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Metallo danzante
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E-book439 pagine5 ore

Metallo danzante

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Info su questo ebook

Mezzo uomo e mezzo rettile, il Dragonetto ha ereditato l’omonima cantina di vinsetto quando suo padre adottivo Avilas è stato ucciso da una misteriosa entità che si annida nella remota Cittadella Ronzante. Consumato dal desiderio di vendetta, il Dragonetto decide di procurarsi l’unico strumento in grado di assicurargli la vittoria: il Montone d’Acciaio, un’antica arma fatta di metallo vivente sepolta nel cuore di una montagna. Il Dragonetto però non ha fatto i conti con la possibilità che il Montone, appena emerso da un sonno millenario fatto di incubi e sensi di colpa, non sia disposto a tornare a uccidere. A tutto questo si sommano l’imminente arrivo della Doccia Cruda, che rischia di soffocare i vigneti della cantina sotto una pioggia di sangue e rubini, e le preoccupazioni per la fidanzata Leily, minacciata dalle sue sorelle perché si rifiuta di partecipare a un rito sanguinario...

In questo nuovo capitolo del ciclo dreampunk di Leo Munzlinger, il bizzarro mondo dell’Uovo fa da scenario a una storia che parla di perdita e di responsabilità, narrata con uno stile trasparente e tridimensionale in grado di proiettare il lettore dentro un universo che non ha eguali nel panorama editoriale italiano.
LinguaItaliano
Data di uscita26 ott 2020
ISBN9788831982252
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    Anteprima del libro

    Metallo danzante - Leo Munzlinger

    barbaricina

    Dingodì

    Il mio nome è Mitata, e sono un tastavino errante. Nelle prossime pagine racconterò di come ho scoperto l’altopiano del G’z, del popolo che lo chiama casa e delle strane storie che impregnano il suo suolo congelato.

    Mitata, Il vino nella terra.

    Storia (e storie) dall’altopiano del G’z

    Esco dalla porta purpurea. L’odore salmastro del Mar Razzio mi riempie le narici.

    La luce del tardo pomeriggio si insinua nella nube di detriti che compone Minvuia. Le passerelle e le piattaforme che collegano le rovine fluttuanti gemono al vento.

    Faccio un passo in avanti. Il legno scricchiola sotto ai miei piedi, il ponte si inclina di lato. Agguanto il parapetto di corda.

    Tricancro si volta. «Ci sei, Netto?»

    «Ci sono».

    «Allora andiamo».

    «Aspetta». Mi giro.

    Un ginocchio argenteo affiora dalla porta purpurea. La punta del naso, quelle dei seni. Stevia emerge dal battente increspando la superficie di sangue gelatinoso.

    Una folata di vento fa oscillare il ponte. Porgo una mano a Stevia, lei mi fa cenno di non preoccuparmi. Sposta il peso da un piede all’altro finché non trova il proprio equilibrio.

    Tricancro si gratta la base del secondo collo. «La contapecore viene con noi?»

    Stevia solleva un sopracciglio. La brezza le scompiglia i capelli argentei.

    Scuoto il capo. «Resterà qui a fare la guardia».

    Stevia fa apparire il suo diario in uno sbuffo di spiritelli scarlatti. «Fate pure con calma».

    Mi incammino in direzione di Tricancro. Raddrizzo lo spallaccio dello zaino. Mister Mimbo, non vedo l’ora di riempirlo di candele!

    Tricancro è già a metà ponte. «Datti una mossa!»

    Lo raggiungo. «Sei il solito maleducato».

    «Che, ci sei rimasto male?»

    «No. Certo che no. Dico solo che—»

    «Guai a chi tocca la tua fidanzata terrestre». Sul suo becco si forma un ghigno. «Non è così?»

    «Voglio solo che non usi quella parola in sua presenza».

    «Certo che sei un paradosso!» Tricancro indica il Mercato Rancio con un cenno della testa. «Hai già dimenticato dove mi hai chiesto di portarti?»

