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Stazione omicidi. Vittima numero 2
Stazione omicidi. Vittima numero 2
Stazione omicidi. Vittima numero 2
E-book465 pagine6 ore

Stazione omicidi. Vittima numero 2

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Info su questo ebook

Un grande thriller

A capo di un giro di spaccio di una nuova e potente droga, Flavio Gambari è ormai diventato un boss della mala romana. I suoi complici formano una gang inclassificabile ma temibile: Vasile, il romeno che viene dalla schiavitù dei campi rom; Jean Luc, ex gangster marsigliese vissuto in strada per sfuggire a una vecchia faida interna alla banda delle Tre B; Marzia, la bella e spregiudicata compagna di Flavio; Felipe, che da maggiordomo e factotum è diventato il contatto con gli spacciatori d’oltreoceano. L’ascesa criminale del gruppo, però, scatena rivalità negli ambienti malavitosi della capitale. È una vera e propria guerra quella che la gang si trova a fronteggiare: sequestri, ricatti, omicidi efferati. Ed è a questo punto che l’ispettore Bruno Pelizzi comincia la sua solitaria indagine sulla nuova banda di trafficanti. E allora per Flavio i nemici da affrontare non saranno più solo dei criminali...

Il maestro del thriller italiano
Finalista al Premio Strega

Una banda criminale tiene in scacco la città
Un ispettore deciso a fermare chi semina morte nella Capitale
La guerra per il dominio di Roma è appena iniziata

Hanno scritto dei suoi libri:

«Una prosa accesa e coinvolgente [...] dal ritmo mozzafiato, ogni capitolo un colpo di scena. Un libro che prende e che non si dimentica.»
Corriere della Sera

«Lugli è uno dei migliori cronisti-segugi al lavoro a Roma.»
Corrado Augias

«Lugli ha fiato narrativo, ha tenuta, appassiona.»
Giovanni Pacchiano, Il Sole 24 ore
Massimo Lugli
Giornalista di «la Repubblica», si è occupato di cronaca nera come inviato speciale per 40 anni. Ha scritto Roma Maledetta e per la Newton Compton La legge di Lupo solitario, L’Istinto del Lupo, finalista al Premio Strega, Il Carezzevole, L’adepto, Il guardiano, Gioco perverso, Ossessione proibita, La strada dei delitti, Nelmondodimezzo. Il romanzo di Mafia capitale, Stazione omicidi. Vittima numero 1 e Vittima numero 2, nella collana LIVE, La lama del rasoio. Suoi racconti sono contenuti nelle antologie Estate in giallo, Giallo Natale, Delitti di Ferragosto, Delitti di Capodanno e Delitti in vacanza. Cintura nera di karate e istruttore di tai ki kung, pratica fin da bambino le arti marziali di cui parla nei suoi romanzi.
LinguaItaliano
Data di uscita16 giu 2016
ISBN9788854194397
Stazione omicidi. Vittima numero 2

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    Anteprima del libro

    Stazione omicidi. Vittima numero 2 - Massimo Lugli

    e-narrativa.jpg

    1269

    Prima edizione ebook: giugno 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9439-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Il Paragrafo, www.paragrafo.it

    Massimo Lugli

    Stazione omicidi

    Vittima numero 2

    Newton Compton editori

    OMINO.jpg

    Prologo

    Canesecco esce dal portone del palazzo e sbatte gli occhi, accecato dalla luce. Il sole di inizio luglio è un macigno che schiaccia la borgata, l’asfalto sconnesso di via dell’Archeologia sembra bollire, riverberi come lame sulle carrozzerie delle macchine, sui vetri delle finestre, sulle cromature della Transalp ferma sul lato opposto della strada, sui caschi integrali dei due tizi in maglietta e jeans stracciati impalati, in attesa, accanto alla grossa Enduro. Canesecco lancia un’occhiata distratta in controluce e distoglie subito lo sguardo. C’è qualcosa di strano, riflette, mentre s’incammina verso la Mito che, la sera prima, ha lasciato, come al solito, sotto a un lampione nella vaga speranza che nessuno gliela fregasse.

    Caldo di merda, la testa che pulsa come basso di una band heavy metal, gorgoglii preoccupanti alla bocca dello stomaco. Canesecco considera vagamente l’idea di spararsi un caffè al bar, tanto per svegliarsi un po’, ma un’occhiata al Rolex patacca che porta al polso lo dissuade. Er Chiodo l’aspetta a mezzogiorno in punto e con quel morammazzato c’è poco da scherzare: peggio di un crucco, con quella mania della puntualità. ’Fanculo anche al Chiodo, ma gli tocca abbozzare, è il suo capozona, comanda lui e stop. Funziona così, almeno fino a quando Canesecco non si deciderà a mettersi in proprio e farsi affidare una piazza, ma, per fare il salto di qualità deve dimostrarsi affidabile, e questionare con quel maniaco del Chiodo non è assolutamente un buon modo di cominciare.

