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Motel Flamingo
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E-book288 pagine3 ore

Motel Flamingo

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Info su questo ebook

In una torrida notte d'estate una misteriosa nube acida costringe Samira, una giovane prostituta impertinente, e Tobias, il taciturno cameriere di una tavola calda, a trovare riparo in un vecchio motel di periferia... ma tra quelle fatiscenti mura e vecchie moquette non saranno soli.

Chi si cela dietro l'emblematica figura di Blackbird? Chi è la bambina che si aggira fra i corridoi abbandonati? Cosa contiene la borsa marrone da cui Escobar non si separa mai?

Atmosfere dark e decadenti faranno da sfondo a questo thriller incalzante al limite del surreale, fino all'inesorabile epilogo.
LinguaItaliano
EditoreKoi Press
Data di uscita21 ago 2020
ISBN9788885769267
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    Anteprima del libro

    Motel Flamingo - Sleeping Monster

    FLAMINGO

    PARTE PRIMA

    Samira & Tobias

    Samira

    L'alberello un tempo profumato appeso allo specchietto retrovisore ondeggia come in preda a conati di vomito. Il ricordo del bergamotto è stato sostituito da fumo di sigaretta e cipolla.

    Samira ne segue il movimento sullo sfondo di una notte stellata. È stesa sul sedile reclinato del passeggero mentre il bisonte da un quintale sopra di lei spinge con colpi lenti. Una zanzara le ha punto la caviglia, la terza in quella serata, sempre nello stesso punto. Si gratta sulla manovella del finestrino provando, in quella sgradevole situazione, un leggero senso di piacere.

    «Amore, non vorrei metterti fretta... ma...» fa notare Samira scansando una pioggia di sudore acido colante dalla fronte dell'uomo.

    L'ammasso di lardo accelera il ritmo fino a emettere un grugnito soffocato. Da bambina, insieme al nonno, aveva assistito molte volte all’uccisione del maiale. Era un momento di allegria e gioia per la famiglia che avrebbe avuto di che mangiare per settimane. Inizialmente il grugnito era stridulo, acuto, quando ancora la bestia credeva di poter reagire e combattere la morte. Quel suono si faceva poi grave, soffocato, sfinito. Suo nonno dal sangue della bestia ne ricavava una bevanda mista al cioccolato. «Assaggia...», le diceva porgendole la tazza col liquido scuro, «è il sanguinaccio.» Samira ogni volta appoggiava le labbra ma uno spasmo allo stomaco la frenava prima che una sola goccia le bagnasse le labbra. «Assaggia Samira. Non sarà la cosa peggiore che dovrai buttare giù nella vita.»

    L’ultima volta Samira diede retta al vecchio, e si decise a buttare giù il liquido tutto in un sorso. Cercò di trattenerlo ma lo stimolo fu più forte di lei. Lui le tenne i capelli mentre vomitava nel lavandino della stalla.

    Quanto avevi ragione vecchio, pensa Samira cercando di divincolarsi.

    «Bravo amore, ora togliti però.» Il suo braccio è minuto ed esile, ma basta la fastidiosa pressione del pugno sul costato per farlo spostare.

    Il volto dell'uomo è rosso paonazzo, il fiato ancora corto. La barba arruffata rossastra è mista all'unto di un fritto scadente. Il sudore che filtra tra gli ispidi filamenti riflette la luce dell’unico lampione che illumina il piazzale del parcheggio.

    «50...» ricorda Samira sistemandosi.

    «Facciamo quaranta» replica lui allungando due pezzi da venti.

    «Scusa?» la voce fino ad allora dolce flette su un tono decisamente meno accogliente.

    «La prossima volta ti faccio un regalo, promesso» risponde l’uomo sistemandosi la cintura a tentoni sotto l’ingombrante pancia.

    «Zgarcit» sussurra Samira nella lingua di sua nonna. «La vedi quella macchina coi vetri scuri parcheggiata lì?» fa cenno col dito.

    L'uomo alza lo sguardo sul parcheggio male illuminato senza annuire.

    «Se non esco ora da questo cesso di macchina con i miei 50, quelli ti grigliano e ti danno in pasto ai cani.»

    L'uomo non sembra interessato: «Uh… che paura... anzi facciamo che ti levi e ti pago la prossima volta.»

    Dall’altro lato del parcheggio, due fari circolari lampeggiano con insistenza nella loro direzione.

    «Li hai fatti incazzare. Bravo coglione. Fossi in te non li farei scendere.»

    La sicurezza del panzone vacilla all'insistenza delle luci ora abbaglianti.

