Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

A föa du bestentu. Fiabe liguri
A föa du bestentu. Fiabe liguri
A föa du bestentu. Fiabe liguri
E-book263 pagine3 ore

A föa du bestentu. Fiabe liguri

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Volete perdervi in una delle tante foreste delle fiabe o scendere in qualche caverna come fa il coraggioso Baffidirame che libera la figlia del re dal terribile stregone? Aprite questo libro e entrerete subito nelle storie meravigliose della nostra tradizione ligure: donnine che si cullano in gusci d’uovo o di noce, omettini tanto piccoli da essere rapiti da una zanzara,  vecchie che se hanno gli occhi aperti dormono e se li hanno chiusi sono sveglie e pronte a contrastare i nostri eroi… È un mondo ricco e variegato quello delle fiabe della Liguria, un mondo che è stato esplorato per la prima volta da un ricco signore americano, James Bruyn Andrews, che amando la nostra regione e conoscendone i dialetti, pubblicò a Parigi  nel 1892 quei Contes ligures che oggi, ripresi in parte da Pino Boero e Walter Fochesato, entrano nel nostro volume. Ma i due autori non si fermano qui e il libro contiene altre sorprese: fiabe che derivano dalle loro memorie infantili, vivissime e argute storie popolari di ingenui paesani, “finte fiabe” che non si concludono come A föa du Bestentu  che dà il titolo al libro … Un viaggio meraviglioso, dunque, attraverso la Liguria, dall’estremo Ponente alla Lunigiana toccando il Basso Piemonte e arrivando in Sardegna a Carloforte e Calasetta che conservano la lingua genovese… Un viaggio che agli adulti ricorderà il “buon tempo antico” in cui, magari intorno al camino, gli anziani raccontavano fiabe e che ai giovani trasmetterà  il gusto della scoperta e il piacere del racconto.
LinguaItaliano
Data di uscita14 ott 2020
ISBN9791280133106
A föa du bestentu. Fiabe liguri

Correlato a A föa du bestentu. Fiabe liguri

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su A föa du bestentu. Fiabe liguri

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    A föa du bestentu. Fiabe liguri - Walter Fochesato

    Introduzione

    "Anche le parole sono nomadi.

    Sono affascinanti proprio perché

    cambiano continuamente di significato, specie nei dialetti.

    La bellezza degli idiomi locali è la loro mobilità"¹

    I. Qualche riflessione

    Nel condurre in porto questo lavoro abbiamo fatto tesoro dell’affermazione di Fabrizio De André (1940 – 1999) e abbiamo aggiunto la mobilità degli idiomi locali a quelle parole che – guarda caso – un altro ligure, Italo Calvino (1923 – 1985), ha messo al centro della grande letteratura: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, coerenza²; vogliamo dire, cioè, che gli elementi citati sono costitutivi anche di quella narrativa popolare che trovò nella fiaba la forma più idonea a unire realtà ed invenzione, pedagogia e racconto. Scrive, al proposito, Robert Darnton:

    La documentazione scritta attesta che le fiabe esistevano molto prima che qualcuno pensasse al folclore, che è un neologismo ottocentesco. I predicatori del Medioevo attingevano alla tradizione orale per illustrare argomenti morali; le loro prediche, trascritte in raccolte di Exempla dal dodicesimo al quindicesimo secolo, si riferiscono alle stesse storie che i folcloristi raccolsero nelle case dei contadini del diciannovesimo secolo. Nonostante l’oscurità che circonda le origini dei romanzi cavallereschi, delle chansons de geste e dei fabliaux, sembra che buona parte della letteratura medioevale abbia attinto alla tradizione orale del popolo, piuttosto che viceversa. La Bella addormentata fece la sua comparsa in un romanzo arturiano del Trecento, Cenerentola appare nei Propos rustiques di Nöel du Fail, un libro del 1547 che riconduceva le fiabe alla tradizione contadina […] le storie appartenevano a un fondo di cultura popolare che i contadini avevano accumulato lungo i secoli con perdite minime³.

    Non rifletteremo qui sul transito dall’oralità alla scrittura, dalla mobilità della parola alla fissità della pagina ma cercheremo di fermare, almeno per quanto riguarda la Liguria, alcuni fatti significativi e cominceremo dalla constatazione che la dimensione del fiabesco non era estranea alla nostra regione neppure durante il Medioevo e l’Umanesimo, come dimostrano i casi esemplari di Jacopo da Varazze e di Lorenzo Guglielmo Traversagni.