    La pancia gli continua a borbottare mentre Canesecco controlla la carrozzeria e respira di sollievo: neanche un graffio. Un’auto come quella Mito, a Tor Bella, è sempre un rischio: minimo te la fregano per il cavallo di ritorno, un riscatto di mille, millecinquecento euro per restituirtela e niente denuncia. Per non parlare di quelle merde degli zingarelli che di notte vanno a caccia di gomme da bucare e carrozzerie da distruggere per puro vandalismo, armati di punteruoli e cacciavite. Ma Canesecco non ha resistito. Il tizio che gliel’ha venduta stava sotto schiaffo coi cravattari, aveva la rata in scadenza e un’ottima probabilità di uscirne con le ginocchia spezzate e cercava disperatamente una boccata d’ossigeno. Canesecco ci ha buttato tutti i soldi che aveva: ottomila euro cash ma, cazzo, ne valeva la pena: venticinquemila chilometri e ancora l’odore di nuovo. Ogni volta che si mette al volante si sente un re. Un uomo, a quarantacinque anni, ha bisogno di qualche soddisfazione, nella vita, altrimenti a che serve farsi il mazzo un giorno sì e l’altro pure? E al diavolo Sandra, che continua a dargli il pilotto, ha messo su un muso che neanche un alce e si rifiuta di aprire le gambe da una settimana. L’affitto può aspettare, le bollette pure, e quanto alla spesa basta e avanza quello che c’è in frigo, tanto come cuoca fa veramente schifo. La Mito no, non poteva aspettare, com’è che si dice? Canesecco si scervella per ricordarsi quella frase che ha sentito in tivù… Ah sì, carpa die o qualcosa del genere, cogli l’attimo. Ecco, lui è uno che coglie l’attimo. Il pensiero lo fa sentire subito meglio, perfino la morsa alla testa sembra un po’ allentata. Si vive una volta sola. ’Fanculo pure Sandra, pensa mentre si palpa i tasconi dei bermuda mimetici alla ricerca delle chiavi della macchina.

    Il motore della Transalp s’avvia con un borbottio incazzoso mentre Canesecco continua a toccarsi dappertutto chiedendosi dove cazzo ha ficcato le fottute chiavi. Prima o poi dovrà cominciare a darsi una regolata: la pelle gli prude di continuo come se avesse addosso un esercito di formiche, nuota nei vestiti, non mangia quasi niente e ogni mattina si sente più rintronato di un tricheco nel Sahara, dorme male, si sveglia di continuo, s’incazza per niente e la sua vita, ormai, è un intervallo tra una botta e l’altra. Sì, decisamente deve andarci più piano ma intanto, anche con tutte le piste e le paste che si cala, gli affari vanno alla grande, ha una macchina nuova e tra un po’, se solo gli dice bene, una zona tutta sua. Carpe diem, ecco come si diceva, con la emme e la e.

    «Ah Canesé…».

    Canesecco si volta proprio quando, finalmente, ha trovato le chiavi della macchina in fondo a una tasca. La Transalp, adesso, è davanti a lui, il motore imballato, e il tizio dietro a quello che guida ha in mano qualcosa che barbaglia al sole. Canesecco sente un rumore strano, due botti che si confondono con quelli che ha nella testa e, subito dopo, il ruggito della Enduro che schizza via di pinna.

    Ma che cazzo voleva…, si domanda mentre scivola lentamente a terra. Una donna strilla da qualche parte. Canesecco, incuriosito, si guarda le gambe e resta sbalordito davanti allo schizzo rosso che gli esce come un geyser dalla coscia sinistra. Il ginocchio destro è piegato in modo strano, come se fosse di gomma. Niente dolore, solo una gran sensazione di debolezza, un sonno spaventoso che aumenta mentre il sangue continua a spruzzare fuori dalla femorale spaccata. Canesecco resta solo in mezzo alla strada per parecchi minuti, prima che una piccola folla intimidita trovi il coraggio di avvicinarsi.

    «Chiamate l’ambulanza, no? Questo schioda…», sente dire a una voce che non riconosce.

    «Sì, chiamate ’sta cazzo d’ambulanza», prova a dire Canesecco, che all’improvviso ha un terrore folle di morire, ma ha la lingua incollata al palato e gli esce solo un mugolio indistinto.

    Mentre scivola nel buio, si rende conto di cosa ci fosse di strano in quei due vicino alla moto. Con quel cazzo di caldo manco s’erano tolti i caschi, ricorda, felice di esserci arrivato.

    Quando l’ambulanza inchioda a via dell’Archeologia lo trova solo, sull’asfalto che bolle, immerso nel suo sangue fino alla vita. La piccola folla s’è dispersa appena la sirena ha imboccato via di Tor Bella Monaca. Sguardi eccitati e incuriositi, dalle finestre, seguono i portantini che si chinano sul ferito, tentano di bloccare l’emorragia sul posto, gli infilano una flebo in vena, aprono freneticamente una barella e caricano Canesecco sull’ambulanza che riparte subito verso il Sandro Pertini cercando di farsi strada nel traffico incasinato in entrata verso Roma.

    Le chiavi della Mito restano a terra, vicino alla pozza di sangue che s’asciuga velocemente. Un’ora dopo, la macchina è già scomparsa.

    PARTE PRIMA

    Il più grande condottiero è colui che vince senza combattere.