    Tira fuori il pezzo da dieci accartocciato e glielo tira addosso congedandola malamente: «Sparisci puttana...»

    Samira esce dalla macchina lasciando la portiera spalancata e con il pugno destro alzato e il dito medio bene in vista. Allontanandosi sente la voce dell'uomo imprecare i diversi nomi della sua professione.

    Le ruote stridono sull'asfalto caldo di quella serata di luglio. Zanzare le sussurrano all'orecchio che anche questa volta le è andata bene, ma non sarà sempre così. La ragazza del parcheggio del supermercato, Tanja, è stata trovata per terra in fin di vita, massacrata da qualche svitato. Tolto il fatto che aveva passato più della metà della vita in galera e che era una tossica, era una tipa a posto secondo Samira.

    Attende che l'uomo sia ormai lontano prima di tornare sui suoi passi e raggiungere la macchina con i fanali accesi. Non ha fretta anche se fa fatica a convivere con l'odore aspro del sudore del gonzo intriso nei vestiti.

    La luce dall'auto continua a pulsare imperterrita, come il cane che abbaiava legato al palo quando da bambina attraversava il cancello della casa dei vicini.

    Apre lo sportello del posto di guida, vuoto, come il resto dell'abitacolo che odora di vecchio e piscio.

    Preme sul pulsante di un timer ingiallito allacciato a dei cavi che sporgono dal cruscotto legati assieme con dello scotch nero. Una scintilla poco promettente fa sussultare il quadro luci. Samira sospira stanca.

    «Non mi piantare in asso proprio adesso» prega chiudendo lo sportello dell'auto abbandonata. Le ruote tagliate si sono deformate sotto il peso della spessa carrozzeria, non ha targhe su nessun lato e i sedili posteriori sono stati sventrati con qualche oggetto tagliente lasciando dei lembi di finta pelle aperti con le interiora di spugna in vista. Nessuno sa dire da quanto tempo sia lì. La teoria più probabile è che lo sia sempre stata. È un modello vecchio di almeno vent’anni, che dallo stato malandato della carrozzeria si direbbero almeno il doppio, e che Samira non ha mai visto in circolazione. Chiude lo sportello lentamente, più per la paura che cada tutto a pezzi che per un ritrovato senso di rispetto per quel vecchio cimelio urbano. Appeso allo specchietto retrovisore un dado di peluche rosso oscilla leggermente appeso a una cordicella nera.

    Lo stomaco di Samira si unisce al ronzio delle zanzare. Ha fame. Non mangia dal mattino, se così si può definire uno snack alle nocciole accompagnato da una lattina di Doctor Pepper.

    L'orologio che ha al polso segna un quarto alle cinque.

    La tavola calda dall’insegna lampeggiante color arachide chiuderà fra mezz'ora. Più che sufficiente, valuta accorciando la distanza fra lei e la porta.

    Esce sazia in meno di un quarto d’ora. Attraversa il parcheggio come una falena attratta da una luce al neon esausta.

    MOTEL FLAMINGO

    recita l’insegna.

    Alla reception un uomo scheletrico di mezza età e senza un braccio la degna appena di un'occhiata. Riporta subito l'attenzione sul televisore in bianco e nero appoggiato sul bancone. È un film degli anni quaranta, con gente in frac che balla il tip-tap circondata da bellissime donne dalle pettinature scolpite nella lacca spray.

    Le allunga l'unica mano rimastagli, rimanendo concentrato sulla piroetta di una donna vestita di bianco. Samira, che aveva accelerato il passo per scampare a quel momento, si ferma rassegnata. Rovista nella borsetta guardando sul soffitto le crepe dell'intonaco provocate da qualche infiltrazione d'acqua.

    Sfodera due pezzi da venti, il resto di quanto lanciatole dal panzone, e li appoggia sulla mano ossuta.

    «Questo vale per ieri...»

    «È un miracolo se ho tirato su questi.»

    «La ragazza delle pulizie si è data malata» patteggia l'uomo senza attendere risposta.

    Samira risale le scale che portano al primo piano alzando gli occhi al soffitto, indecisa se il fatto che Hatice si sia data malata sia stato un colpo di fortuna o l’ennesima serie sfortunata di eventi. I gradini sono rivestiti da una ruvida moquette scura consumata al centro. Le pareti sono ricoperte da una carta da parati scollata di color beige con un motivo floreale stilizzato ripetuto di colore poco più scuro. Attraversa il corridoio facendo affondare le suole delle scarpe da ginnastica in quella sorta di prato sintetico che attutisce ogni rumore. La stanza numero dodici si trova al termine del corridoio. In quel piccolo motel di periferia su una statale dimenticata, ci sono appena due piani di stanze, sei su ciascuno. Il secondo e ultimo piano non è mai stato completato, un grosso cartello in cima alla seconda rampa di scale penzola sospeso agli estremi da due catenelle metalliche dalle maglie sottili:

    VIETATO L’ACCESSO

    Non biasima il proprietario di quel posto, da quando è arrivata in quel luogo dimenticato non ricorda di aver mai visto più di cinque o sei stanze occupate. 