    II. Un po’ di storia

    1. Jacopo da Varazze

    Un cenno particolare merita senza dubbio quel gigantesco serbatoio dell’immaginario che fu la Legenda aurea (compilata a partire dal 1267) di Jacopo da Varazze (de Varagine o de Voragine)⁴ che, scritta in latino, costituì un autentico best seller del Medioevo ed ebbe enorme diffusione grazie altresì a volgarizzamenti e traduzioni; si pensi che solo fra il 1470 e il 1560 se ne ebbero circa cento edizioni a stampa, che costituirono un vero genere narrativo prolungato nel tempo e giunto quasi alla metà del XX secolo. Le ragioni di questo successo sono da ricercarsi nell’esemplarità dei centottantadue racconti che la compongono: altrettante vite di santi, talvolta improbabili o mai esistiti o di secondaria importanza, ma ognuna di queste vite diventava esemplare, doveva svolgere una precisa funzione pedagogica. Erano appunto legende, cose da leggere; ma, soprattutto, Jacopo non pensava ad un libro riservato soltanto alla classe dei colti o ai confratelli predicatori dell’ordine domenicano, voleva piuttosto offrirci intrecci narrativi che mescolassero sapientemente, la scrittura e l’oralità popolare, le ragioni della letteratura e quelle della fede, esprimendo, sempre sul versante della fede, tutti i colori, i suoni, le voci della vita quotidiana. Insomma Jacopo da Varazze fu prosatore bizzarro, fantasioso, robusto che non accettò le prigioni della dottrina. La presenza del patrimonio delle scritture e della cultura classica, le tradizioni legate alle lodi dei santi costituirono per lui il punto di partenza di un viaggio nell’immaginario collettivo, fra horror, fantasie ora macabre ora sessuali, all’insegna del piacere della paura. Basti poi pensare al fatto che questi racconti hanno rappresentato l’indispensabile base per migliaia e migliaia di affreschi, tele e tavole che nel corso dei secoli hanno dato sembianze, plasticità e vigore ai miracoli e ai languori, alle predicazioni e ai martiri, costituendo con ciò quella biblia pauperum capace di portare a fedeli analfabeti la vita e le opere di santi patroni e santi protettori: Jacopo, che conosceva assai bene il mondo popolare, non aveva timori a mescolare l’alto e il basso.

    Nella nostra raccolta trova posto, ad esempio, Il bel Giuliano che, combinando abilmente svariati elementi fiabeschi, altro non è che la vita di San Giuliano; il quale, con una situazione edipica che ci rimanda a Sofocle, uccide inconsapevolmente i genitori e quando si accorge del tragico errore cominciò a piagnere amarissimamente e a dire: «Oimè, misero, che farò? Ché io ho morto il mio dolcissimo padre e la mia dolcissima madre!»⁵. E qui il riferimento immediato, con l’uso dei due superlativi, ci rimanda a La fiaba della Beifarda con il protagonista che crede di aver assassinato la moglie ma questa, scaltramente, in letto, ha sostituito se stessa con una zucca ricolma di miele: "«Hoimemì, hoimemì…» cominciò a lamentarsi quando ne sentì il gusto «il sangue di mia moglie è dolce come il miele…» e piangeva come una vigna".

    Ma valgano altre due riflessioni che ci paiono particolarmente significative. La prima riguarda San Giorgio che ammazza il drago e la seconda la fanciulla perseguitata. Giorgio appartiene alla folta schiera dei santi guerrieri diffusi soprattutto in Oriente, con tratti peraltro simili alla figura, altrettanto conosciuta, di San Michele; la sua vicenda è ben nota, il suo culto arrivò già nel VI secolo dopo Cristo, quando la città era un avamposto militare bizantino, ed è fra i santi protettori di Genova… In ardesia o in pietra nera, i bassorilievi delle sovrapporte del centro storico (realizzati in genere dall’attivissima bottega dei Gaggini) sono lì a dimostrare l’incidenza del tema nell’immaginario della città. Anche la tradizione popolare è ricca di testi che fanno riferimento all’uccisione di un drago o di un mago e – come ha ben dimostrato Edward Neill – spesso "il drago o l’idra viene denominato magu sia per assonanza con drago sia, forse, per un richiamo all’etimo incerto magaldo [ossia magoald], cattivo [in germanico]"⁶. Può trattarsi del Giuanin senza puia ma anche – come testimoniano i casi riportati da James Bruyn Andrews – di semplici ammazza draghi che salvano le principesse come in Il mostro a sette teste o I figli del pescatore. Per il resto nella storia di San Giorgio è facile individuare, semplificando, lo schema tipico indicato da Vladimir Propp: l’allontanamento da casa (dalla Cappadocia alla Libia), la presenza di un mezzo magico (la Croce), il superamento di una prova (l’uccisione della bestia che infestava Silena) e la ricompensa finale che, in questo caso, non è la mano della principessa bensì il ritorno alla vera casa (il Cielo). Una volta martirizzato, Giorgio lascerà le sue reliquie, capaci di operare miracoli. E, tornando ai bassorilievi dei Gaggini, valga la non comune efficacia ed asciuttezza (tipicamente liguri) di questa bellissima filastrocca:

    San Zorzu valente

    u l’ammassa u serpente

    u serpente u l’amia

    San Zorzu u ghe tia.