    Sun Tzu, L’arte della guerra

    Capitolo 1

    Sei mesi prima

    Er Chiodo s’allunga pigramente verso il comodino a prendere le Marlboro light. Samantha è sdraiata accanto a lui, la gonna alzata sulla pancia, le autoreggenti leopardate calate e mezze strappate, la pancia imbrattata di sperma, il lucidalabbra tutto spiaccicato sulla faccia, e i capelli, freschi di parrucchiere, che sembrano la scopa Pippo.

    «’Ccitua com’eri carico, amó, hai fatto in due minuti», mugola, non si capisce bene se delusa o soddisfatta dall’urgenza del suo uomo. Dopo tanti mesi di gabbio, del resto, non è che potesse aspettarsi una sessione di kamasutra ed è già tanto se Christian abbia aspettato di entrare a casa e non le sia zompato addosso per le scale.

    Er Chiodo accende, sbuffa fumo verso il soffitto e si rimette a letto. Passata la foia, ha altre cose per la testa. «Che me stavi a dì, prima?»

    «Prima de che?»

    «Prima, no? In machina…».

    Samantha rinuncia all’idea di rimediare al disastro. Dopo si farà una doccia e le autoreggenti, ormai, sono buone solo come pezza per le scarpe. Dieci euro da Oviesse buttati. «De che?», domanda oziosa mentre allunga una mano verso il pene flaccido e bagnato di Christian, ammirando lo smalto di un colore diverso a ogni unghia che s’è messa per accogliere degnamente er Chiodo, all’uscita di Rebibbia. Il ragazzino l’ha mollato alla madre che sennò, a forza di frignare, finiva per rompere il cazzo al punto tale che, di sicuro, si sarebbero messi a litigare. Chiodo, in fondo, è un buon padre, vuole bene a lei e al figlio, la mena solo quando proprio se la va a cercare e, a quanto ne sa, non scopa neanche in giro. Uno che, prima di tutto, pensa alla famiglia, e Samantha ha tutto l’interesse a tenerselo stretto.

    «Allora? Dicevi che butta male», insiste Christian scostandole la mano. Gli affari sono affari, ora che s’è svuotato è il momento di pensare alle cose serie.

    «Proprio male no, amó, ma manco bene. La gente compra, eh, ma meno… Pare che la coca non la vo’ più nessuno. Ho preso mezzo chilo un mese fa e ce ne ho ancora la metà», si lamenta lei.

    «Dove?»

    «Dalla retta, dove?».

    Er Chiodo, suo malgrado, sorride e approva. Samantha è proprio tosta, appena l’hanno blindato s’è occupata di tutto: dall’avvocato a una nuova retta, l’incensurato insospettabile stipendiato per custodire la roba, visto che dal Chiodo le guardie sono di casa perfino quando sta al gabbio. Ma il destino di Christian, evidentemente, è quello di non riuscire a trovare mai un po’ di pace.

    «Chi altro ce sta, che spigne in zona?». La voce del Chiodo, adesso, ha l’intonazione di quando sta per incazzarsi di brutto.

    «Non lo so, amó… Gente nuova, me sa. Ma come te stavo a dì non è un giro di coca. Spingono ’sta cosa arivata da poco, possibile che non ne hai sentito parlà?»

    «Aho, stavo a Rebibbia, mica alla redazione del TG5, nun so’ aggiornato…», mugugna er Chiodo, già sul polemico.

    «Be’, nun te ’ngrugnà, ma ne parlano tutti… L’hanno detto pure in tivù quando una ragazzina è annata fori de testa… So’ pasticche, te l’ho detto prima, amó, ma stavi troppo ’ngrifato…», sottolinea Samantha con un bacetto e una strusciatina maliziosa, ma Christian, al momento, è fuori sintonia.

    «Le pasticche so’ roba da pischelli», rosica.

    «Queste no… Com’hanno detto ar tiggì… Aspetta: un flagello trasversale, l’hanno chiamato proprio così», ricorda Samantha, fierissima. «Un flagello trasversale…».

    «E come se chiamerebbe ’sto flagello trasversale?»

    «Vertigo, amó. Se chiama Vertigo, ne parlano tutti».

    «Vertigo?»

    «Già. Costa venti euri a chicca. La trovi dovunque… Me sa tanto che si volemo restà sulla piazza ce tocca abbassà i prezzi».

    «Io nun abbasso ’n cazzo», risponde piccato Christian, che già riflette sulla controstrategia. Un uomo non ha neanche il tempo di tornare a casa dal gabbio che c’è già qualche stronzo in giro pronto a fotterlo.

    «Be’, allora vedi d’arzà quarche altra cosa», conclude Samantha mentre si china sul suo inguine. In fondo anche lei è rimasta a secco per mesi e ha diritto di godere… Il marocchino del piano di sotto non conta: due sveltine e pure quell’imbecille s’è fatto blindare.

    Er Chiodo sente le labbra che si chiudono sulla sua carne, cerca di scacciare i pensieri cupi e, come al solito, comincia a fantasticare su Belen mentre Samantha si dà da fare come un’idrovora.

    «Vieni in pace, amico mio, entra e bevi con me».

    «Dio ti benedica, Mustata».

    Hernan e Milo si scambiano i tre baci tradizionali cercando di esorcizzare la tensione che aleggia ancora tra di loro. La sagoma allampanata e spigolosa del kalè si piega come una canna mentre entra nella roulotte di Milo Hamidovich, capo del campo nomadi di via di Salone.