    Infila la chiave nella toppa e fa leva facendo scattare la serratura. Spinge con forza contrastando la resistenza che la molla montata sulla porta le fa, come a voler custodire gelosamente quella stanza male arredata.

    Si sfila le scarpe con i talloni e si spoglia. La moquette sotto i piedi le dà fastidio. Infila le infradito sparse per la camera e si getta sotto la doccia. Il pallore della tenda di plastica è arricchito da una fantasia floreale di muffa sulle estremità.

    Si lava i denti lasciando che il getto d’acqua le scorra sul viso fin giù su tutto il corpo. Esce ancora inzuppata sgocciolando su un asciugamano un tempo bianco. Appoggiato su un piccolo ripiano c’è il filo interdentale che si arrotola con cura sull’indice e l’anulare rispettivamente della mano destra e sinistra. Fa scorrere il filamento cerato con cura fra le gengive, pinzandolo come una corda di chitarra.

    Lo specchio appannato nasconde il viso giovane dalla pelle chiara di sua nonna, i capelli neri di sua madre e gli occhi di suo nonno. O almeno era quello che le aveva raccontato sua madre da piccola stesa nel suo letto quando Samira le chiedeva dove fosse il suo papà.

    Avvolge i capelli bagnati che le arrivano fin sopra le spalle in un turbante e si accascia sul letto sfatto, nuda. Il ventilatore, rivolto sul corpo perlato di gocce, le regala un’illusione temporanea di freschezza.

    Mentre il sole sta per sorgere attraverso le persiane irregolari le sue palpebre si fanno pesanti.

    Tobias

    L'orologio segna le 4:30 del mattino quando Sasha si toglie il grembiule con scritto Alfio’s. Si volta verso Tobias e lo avvisa che il marito della sua ragazza è partito presto per lavoro e che deve raggiungerla a casa prima che lei inizi il turno.

    «Toby, capisci vero?» domanda con fare complice.

    «Sì certo, nessun problema.»

    «Bene. A buon rendere... amico» lo saluta sforzandosi di ammiccare un sorriso. Entrambi realizzano che la pausa prima di scandire la parola amico è stata troppo lunga, ma a nessuno dei due importa più di tanto. 

    Tobias ha già iniziato a tirare le sedie sui tavoli dell'ala est quando la due cilindri di Sasha tossisce rumorosamente sul retro. Segue le istruzioni per la chiusura che si è annotato su un foglietto la sera prima. È la seconda volta che fa il turno di notte. Prima di allora Alfio l'ha tenuto in prova coprendo i turni della mattina e del pranzo, in quella che lui definisce la gavetta.

    Durante il suo tirocinio ha aiutato in cucina e ai tavoli, si è occupato del magazzino con precisione e affidabilità. Nei piani di Alfio, Tobias avrebbe sostituito Klaus nel turno di notte insieme a Sasha da gennaio, quando sarebbe andato in pensione, ma un infarto il martedì prima ha costretto a un improvviso cambio di piani.

    La radio è sintonizzata sempre sulla stessa stazione locale che riproduce pezzi classici dei vari decenni. Il suono è diffuso in tutta la sala ma Tobias non ha mai capito dove Alfio la tenga nascosta. Parte una sequenza di canzoni rock 'n'roll degli anni '60.

    Non ne conosce nemmeno una ma il ritmo è fin da subito familiare, deve averle ascoltate in auto con i suoi genitori o in qualche centro commerciale il sabato pomeriggio.

    Termina l'ultima canzone, che lo speaker attribuisce a Elvis, per poi passare in rassegna gli eventi della giornata trascorsa.

    [...] Il premier è tornato dalla visita in Sud America dove ha stretto promettenti accordi commerciali con Brasile e Perù.

    Restano tesi i rapporti fra l'occidente e il Nord Corea, sui presunti esperimenti condotti dal neo presidente supremo. Secondo i satelliti una misteriosa nube si è addensata nelle ultime ore sopra l'India.

    Usciti i primi personal computer con il sistema operativo Windows98.