    «Certo che no. Ma è diverso. Lei non rompe i coglioni a nessuno, a differenza di Martini e i suoi».

    «Non rompe i coglioni a te».

    Apro la felpa e sollevo la maglietta per lasciare passare un po’ d’aria. Il vento mi rinfresca le squame del ventre. «’orco zero, ma quanto caldo fa? Come fai a non avere caldo con tutti quei tubi addosso?»

    Tricancro rivolge una mezza occhiata allo strizzavene. Si stringe nelle spalle.

    Il ponte è ancorato a un pendio pietroso. No, è la parete di un tempio. Seguo Tricancro su per la salita. L’intonaco si sbriciola sotto i nostri piedi, frana verso il basso.

    Da quanto tempo questo posto sta cadendo a pezzi?

    Un minvù ci sorpassa fluttuando. Il vento gli strapazza la veste macchiata di sangue essiccato. Si dirige verso una rampa di gradini che porta al mercato.

    Tricancro indica le tende arancioni in cima alla scalinata. «Vuoi fare un giro, prima?»

    «No, no. Andiamo da Fau Lest».

    «Nemmeno un souvenir prima del ciccione?» Mi lancia un’occhiata divertita. «Allora facevi sul serio quando dicevi di voler iniziare a tagliare le spese inutili».

    Simpatico. «Se non la smetti di fare lo spiritoso ti taglio l’unica testa che rimane».

    Tricancro lancia un’occhiata al moncone a cui un tempo era attaccata la testa di Tispiac. Forse un giorno capirò cos’è successo veramente.

    «A proposito, tuo fratello come sta?»

    «Ha la testa sempre per aria».

    «Dovrei ridere?»

    «Dai, andiamo».

    Tricancro si lancia su per i gradini. Faccio lo stesso.

    Un minvù ci fissa dalla cima della scalinata. Ruota a mezz’aria, come un impiccato. Rivoli di sangue sgocciolano giù dall’intestino annodato a mo’ di cintura. Una goccia. Due gocce. Tre gocce.

    Tricancro si immerge nel mare di tende ammassate nello spiazzo. Gli vado dietro.

    Sulla bancarella alla mia destra una dozzina di arance ambulanti zampettano e lanciano spruzzi di succo nebulizzato dai diffusori. Più avanti sorge una montagna di bambole e pupazzetti tinti con spray argento. Fissano il vuoto con occhi fatti di bottoni rossi e frammenti di rubino.

    Tricancro si volta. «Trovato niente di interessante?»

    «No, no». Accelero il passo. «Davo solo un’occhiata».

    Tricancro attraversa la tenda di sferette d’argento ed entra nel negozio di Fau Lest. Lo seguo. Un tanfo di frutta marcia e sangue mi investe, è ancora più forte della scorsa volta.

    Il Mercato Rancido, ecco come dovrebbero chiamarlo!

    Stringo gli occhi per vedere meglio nella penombra. Scaffali storti e casse di legno pantera. Per terra, un’arancia ambulante. Dal diffusore parte uno spruzzo.

    Come se a un sognatore potesse anche solo venire in mente di entrare qui…

    Fau Lest appoggia una scatoletta bianca sul bancone. È chiusa da un nastro color zucca. Solleva lo sguardo, ci sorride con le varie bocche.

    «Bentornato, Trico. Bentornato...» Si acciglia.

    «Dragonetto».

    «Giusto». Fau Lest si ricaccia in bocca un dente che sta per scivolare via. «Giusto. Bentornato, Dragonetto».

    «Salve. Siamo passati qualche settimana fa per—»

    Fau Lest solleva un dito storto e grassoccio. Un indice, forse un medio. Difficile dirlo, la sua mano è un pasticcio di quindici dita.

    «Il tipo delle candele, non è così?»

    «In persona».

    Tricancro afferra la scatoletta bianca. «Questa cos’è?»

    «Biscotti antisognatore». Fau Lest sogghigna. «Ai più smilzi aprono un buco in pancia».

