole di fantasia...), quella posa che la colse, a maggio, sulle tribune di un campo di calcio dove era venuta a vedermi.A vedermi... Con quello sguardo altrove...

    Ne parlai in cantina, una sera che avevamo le chitarre e la bottiglia di whisky in mano. Ne parlai al coro, e il coro rispose: lei è omega quanto tu sei alfa.

    Ascoltavamo blues in stretta sequenza, quella sera.

    Litigammo: chi evocava l'istinto, chi la regola, chi la mano nuova. Litigammo di tutto, su tutto e ci addormentammo con il proposito, negli anni a venire, di protestare per cose irragionevoli ma rigorosamente inattuali; insomma, ci convincemmo che la tradizione doveva essere una condizione permanente enon un auspicio, una controrivoluzione che dichiarasse la novità, qualunque novità, un attentato.

    Poi un esteta del tempo, che di seguito ho appreso essere neo, ma davvero neo, fascista (ed, evidentemente, cultore del neopragmatismo) sentenziò: Ogni verità è una regola d'azione. Dunque lascia passare le stagioni. Questa è la cura.

    Fu un pensiero assertivo ma lineare e mai di così puri io ne ebbi in dono, in vita mia.

    Da quel momento è il mio caro amico, la terza parte del tutto.

    Uscii dal collettivo (rectius, Collettivo con la C maiuscola, cosa della quale, peraltro, nessuno ebbe ad accorgersi) ed entrai nella cantina dove si pronunciavano sentenze, dove gliinerti logici, quelli che residuano quando hai usato tutto il propellente di un ragionamento, finivano per fare da spessore alla zampa del tavolo apparecchiato di verde, mentre giocavamo a carte.

    Alle cronache consegno una stretta verità,

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