    «Come stai, amico?». I convenevoli non sono ancora finiti.

    Il grosso khorakhanè accenna alla sedia a rotelle. «Come un povero vecchio storpio, Hernan. E tu?»

    «Cerco di tirare avanti». Lo spagnolo, per abitudine, dardeggia occhiate sospettose in giro prima di rilassarsi anche se, almeno per lui, il campo di Milo è zona sicura. Tanto per tranquillizzarlo, Mustata s’affretta a offrirgli un bicchiere di liquore e un piattino di pistacchi e dolcetti, in segno di ospitalità, l’antico rituale gitano che garantisce a un nuovo venuto incolumità e amicizia.

    «Alla tua, Milo».

    «Alla tua, Hernan».

    L’ultimo incontro non è stato affatto così cerimonioso. Milo, sotto il tiro di un revolver, ha preferito trattare con quel pezzo di merda di un gagè. Hernan, che, al solito, avrebbe risolto la cosa a colpi di pistola, è stato costretto ad abbozzare, ma l’oltraggio gli brucia ancora e la vendetta, per quanto lo riguarda, è solo rinviata. Chi minaccia Hernan Alvarez non vive abbastanza da vantarsene, gli accordi di quei rammolliti musulmani non lo riguardano. Comunque…

    «Sono felice di vederti in buona salute», recita doverosamente mentre il capo gli riempie un secondo bicchierino.

    «E il mio cuore canta quando vieni a trovarmi… Ti ho chiamato per darti questa». Mustata si forbisce i baffoni che gli sono valsi il soprannome e porge all’ospite una grossa busta rigonfia che il gitano spagnolo intasca senza aprirla, tanto sa benissimo cosa c’è dentro: diecimila euro, il prezzo della sua vergogna.

    Ma se quel ciccione paralitico spera di metterlo a cuccia si sbaglia di grosso.

    Hernan alza il bicchierino e sorride sghembo. «Che mi dici di Mariano e Gregorio?». I due figli del capo, a quanto ne sa, sono ancora in galera. Il primo, fatto come una scimmia e sbronzo marcio, ha pugnalato un tizio nella metropolitana sbagliando clamorosamente bersaglio. Il secondo s’è fatto beccare all’ospedale, mentre stava per fare una strage nel tentativo fallito di ammorbidire i testimoni. Come al solito è toccato a Hernan mettere le cose a posto.

    «Oh, gli avvocati dicono che ci siamo… Gregorio aspetta i domiciliari da un momento all’altro e Mariano, se non fosse per i precedenti che ha, sarebbe fuori da un pezzo…».

    «Ne sono felice».

    Hernan è certo che quei due coglioni stanno molto meglio dietro le sbarre dove, almeno, non possono combinare casini, ma non è il caso di dirlo a un padre rom (che, dal canto suo, la pensa esattamente allo stesso modo). La famiglia prima di tutto.

    «C’è qualcos’altro che posso fare per te?». Hernan ha notato che, alle cinque di pomeriggio, Mustata è ancora passabilmente sobrio, una stranezza che rivela grandi preoccupazioni o, comunque, qualcosa che bolle in pentola. Di solito, prima di pranzo Milo ha già fatto il pieno e dopo una merenda a base di Sambuca o Mistrà crolla semisvenuto fino all’ora di cena. Molti, al campo, cominciano a pensare che sia venuta l’ora di metterlo in pensione, ma questi non sono cazzi suoi. Lui è un kalè: lingua, usanze e religione diverse.

    «Be’, niente di particolare», tergiversa Mustata. «La questione con quel gagè che mi ha sparato è risolta…».

    «Amico, ero qui… Hai accettato il risarcimento, hai beccato i tuoi centoventimila euro e hai fatto pace», lo rintuzza Hernan cercando di nascondere il disprezzo. Per lo spagnolo certe cose si pagano solo col sangue.

    «Certo, certo… Ed è stato meglio così, credimi. Quei soldi mi servivano per gli avvocati dei miei figli e le cure… Costano parecchio, sai?».

    Per quanto riguarda Hernan, l’unica cura possibile per la paralisi di Milo sarebbe un proiettile in testa. Lui almeno farebbe così. Mezzo campo, tra l’altro, spettegola sul fatto che, oltre alle gambe, anche l’uccello del capo, nonostante tutte le sue vanterie, è andato a farsi benedire.

    «E allora la questione è risolta, no? A che ti servo io?».

    Una scintilla d’astuzia e crudeltà si accende negli occhi di Mustata. «Mi piacerebbe che lo tenessi d’occhio».

    «Chi?»

    «Il gagè… Lo stronzo che mi ha sparato, sai di chi parlo».

    Hernan suo malgrado drizza le orecchie. Dopo tanti anni, Mustata riesce ancora a sorprenderlo. «Non mi dire… Lo vuoi fottere? Eppure l’accordo…».

    «L’accordo resta. Ci siamo scambiati il bacio della pace, gli anziani hanno testimoniato e si sono fatti garanti. La mia parola è di ferro», replica immediatamente Milo. Su certe cose, neanche lui può permettersi di scherzare. Un capo senza onore non resta capo a lungo. Funziona così da secoli: ruba, imbroglia, ammazza, stupra quanto ti pare, ma se scambi una promessa davanti agli anziani non si scampa.