    «Interessante». Tricancro fa per sciogliere il fiocco.

    Fau Lest lo fulmina con un’occhiata. «Fermo lì».

    Tricancro mi porge la scatoletta. «Ti potrebbero servire?»

    Scuoto il capo. «Mettila a posto».

    Fa come gli dico.

    Fau Lest torna a guardarmi. «Allora, vuoi vedere le candele?»

    «Non aspetto altro».

    «Ottimo. Solo un secondo».

    Fau Lest scompare dietro un tramezzo di legno su cui è disegnata la principessa Tristeluce: lacrime di sangue scendono lungo le guance, il collo, il petto, formando un vestito liquido. Sullo sfondo, grande e indifferente come una montagna, l’Occhio Samebitico.

    Tricancro afferra di nuovo la scatoletta. «Sicuro che non—»

    «Finiscila!» Gliela strappo di mano e la rimetto a posto. «Tutto quello che devo fare è purificare la grotta dei sognatori. Non voglio ammazzare nessuno».

    «Fate spazio». Fau Lest viene verso di noi reggendo con tre braccia una cassa di legno.

    Sposto la roba sul bancone facendo attenzione a non farla cadere.

    Fau Lest appoggia la cassa. Un intenso profumo d’arancia e cera si spande nell’aria.

    Mi strofino il naso. «È forte».

    Fau Lest fa sì con la testa. Una bocca sorride fra le pieghe di grasso. «Arance della Gingea, come promesso».

    Mi sporgo in avanti. «Posso?»

    «Certo». Fau Lest sblocca la cassetta e la gira verso di me.

    Sollevo il coperchio. All’interno della cassetta ci sono le mie candele… e una dozzina di arance.

    Arance arancioni, Mister Mimbo!

    Tricancro fischia.

    Già. Una sorpresa niente male!

    Tra le arance e la parete della cassa c’è un foglietto di argento ripiegato. Il certificato di autenticità.

    Queste candele sono state fabbricate in Gingea con materiali naturali e di prima scelta. Ogni candela è un pezzo unico, realizzata con arance provenienti dalla Gingea, cera delle Grandi Api e rune tracciate a mano da noi. La lavorazione è stata eseguita interamente a mano con tecniche artigianali, tradizionali e tipiche della nostra terra.

    Liete di poterti aiutare a combattere la Piaga Argentea,

    Danima e Danria

    Rimetto il certificato a posto. «Bene. Molto bene. Duemilacinquecento gorga, giusto?»

    Fau Lest si acciglia. «Duemilacinquecento?»

    Ma che... «Sì».

    Lancio un’occhiata a Tricancro.

    «Il Dragonetto ha ragione, Fau. Avevi detto duemila e cinque. Al massimo tremila».

    Al massimo che? ’orco zero, ma che sta dicendo?

    Niente panico. «Duemilacinquecento gorga. Così hai detto l’altra volta».

    Fau Lest si gratta la tempia con un’unghia spezzata. «Può darsi. Sai com’è la memoria di noi minvù». Tira un sospiro. «A pezzi, come quel che resta della nostra città».

    Appoggio le mani sulla cassa. «Duemilacinquecento gorga».

    «Duemilasettecentocinquanta».

    Diavolocane! «Duemila e cinque. Questo mi hai detto l’ultima volta e questo ti pago».

    Fau Lest scuote il capo. «Potrei accettare se fossi sicuro. Il problema, ahimé, è che un minvù non può fidarsi della propria memoria». Mi lancia uno sguardo di sottecchi. «Bada bene, non sto insinuando che ti approfitteresti di me».

    Brutto figlio di… «D’accordo. Duemila e sei».

    Fau Lest fa per portare via la cassa.

    «Va bene!» Apro il portafoglio e conto le banconote. «Duemilasettecento gorga per la tua memoria traballante. Tieni».

    Fau Lest le afferra. «Apprezzo la tua onestà, Dragonetto».

    «Certo, certo». Sangue e rubini, giuro che qui non ci torno più!