    Un ulteriore elemento attorno al complesso rapporto fra leggende cristiane e cultura popolare è quello del tema della fanciulla perseguitata, così ben presente in fiabe notissime quali Biancaneve e Cenerentola. Anche qui numerosi potrebbero essere i riferimenti, basti pensare a Santa Barbara che il padre Dioscoro fa chiudere in una torre affinché non abbia rapporti con il mondo esterno; convertitasi al cristianesimo la bella fanciulla, dopo lunghe torture, compreso il taglio dei seni e una martellata in testa, viene decapitata dallo stesso padre che, per questo, subito dopo verrà incenerito da un fulmine. Ancor più calzante la storia della Beata Panacea (1368 – 1383) il cui culto, dalle forti venature popolari, si sviluppa fra Quarona e Ghemme, in provincia di Vercelli. La pastorella è orfana ma il padre si risposa e giungono così in casa una matrigna e una sorellastra che cominciano a trattarla nel peggiore dei modi, imponendole faticose corvée e i lavori più umili. Panacea sopporta tutto affidandosi alla fede e ad aiutanti magici: infatti, arrivata al pascolo, mette la lana grezza sopra alle corna delle bestie, lasciando la filatura agli angeli mentre lei può raccogliersi in preghiera. Una sera, però, la fanciulla si attarda più del solito (vien da pensare al ballo di Cenerentola) e il bestiame torna da solo alla stalla. La matrigna, furibonda, si reca al pascolo e uccide la figliastra, intenta a pregare, conficcandole i fusi nel collo e nel capo; e subito dopo si suicida, gettandosi da un dirupo. Immediatamente avvengono una serie di miracoli: il corpo della fanciulla viene trainato su un carro non da una coppia di buoi, che rifiutano di muoversi, bensì da vitelli da latte che, seguiti da una gran folla, portano il cadavere fino a Ghemme, dove era stata sepolta l’amatissima madre. E anche qui non si può non notare una serie di coincidenze con certe versioni delle due fiabe sopracitate. Infine, a proposito dei fusi, è interessante osservare come in numerosissime fiabe una spina o un altro oggetto acuminato conficcato nel capo provochino o morti apparenti oppure metamorfosi; basti pensare, nella nostra raccolta, a La matrigna e a La bella e la bestia.

    Molto meno noto è il De varia fortuna Antiochi (1469)⁷ del frate umanista savonese Lorenzo Guglielmo Traversagni⁸ che ci offre un altro dei più antichi documenti sulla presenza della fiaba in Liguria [e] contiene […] tutte quelle situazioni che il Propp fissa come i più comuni fattori dell’intreccio fiabesco⁹, dall’allontanamento da casa alle prove da superare, all’esito felice (matrimonio con la principessa e regno in eredità). Il testo ci consente, inoltre, un significativo approccio interpretativo alle peculiarità della fiaba ligure: anzitutto la spinta a fuggire dalla campagna e ad andare in città per dedicarsi all’attività mercantile¹⁰; in secondo luogo, all’opposto, la felicità di Antioco, commerciante, marinaio e naufrago, per aver finalmente della terra sotto i piedi¹¹. Una tensione, dunque, fra due bisogni estremi: quello di andar oltre aprendo percorsi nuovi e quello di possedere un sicuro punto d’appoggio a casa, sulla terraferma.

    2. L’Ottocento

    Quando Italo Calvino aprì con la nostra regione le sue fiabe italiane non mancò di rilevarne la povertà:

    Pochissimo della Liguria (e per me già come per chi, girando il mondo, passi davanti a casa sua e trovi l’uscio chiuso), ma non per un’apparente aridità poetica dell’indole ligure; quel che ho trovato mi conferma in un’idea che avevo – fondata su sparsi indizi soggettivi – di un gusto fantastico goticizzante e grottesco¹².