    «E allora?»

    «Non ti ho detto di ammazzarlo. Ti chiedo solo di tenerci un occhio sopra. Ormai ho capito che dei miei figli non mi posso fidare, troppo imbeci… impulsivi. E poi non sono ancora usciti. Devi solo stargli appresso per un po’, al gagè, vedere cosa combina, sentire cosa si dice… Naturalmente ti sarò grato». Milo, anche se non ce n’è alcun bisogno, mima col pollice e l’indice il gesto dei soldi.

    L’ultima volta che Hernan ha fatto qualcosa gratis doveva avere otto anni. «Hai paura che venga a riprendersi il risarcimento?», insinua lo spagnolo.

    «Io non ho paura di niente. E di nessuno, Hernan, neanche di te».

    Le parole di Mustata sono staffilate e, come punto esclamativo, Milo aggiunge un paio di bestemmie in romanì. «Ma allora perché ti interessa tanto?»

    «Istinto. Qualcosa che non mi torna. E qualche voce che ho sentito ultimamente. Tu devi solo stargli dietro per un po’ e raccontarmi cosa scopri su di lui. Nient’altro. Ti sta bene?»

    «Seguro, amigo». Hernan stringe la grossa mano da plantigrado di Mustata e, nonostante si senta già un po’ inciocchito, accetta il terzo bicchierino. Mentre esce dalla roulotte, col solito codazzo di ragazzini starnazzanti che non degna di uno sguardo, lo spagnolo considera due cose.

    Milo è molto meno rincoglionito di quello che sembra.

    Il destino gli ha servito un’occasione d’oro. Lui, col gagè, non ha stretto alcun accordo e comunque, prima o poi, era deciso a fargliela pagare.

    Scheggia smette di rifarsi gli occhi con le signore che entrano ed escono dal parrucchiere di via Bevagna, al Fleming, una sfilata di gnocche che lo ha completamente ipnotizzato, e si domanda come accidenti gli è venuto in mente di accettare un appuntamento proprio lì. In borgata è un re, nei quartieri residenziali si sente un imbucato, ma con quello stramaledetto francese non si ragiona: ogni volta s’incontrano in zone diverse, sempre lontanissime dalle piazze dove si spaccia, sempre a orari differenti: precauzioni da banditi anni Settanta, da terroristi, da servizi segreti che, nell’era dei tabulati telefonici e delle intercettazioni ambientali, fanno un po’ ridere. Ma chi se ne frega, da quella collaborazione lui ha solo da guadagnare.

    «Ciao Scheggia». La voce alle sue spalle lo fa sobbalzare.

    L’uomo sulla sessantina, capelli e barba candidi e ben curati, fisico da maratoneta, abbigliamento casual ricercato, da fighetto, è arrivato alle sue spalle come un’ombra e lo fissa col solito sorriso sghembo.

    «Ciao Jean Luc, mi hai fatto prendere un colpo…».

    «Devi imparare a guardarti le spalle… Avrei potuto accopparti come e quando volevo».

    Scheggia ingoia incazzatura e rispostaccia. «Guarda che topa…», s’estasia indicando una trentenne che sembra uscita da un concorso per veline, impegnatissima in una concitata conversazione al cellulare come la gran parte delle donne e degli uomini della zona.

    «Già». Jean Luc non sembra intenzionato a scendere sul terreno della complicità maschile. Solo affari. «Allora? Come butta?»

    «Alla grande, Jean Luc. Tor Bella è nostra, Vermicino pure, su Morena stiamo lavorando ma promette bene anche lì, come Tor Tre Teste, Giardinetti, Tor Vergata… Tra un po’ risaliremo fino a Cinecittà, ma…».

    «Ma che cosa?»

    «Mi serve più gente, Jean Luc. Con quelli che ho adesso non ce la faccio. Se mi dai l’ok, pensavo di assumere un’altra decina di cavalli… I miei sono già troppo incasinati».

    Jean Luc aggrotta la fronte. Il business sta andando perfino meglio delle previsioni, ma più gente si mette in mezzo più casini si possono creare.

    «Altri dieci? Non sono troppi?»

    «Bastano appena, Jean Luc… Con tutta la roba da distribuire ce ne vorrebbero almeno una quarantina. Allora, posso procedere?»

    «Va bene, ma voglio gente seria. Niente tossici. Niente squinternati. Niente rissaioli. Occupatene tu, mi fido. Nessuna iniziativa personale, se si creano problemi loro riferiscono a te, senza muovere un dito, e tu lo dici a me, ci siamo capiti?»

    «Come al solito, Jean Luc…».

    Il francese si porta di scatto la mano in tasca e Scheggia, involontariamente, fa un passo indietro. Altro sorriso sghembo.

    «Hai paura di me? Se ti volevo ammazzare l’avrei già fatto da un pezzo».

    Scheggia non trova una risposta pungente, quindi sta zitto. Ma quel tizio che sembra calato da un altro mondo e da un’altra epoca gli fa venire i brividi. Fin dall’inizio ha capito come funziona: il francese comanda, lui obbedisce e sono tutti felici.