    Salgono a cento i suicidi a seguito dell'uscita dell'album Desperation Road, del controverso Blackbird. L'unico concerto, annunciato un anno fa, divide l'opinione pubblica. Nel frattempo i mille biglietti vengono venduti al mercato nero a cifre esorbitanti.

    Durante la notte dei vandali sono entrati nella chiesa di San Costantino profanandone il sepolcro, scomparsi un calice d'oro e un'icona sacra del '300.

    I lavori per il raccordo al chilometro cinquantadue proseguono a rilento, [...]

    La voce dello speaker si fa sottile mentre Tobias si immerge nell'apnea dei suoi pensieri. Trattiene il respiro in quella discesa in cui riesce a isolarsi dal mondo.

    Luci sporadiche di camion appaiono sullo sfondo nero della lunga vetrata attraversando la sua immagine riflessa come proiettili incandescenti.

    Non è a suo agio di fronte al riflesso di sé. La sua postura asimmetrica è traballante, i capelli portati lunghi e disordinati sono malamente tenuti insieme da un elastico. La barba di qualche giorno copre alcuni residui di acne adolescenziale su un viso stanco e dallo sguardo spento. L'unica nota positiva in quel miscuglio di qualunquismo sono gli occhi verdi come il fondo di una bottiglia di vetro.

    «Sei un bel ragazzo» gli aveva detto una volta la madre «...a modo tuo» aveva poco dopo specificato la donna continuando ad accoppiare i calzini sparsi nella cesta dei panni. Una donna semplice e sempre sorridente a differenza del padre, un eterno irrequieto che camminava per la casa come un animale in gabbia.

    Tobias tira una breve boccata d'aria per trattenere nuovamente il respiro nell'attesa del prossimo proiettile che lo trapasserà quando il campanello appeso alla porta annuncia una presenza.

    «Non è chiuso vero?» chiede la ragazza in modo minaccioso.

    Tobias fa cenno di no col capo. «La cucina è chiusa però.»

    La ragazza indossa una canottiera nera sopra un reggiseno color fucsia con una spallina penzolante. La gonna ricorda un tutù di danza classica se non fosse per i contorni irregolari e le macchie grigie.

    Si siede al bancone arrampicandosi sullo sgabello vicino all'espositore delle torte.

    «Tutto qui?» fa cenno con la mano con tono deluso.

    «Sì, mi dispiace.»

    «Ma di quanti anni fa è questa?» indica col dito una torta al cioccolato e nocciole.

    «Credo sia di ieri o l'altro ieri» mente Tobias attraversando la sala e raggiungendola con passo lento.

    «Dammela lo stesso... mettici tanta panna. Anzi, coprila interamente di panna, affogacela dentro.»

    Tobias avvicina il coltello al bordo per incidere.

    «Ehi... Staff» dice la ragazza leggendo sulla maglietta. «Fammi capire, già è un miracolo che te la pago, ti metti anche a fare il taccagno? Allarga allarga... ecco così... Zgarcit

    «Come scusa?»

    «Lascia stare...»

    «Comunque mi chiamo Tobias.»

    «L'ho già dimenticato... tanta panna.»

    Tobias afferra il cilindro della panna e lo agita con forza poi lo orienta sulla torta come se dovesse spegnere un incendio con l'estintore, ma il risultato è scarso. Uno spruzzino debole e liquido si disperde ovunque fuorché sulla torta.

    «Dimmi che ne hai un altro di quelli, Staff.»

    Tobias sente una vampata di calore sul viso. È mortificato e allo stesso tempo abituato a quella situazione. Armeggia negli armadietti senza troppe aspettative.

    «Mi spiace, riforniscono al mattino e in questo periodo in pochi prendono la panna... con questo caldo.» La giustificazione suona più come una critica alla richiesta della ragazza, ma Tobias lo realizza troppo tardi.

    «La vuoi ancora?» chiede per cortesia cercando una reazione.

    La ragazza si tiene la testa con una mano ondeggiandola in segno di rassegnazione.

    «Che sfortuna cazzo.»

    Tobias si sente direttamente colpevole per l'accaduto.

    «Hai delle uova?»

    «Sì...»

    «Dammene tre intere e due bicchieri da whisky.»

    Tobias la guarda incredulo obbedendo.

    Prende le uova e le apre in due lasciando che il tuorlo arancione si spappoli nel bicchiere da whisky. Il resto lo getta nel secondo. Quando i tre ovuli di gallina galleggiano l'uno sull'altro afferra un cucchiaino dal cesto delle posate vicino al lavandino. Lo immerge nella zuccheriera ancora bagnato, tre o quattro volte, riversandone il contenuto nel bicchiere. Il resto rimane incollato alla superficie.