    Con un po’ di fantasia si potrebbe affermare che Calvino avesse visto concretizzata nella scarsità di testi della tradizione popolare la proverbiale avarizia nostrana. In realtà – come abbiamo detto – Genova e la Liguria non sono state sorde al richiamo della cultura popolare né nel passato né nell’Ottocento perché – come vedremo – le storie recuperate fanno la loro bella figura nel confronto con quelle di altre regioni; piuttosto è mancata all’appello quella generazione di folcloristi che in altre aree d’Italia aveva trovato in Giuseppe Pitré (1841 – 1916), Vittorio Imbriani (1840 – 1886), Gherardo Nerucci (1828 – 1906) intellettuali capaci di alternare l’attività di polemisti, giornalisti, storici, professori e scrittori con quella di ricercatori e stenografi del dettato popolare che, anche se con pochi mezzi tecnici a disposizione (carta e penna), avevano capito l’importanza di salvaguardare nella trascrizione la mobilità delle forme dialettali con tutti quegli altri attributi calviniani che abbiamo all’inizio dichiarato. Da noi, a fine Ottocento, la proverbiale reticenza, il ligure maniman impedirono a una classe di colti di avvicinarsi al popolo se non in nome della retorica risorgimentale, del reducismo garibaldino, della pietas verso basse condizioni di vita e favorirono la centralità di intellettuali come Anton Giulio Barrili (1836 – 1908) che fu, ad un tempo, politico, professore e scrittore, inevitabilmente consegnato, quindi, all’esclusività dei salotti buoni delle case borghesi.

    Il salto vero nella fiabistica ligure avviene comunque nella seconda metà dell’Ottocento con Giuseppe Pitré che, fin dal 1874, aveva raccolto Due favolette ed una facezia del popolo genovese¹³; e soprattutto con i Contes ligures¹⁴ di James Bruyn Andrews, cui va dedicato uno spazio particolare visto che è sicuramente singolare il fatto che la prima, più completa e scientificamente attendibile raccolta di Contes ligures sia opera non di uno storico locale o almeno italiano, ma di un ricco borghese americano che fece di Mentone e dell’Europa una seconda, larghissima patria.

    3. James Bruyn Andrews e les Contes ligures

    Andrews era nato a New York il 22 Settembre 1842; figlio di Loring Andrews, ricco uomo d’affari di origine inglese, e di Blandina Bruyn Hardenberg, discendente di una delle prime famiglie di quei coloni olandesi che nel Seicento avevano fondato, nella parte meridionale di Manhattan, Nieuw Amsterdam, destinata poi ad espandersi in New York. Dopo la laurea in Legge a Yale (1863) e due anni di pratica come avvocato nella sua città natale, fu costretto per ragioni di salute a interrompere l’attività e, in cerca di un clima migliore, cominciò a viaggiare. Andò prima in Messico, poi a Valencia, in Spagna, ricoprendo la carica di console degli Stati Uniti; si trasferì quindi in Francia dove, dopo il matrimonio con Fanny Griswold Field¹⁵ – figlia di Cyrus West Field¹⁶ – comprò nel 1871, a Mentone¹⁷, una proprietà, villa Pigautier¹⁸, e lì visse per un ventennio studiando il dialetto e il folclore locale e pubblicando numerosi articoli su riviste specializzate in Francia, Inghilterra e Italia¹⁹. Nel 1877 venne eletto presidente della Société d’Horticulture et d’Orticulture di Mentone, fu membro della Société des Lettres, Sciences et Arts des Alpes-Maritimes, della Ėcole de Bellanda di Nizza²⁰ e corrispondente della Folk-Lore Society di Londra con i cui membri intrattenne anche rapporti personali soggiornando spesso, d’estate, a Oxford, alla ricerca di novità in campo critico ed editoriale. Fu nella capitale inglese anche nel maggio 1909 e, nonostante l’aggravarsi delle sue condizioni, dichiarò all’amico folclorista britannico Sir George Laurence Gomme (1853 – 1916) l’intenzione di andarlo a trovare in estate nella casa di campagna a Long Crendon nel Buckinghamshire²¹. L’ulteriore peggioramento della salute lo costrinse a rientrare in Germania, a Aix-la-Chapelle (Aquisgrana), dove morì il 27 agosto del 1909 lasciando per testamento 5000 sterline al Museo Antropologico di Cambridge.

    Non risulta sia stato mantenuto l’impegno della segretaria Wilson di raccogliere in un unico volume i suoi scritti.