    «C’è una vecchia Panda parcheggiata in via Cappelli, qui vicino», sogghigna il marsigliese porgendogli un minuscolo biglietto. «Questo è il numero di targa, la tua busta è sotto la ruota anteriore sinistra».

    «Va bene, grazie. Mo’ ci vado. Ma ti volevo dire un’altra cosa, prima».

    «Di’». Jean Luc, come al solito, non smette un attimo di guardarsi attorno e registra tutto: una macchina che resta troppo a lungo ferma, un tizio che si attarda all’edicola di piazza Monteleone da Spoleto, uno scooter che passa davanti a loro un paio di volte, una ragazza in bici che tira fuori il cellulare senza smettere di pedalare. Prima di incontrare Scheggia ha fatto il suo bravo sopralluogo e ha capito che il quartiere sembra sicuro, ma dai tempi del suo apprendistato criminale sa che è meglio non fidarsi di niente e di nessuno.

    «Er Chiodo è uscito…», spiega Scheggia che non vede l’ora di andare a prendersi la busta.

    L’archivio mentale di Jean Luc scansiona un file.

    Er Chiodo, al secolo Christian Abate, ex capo della banda di zona chiamata Pijamose Roma, spacciatore e infame. Un’altra rogna all’orizzonte.

    «Quando?»

    «Una settimana fa. E s’è messo subito di punta».

    «Crea casini?»

    «Non ancora. Ma lo farà. Il suo giro s’è ristretto parecchio, da quando ci siamo noi».

    «Hai qualche idea?».

    Jean Luc se ne strafotte delle idee di Scheggia ma sa che spesso è bene dare ai subordinati un po’ di credito, serve a farli sentire più motivati.

    «Io l’addobberei subito, prima che possa muoversi lui», spiega Scheggia. «In zona sanno tutti che è un mezzo soffione e c’è parecchia gente che gliel’ha giurata. Se qualcuno gli fa bum bum gli sbirri penseranno che era per le spiate».

    «E bravo Scheggia… Mi piace come ragioni».

    «Allora vado? Lo posso fare io, se sei d’accordo».

    «No».

    «No?»

    «No, non ancora. La tua idea mi piace, ma aspettiamo un altro po’. Vediamo come si muove e poi, in caso, ti dirò io come e quando. Ci siamo capiti?»

    «Certo, Jean Luc… Allora vado. Quando ci si vede?»

    «Tra una settimana, mercoledì alle 14, a piazza dei Navigatori».

    Battono il cinque e Jean Luc scompare. Scheggia si rende conto che non sa neanche se si muove in macchina, in moto o con la slitta trainata dalle renne. Un fantasma che non parla al telefono, non si vede mai in giro e che incontra una volta alla settimana, dopo un appuntamento fissato sempre a voce e di persona. Se dovessero interrogarlo sul francese, oltre alla descrizione fisica, non avrebbe altro da dire: nessun indirizzo, neanche la zona dove vive o la gente che frequenta. Un ufo, ma che gli fa incassare un sacco di soldi.

    Sul bigliettino, oltre al numero di targa della Panda, il francese, con la solita pignoleria maniacale, ha disegnato anche una piccola mappa in modo che Scheggia non debba chiedere informazioni. Lo spacciatore torna indietro, cammina sulla Flaminia Vecchia, supera il bar Fleming – altri sguardi cupidi, in quel quartiere c’è più fica che a Miss Italia –, arriva a via Raffaele Cappelli, lascia passare una bella cinquantenne con un orrendo cagnolino al guinzaglio, individua la Panda, aspetta il momento buono e si china sulla ruota anteriore sinistra. Attaccata alla carrozzeria c’è la sua busta. Scheggia se la infila subito in tasca senza neanche aprirla. Dentro c’è la sua stecca settimanale: venticinquemila euro e non c’è alcun bisogno di contarli. Jean Luc e chiunque ci sia dietro di lui non sgarrano mai di un centesimo.

    Nel taxi diretto verso la stazione, da dove prenderà la metro per andare all’Eur, il marsigliese riflette sul Chiodo. Attaccare subito, senza dargli il tempo di organizzarsi, probabilmente è la strategia migliore, ma non è affatto sicuro che sarà Scheggia a farlo.

    «Buongiorno».

    «Buongiorno».

    Felipe stringe la mano di Joel, scintillante nella sua divisa blu da steward della Philippine Airlines, con cortesia tutta orientale. Per andare all’appuntamento ha sostituito il suo eterno rigatino d’ordinanza con una mise da domestico in libera uscita: giacca a vento celeste su jeans da bancarella e scarpe sportive. La nota stonata è la valigetta di pelle che tiene in mano, identica in tutto e per tutto a quella dello steward.

    «Hai fatto buon viaggio?», domanda cortesemente in tagalog, la lingua che parlano sempre quando si vedono.

    «Abbastanza, grazie… Un po’ di turbolenza, niente di che…».

    «Nessun allarme bomba, stavolta?»

    «Grazie a Dio no».