    Con veemenza inizia a sbattere il tutto fino a quando quella poltiglia inizia ad assumere la forma di una crema densa.

    «Cosa aspetti, Staff... taglia quella mattonella.»

    Tobias deve fare molta pressione prima che la torta al cioccolato e nocciole, della settimana prima, si arrenda. La porge sul piattino mentre la ragazza tiene il bicchiere inclinato sospeso nel vuoto, come se dovesse colare oro fuso nello stampo. Ne cosparge la superficie fino a coprirla del tutto.

    «Una Doctor Pepper.»

    Tobias apre il portello di una cella frigorifera sotto il bancone e dopo aver spostato il contenuto giocando a Tetris ne sfila una lattina di Doctor Pepper rossa.

    «E la forchetta? Vuoi che la mangi con le mani?»

    «Ecco, scusa.»

    «Ti consiglio di starmi distante, credo di puzzare come un cassonetto» gli fa cenno con la mano di allontanarsi.

    Tobias nota le unghie lunghe ognuna di un colore diverso.

    La forchetta attacca dapprima la parte più molle, la punta della torta. Il boccone è stantio e deve ammorbidirlo con un sorso di Doctor Pepper. Il viso corrucciato assume lentamente lineamenti più rilassati.

    Tobias la lascia alla sua fetta di torta, mentre torna a dedicarsi alla lista di cose da fare riportata sul foglietto. Il prossimo passaggio è rimuovere con precisione chirurgica gli ultimi fondi di caffè macinato dalla macchina di Alfio. Adagia con cura ogni pezzo metallico, pulendola in ogni minima fessura. Tobias sa quanto Alfio adori la sua ragazza.

    Il campanello della porta suona alle sue spalle. Voltandosi vede il posto vuoto e una banconota da dieci stropicciata vicino al piattino di ceramica bianca cosparso di briciole.

    La segue con lo sguardo mentre attraversa il parcheggio che la stazione di rifornimento ha in comune con il Motel Flamingo, la sua sagoma si fa ad ogni passo più piccola fin quando non ne viene inghiottita al suo interno.

    Tobias torna alla macchina del caffè, scoprendo nel riflesso lucido di avere un leggero sorriso sulle labbra.

    Samira

    I cardini della porta incassano i tre colpi secchi senza cedere.

    Samira si trascina alla porta vestita con una t-shirt di tre taglie più grande su cui è stampato il logo di un autolavaggio con un grosso pappagallo con gli occhiali da sole seduto su una macchina decapottabile.

    «Non staccare il telefono» è il buongiorno che le dà l'uomo della reception con un grugno stampato sul volto.

    Samira annuisce ciondolando con la testa, aggrappata allo stipite. «Ma non dormi mai tu?» chiede noncurante di ricevere una risposta. La luce al neon è pungente, di riflesso tiene un occhio aperto e uno chiuso, per scongiurare la possibilità che ne possa restare accecata per sempre.

    L'uomo fa cenno con la testa indicando il carrello con le lenzuola e tutto il necessario per rifare le stanze.

    Le consegna quattro portachiavi numerati pesanti come mattoni su cui sono appese altrettante chiavi. Samira, il suo, deve averlo lasciato da qualche parte nella stanza ma non ricorda di averlo visto da settimane, si è limitata a legare la sua chiave a un elastico fosforescente fucsia che tiene al polso quando lavora. 

    «Dopo queste mi devi ancora venti» sottolinea l’uomo tornando sui suoi passi sulla moquette logora color cattivo gusto.

    Richiude la porta della stanza dietro di sé ed entra in bagno cercando di ignorare le due borse nere sotto gli occhi. Si siede sulla tazza con il braccio appoggiato sul lavandino che usa come cuscino mentre urina lentamente. Fissa le piastrelle anonime mentre le palpebre si fanno pesanti, quando quel quadro incolore viene tagliato da qualcosa. Una blatta nera grande quanto una moneta si muove veloce in linea retta puntando i suoi piedi dalle unghie policromatiche. Con un balzo si alza dalla tazza lanciandosi fuori dalla porta sulla moquette della camera.

    «Che schifo...» commenta tirando su gli slip.

    Raggiunge la toppa della porta della stanza numero otto, quattro porte prima della sua che le pesano come cento passi.

    Dà un'occhiata sommaria in piedi in mezzo alla stanza, come farebbe un investigatore sulla scena di un crimine, ma senza la sigaretta in bocca

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