    Come è costruita la raccolta dei Contes ligures? Vista la non facile reperibilità del libro è opportuno offrirne una mappa. I contes sono 63²² e non 64 (come si legge nell’indice e come erroneamente riporta Calvino che, nelle sue Fiabe italiane, per quanto concerne la Liguria, utilizza solo la raccolta dell’americano), perché il 35° pezzo, La femme dorée, fu soppresso per errore durante la stampa (nell’impaginazione comunque non esistono salti). Dei 63 brani 33 appartengono a Mentone, 5 a Roccabruna, 5 a Sospello, 6 alla Riviera di Ponente da Ventimiglia a Genova e 14 a Genova, compresi i 2 legati al Levante (La naif e Le méchant frère raccontate rispettivamente da Caterina Lagomarsino di Sori e da Guglielmo de Paoli di Varese Ligure). È facile dunque intuire come la famigliarità di Andrews con l’estremo ponente ligure, la sua stessa perfetta conoscenza del dialetto mentonese, del provenzale e delle altre forme dialettali lo mettessero in condizione di creare uno spazio di ricerca privilegiato in un’area geograficamente piuttosto ristretta (dalle risorgimentali Città libere di Mentone e Roccabruna ad Arma di Taggia). Nella prefazione, oltre a ringraziare gli amici che l’avevano aiutato nella ricerca²³, Andrews con grande onestà racconta di aver preso tutte le precauzioni per offrire storie originali, di aver rinunciato a pubblicare il testo dialettale a fronte per evitare un lavoro lungo e faticoso ma anche per non consegnare il volume ai soli specialisti. Il suo scrupolo era quello di mantenere la massima fedeltà alla versione orale senza eliminare nulla e prevedendo comunque qualche imperfezione stilistica dovuta al taglio popolare. A questo proposito è stato notato che i testi di Andrews risultano talvolta piatti e poco vivaci a causa, forse, del passaggio dal dialetto alla lingua francese (peraltro non lingua madre dello stesso curatore). A noi pare che, se differenze si possono cogliere, queste siano da cercare nella lunghezza dei singoli brani, nell’essenzialità o meno dei particolari e quindi nella persona degli stessi informatori di cui Andrews, con scrupolo positivistico, ci fornisce le generalità lasciandoci facilmente immaginare di ognuno la diversa appartenenza di classe: fra le informatrici ci sono signore della borghesia che egli indica con Madame (Madame Firpu, Madame Veuve Lavigna, Madame Irène Gena, Mlle Marioucha Bosano) e donne del popolo al cui nome non aggiunge nulla (Fleury Carenso, Annanetta Borfiga, Carolina Chiquette, Marietta Luca, Irène Panduro, Louise Aboou) se non, in qualche caso, il soprannome (Angeline Laurenti dite La Loula, Marie Aprosio dite La Bastiera, Gioanina Piombo dite La Mora ).

    In ogni caso non è davvero una questione di stili perché lo spirito cosmopolita e un po’ avventuroso di Andrews e la sua curiosità scientifica ben si addicono alla dimensione antropologica di una regione e di una città, Genova, che ha nell’insoddisfazione il suo segno più forte: il desiderio di avventura e contemporaneamente di possesso sicuro di una fascia di terra sfociano a livello di tradizione favolistica nel contrasto fra slancio fantastico, dimensione surreale e necessità di agganciarsi a norme definite, razionali, precise. E se a tutto questo si aggiunge il fatto che Andrews riuscì a far pubblicare la raccolta dei Contes ligures nella prestigiosa collezione Littératures populaires de toutes les nations²⁴ inserendo la Liguria tra i volumi dei grandi studiosi dell’epoca che valorizzavano le tradizioni popolari (Bladé²⁵, Carnoy²⁶, Cosquin²⁷, Luzel²⁸, Ortoli²⁹, Sébillot³⁰) non possiamo che essergli grati di farci ancora oggi ricordare le peculiarità politiche, sociali e culturali della nostra regione.

    4. Dall’Ottocento ad oggi

    L’esempio di Andrews fu seguito, dopo circa vent’anni, da Ubaldo Mazzini che, all’estremo opposto del golfo ligure, a La Spezia, raccolse e pubblicò in dialetto proverbi, ninne nanne, conte, fiabe, leggende, canzoni³¹: le fiabe spezzine sono assai vivaci e, nonostante riprendano tipi e temi consueti, vi si respira l’aria domestica di gente abituata a ricercare le proprie concezioni costantemente nella realtà pura e semplice³². Mazzini non indica i nomi dei narratori né possiamo conoscere esattamente i criteri di trascrizione adottati; alla lettura non si avvertono però quelle mediazioni letterarie o quei segni particolari di interferenze d’autore che caratterizzeranno di

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1