    L’ultimo appuntamento è saltato perché un idiota aveva annunciato un attentato sul volo per Roma. L’aereo è rientrato precipitosamente a Manila e Felipe è rimasto a cacarsi sotto per ore, agli arrivi internazionali di Fiumicino, pensando che Joel fosse stato beccato. Ogni volta che va all’aeroporto si sente come se avesse una .357 magnum puntata alla nuca, ma ormai ha imparato a dissimulare la tensione. La sua faccia inespressiva, da idolo asiatico, del resto, è un ottimo paravento per qualunque emozione.

    «Prendiamo un caffè?»

    «Con piacere, grazie».

    I due uomini piccoli e scuri fendono la calca di parenti e amici in attesa al Terminal 3, raggiungono la cassa del bar, fanno un po’ di scena su chi deve pagare, siedono a un tavolino, fanno un po’ di conversazione nella loro lingua: due amici che s’incontrano dopo una lunga assenza. Niente che potrebbe insospettire uno sbirro.

    «Ti sta andando bene, Felipe…».

    «Anche a te, Joel, e ti porto buone notizie…».

    Lo sguardo dello steward è un punto interrogativo attraverso le fessure degli occhi.

    «Dal prossimo mese raddoppiamo».

    «Raddoppiate?»

    «Sì, se per te va bene…».

    Joel nasconde bene il lampo di cupidigia. Doppia merce, doppi soldi. «Va bene», annuisce. «Sei diventato un uomo d’affari…».

    «Faccio solo il mio lavoro. Tu fai il tuo». Felipe muove la mano sul tavolino in un gesto che aggiunge e dacci un taglio.

    Joel annuisce in silenzio, roger, messaggio ricevuto forte e chiaro. «Ok, allora siamo d’accordo… Ci rivediamo tra un mese, qui».

    Felipe tende la mano, ma l’altro la ignora e tira fuori un pacchetto. «Per te, un piccolo regalo. L’ho comprato d’occasione ma è nuovo».

    Felipe china la testa in segno di ringraziamento e apre il pacchetto, nascondendo il disappunto. Che cazzo c’entrano i regali tra loro?

    Il Rolex Oyster Perpetual è uno scintillio d’acciaio nella custodia di pelle scamosciata chiara.

    «Grazie, non dovevi…». Diffidenza o no, Felipe non dimentica le regole della buona educazione. E Joel è una ruota fondamentale del giro. Senza di lui, addio rifornimenti. È solo grazie allo steward che il domestico è entrato nel giro e che continua a incassare la sua percentuale. «Troppo gentile, ti sono veramente grato», ripete.

    «Figurati, questo e altro per te… Allora alla prossima».

    Lo steward si alza, saluta ancora e se ne va. Nessuno riuscirebbe ad accorgersi dello scambio di valigette: Joel, adesso, ha quella imbottita di banconote, Felipe quella piena di cristalli biancastri che sembrano sale da cucina e che valgono almeno dieci volte di più.

    Il Leonardo Express è bloccato, il solito guasto sulla linea elettrica o uno sciopero del personale aderente a qualche sconosciuta sigla sindacale decisa a far casino. Felipe ne approfitta per tornare indietro da gran signore, in taxi, e visto che c’è, si fa lasciare davanti a un Compro oro che conosce bene, all’altezza di piazza dei Navigatori. Dopo dieci minuti esce con duemila euro in contante nel portafogli: dato che non può esibire il regalo di Joel, tanto vale farci un po’ di soldi. Ormai conosce la regola base: mai attirare l’attenzione. E un Rolex autentico al polso di un cameriere filippino si nota come uno smoking a un concerto di Ligabue.

    Via Corinaldo, piazza Bozzi, piazza Urbana, via San Benedetto del Tronto. San Basilio, esterno notte: fari che squarciano il buio, lunghe file di auto incolonnate come al Tritone in pieno giorno, con la sostanziale differenza che nessuno suona il clacson, nessuno sbraita o s’incazza, tutti aspettano il loro turno con una disciplina che neanche a Tokyo, tutti in paziente attesa del segnale, lo spacciatore che bussa discretamente al vetro e s’affaccia per una breve contrattazione come una puttana di strada.

    «Che cerchi?»

    «’Na bustina».

    «Du’ pezzi».

    «Quattro chicche».

    «Tre paste».

    «Accosta».

    L’esercito dei pusher è in piena attività. Banconote che passano velocemente di mano in cambio di una concisa indicazione: sotto quella macchina, dietro il cespuglio a destra, sotto il sellino dello scooter, quello grigio, basta che alzi, è aperto, nella cabina del telefono, la vedi, proprio qui avanti… Un flusso continuo di gente che compra, vende, scompare, ritorna, si dà appuntamento tra un quarto d’ora, mezz’ora, domani. Le vedette, al solito, sono appostate sui tetti o alle finestre, nei loro punti d’osservazione. I più organizzati hanno il binocolo, gli altri si limitano a tenere d’occhio la piazza tanto le guardie e i carubba non li fregano, basta un niente per sgamarle e via, un tam tam di messaggini e in pochi minuti la strada torna deserta, le macchine sciamano via, i cavalli si disperdono per tornare al lavoro appena l’allarme è cessato.

    La notte di San Basilio, Samba per la gente che ci abita e i poliziotti di Doppiavela 21, la sala operativa della questura, è un lavorio frenetico e incessante, un mercato perenne, un andirivieni che dura fino alle prime luci dell’alba, una compravendita senza soste su cui gira gran parte dell’economia del quartiere. Madri che aspettano la roba da tagliare nel frullatore e dividere in bustine, mariti che portano le mazzette di banconote alle mogli per la spesa del giorno dopo, vedette che incassano i cinquanta euro della nottata e cercano di farseli bastare fino al momento in cui, finalmente, saranno arruolate anche loro nel gruppo dei pusher, chioschi di panini e ambulanti che vendono shottini approfittando della folla, l’indotto di un business di criminalità diffusa che s’interrompe a scadenze regolari quando polizia, carabinieri e guardia di finanza si fanno sotto con una delle solite operazioni-repulisti e riprende, come prima e più di prima, nel giro di una settimana al massimo. Troppi soldi, poco rischio, non c’è indagine che tenga.

    Vasile si calca in testa il casco integrale e accende l’SH. Prima tappa, er Zagaja, capozona di recente nomina, uno che ci sa fare ma va tenuto sott’occhio.

    «A-a-a-romeno, co-co-co-me bu-bu-bu-butta?». Il soprannome è decisamente azzeccato.

    «Lo chiedo a te, Zagaja, come ti gira?»

    «A-a-a-la-la-alla grande, ro-romeno, gi-gi-già fi-fi-fi…».

    «Ho capito, hai già finito tutto…».

    «Qua-qua-qua…».

    Dimmelo cantando, pensa Vasile. Non lo dice. Er Zagaja ha fama d’incazzoso e vende più di Trony quando ci sono i saldi. A ogni buon conto, caccia dal giubbotto un grosso sacchetto pieno di pillole bianche e glielo sbatte in mano.

    «Gra-gra-gra…».

    «Grazie a te, Zagaja, a domani…».

    Er Fracico, Scrocchiazzeppi, Sellerone, er Pipiripò, er Duca, er Pinna, er Banana – un soprannome così inflazionato che in ogni borgata ce ne sono almeno due o tre –, er Secco, Taccitua, Gianna la Trucida… Tutti spacciatori di medio livello che, a loro volta, distribuiscono pasticche alle formiche da strada. Nessuno sa niente di Vasile, nessuno potrebbe identificarlo anche perché, ogni volta che esce per lavoro, il romeno sostituisce la targa dello scooter con una rubata. Farsi vedere di persona è un azzardo, ma Vasile ha la strada nel sangue e i contatti coi cavalli sono la sua specialità e la sua gioia.

    Vasile se li fa tutti, come un capoarea di vendite porta a porta, controlla, incoraggia, ascolta, rifornisce. E appiana contrasti, evita incazzature, s’invelenisce coi pelandroni, incoraggia gli intraprendenti, controlla gli indisciplinati ma, soprattutto, tiene le orecchie tese e controlla la piazza, pronto a segnalare casini in arrivo.

    Il suo lavoro gli piace da matti.

    Ama la notte, la gente di strada, l’attesa, l’adrenalina, il senso di potere. Er Romeno, come l’hanno soprannominato fin dal primo giorno, irradia autorità, garantisce guadagni, distribuisce denaro sotto forma di chicche da distribuire e da spacciare, s’atteggia a boss.

    In tre parole, uno che conta.

    Vasile potrebbe tirare un po’ i remi in barca, farsi sostituire, alternare i controlli o limitarli a un paio di giri alla settimana, ma gli piace troppo. Ogni volta che un barabba di Samba lo saluta col tono rispettoso e vagamente ironico tipico della mala romana, ricorda il suo passato recente: il ragazzino schiavo dei rom, il lavavetri sfruttato, insultato, picchiato a sangue, il ladruncolo da quattro soldi, il barbone in fuga dalla vendetta dei khorakhanè.

    A diciannove anni, Vasile ne ha fatta di strada. E il suo successo, la sua ascesa sociale nel milieu capitolino, l’alone d’autorità che ormai lo circonda come un’aurea hanno un nome. Lo stesso dei traffici di Felipe e delle complesse macchinazioni di Jean Luc, ognuno col suo ruolo e il suo stile.

    Un nome che nei giri di mala si sente sempre più spesso.

    Vertigo.

    Capitolo 2

    Carlo Malatesta sussurra qualcosa all’orecchio di Marzia, che getta la testa all’indietro con un gesto un po’ teatrale, ride forte e accavalla le gambe, mostrando una panoramica di calze velate con l’orlo di pizzo che fa capolino sotto la minigonna.

    Gli occhi di Carlo assumono le dimensioni di due uova sode.

    Tutt’intorno, conversazioni in sordina, blues di sottofondo, tintinnare di posate e bicchieri, coppie che si accostano al tavolo della cena in piedi cercando di ostentare indifferenza ma, alla prima occasione, s’affrettano a riempirsi il piatto come se dovessero far provviste per un paio di settimane, i camerieri del servizio catering che sgusciano tra gli invitati come fantasmi, nelle loro giacche immacolate, portando vassoi carichi di stuzzichini o flûte di champagne e cocktail, il soggiorno e la sala da pranzo pieni di gente, allegra e ciarliera, che si gode la proverbiale ospitalità dei Malatesta.

    Tutti meno uno.

    Flavio freme di rabbia e gelosia mentre, dritto in piedi come una sentinella, assiste al

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