    Mi chino sulla cassa. No, mi sa proprio che le candele e le arance nello zaino non c’entrano. Sollevo la cassa, i muscoli degli avambracci si tendono.

    Tricancro mi lancia un’occhiata. «Ti vedo in difficoltà. Vuoi una mano?»

    «Non ce n’è bisogno».

    Gli faccio cenno di seguirmi e mi dirigo verso l’uscita. L’arancia ambulante si ferma davanti a me, una zampetta sospesa a mezz’aria, come se stesse valutando se spruzzarmi addosso una nuvoletta di succo.

    Se non si sposta adesso, le do un calcio…

    L’arancia mi spruzza un po’ di succo sui pantaloni e ricomincia ad avanzare. Sparisce scricchiolando dietro uno scaffale su cui sono esposte file di barattoli e vasetti pieni di argento senz’anima. In molti casi il senz si è sbriciolato solo in parte, mantenendo le forme originali dei sognatori: denti incrinati, mozziconi di dita, occhi spalancati.

    La voce di Fau Lest mi giunge da dietro le spalle: «Visto qualcos’altro?»

    Infilo la testa nella tenda di palline ed esco.

    Stevia è seduta davanti alla porta purpurea, sta scribacchiando qualcosa nel suo diario. La luce dei Biancorvi le fa brillare le piccole crepe che le serpeggiano sulla pelle argentea.

    Appoggio la cassa per terra, mi massaggio i muscoli delle braccia.

    Stevia tira su la testa e arriccia il naso. «Però. Forti, queste candele».

    «Meglio se non ti avvicini, Ste».

    «Tranquillo, non c’è rischio». Si fa vento con la mano. «San Drakenstein, che puzza».

    Indico la porta purpurea. «Vai, un istante e ti raggiungiamo».

    «D’accordo».

    Stevia si alza e si immerge nella porta. Piccole onde increspano il sangue, spariscono oltre i lati del battente.

    Perfetto, così è al sicuro.

    Avvicino il naso alla cassa e inspiro a fondo. Gli aromi del legno e delle candele mi esplodono nelle narici, tossisco.

    Arance della Gingea!

    «Be’?» Tricancro si sistema la piastra pettorale dello strizzavene. «Stai per morire?»

    Tiro su col naso. «Ma come fa Tispiac a sopportarti?»

    «Non mi sopporta, infatti. È per questo che gli ho tagliato la testa».

    Emergo nel terrazzo di casa.

    Piove. Le gocce si spappolano sulla plastica trasparente della tettoia, scivolano giù dal bordo in grassi rigagnoli. La luce grigia del crepuscolo si riflette sulle piastrelle bagnate.

    Esco dalla piscina gonfiabile e mi allontano di qualche passo. La porta purpurea si increspa, emerge Tricancro.

    «Proprio una bella serata». Si guarda attorno. «Quasi quasi apro un’altra porta su una spiaggia del Ca Vrit».

    Che buffone. «Ma se non sei nemmeno in grado di arrivare nel Sauripigon».

    Socchiude gli occhi. «Intanto ti ho portato nel Mar Razzio... di nuovo».

    Distendo le labbra in un sorriso. «Allora, hai sempre fame?»

    «Che domande!»

    Faccio un cenno a Stevia. «Potresti aprire la portafinestra, per cortesia?»

    Lei annuisce e fa scorrere l’anta.

    «Grazie».

    Entro e appoggio la cassa delle candele in un angolo, vicino all’aspirapolvere a parete. Le porterò dopo nello studio di Avilas.

    Mi asciugo il sudore sulla fronte col cappuccio. Non posso ammalarmi proprio ora, a un passo dalla vendemmia...

    Tricancro entra in salotto e va verso il falso divano. «Basta smancerie interspecie, sto morendo di fame!»

    Stevia richiude l’anta e lo segue.

    Tricancro si accomoda sul divano, dà una pacca al bozzolo. «Allora, quand’è che si schiude questo coso?»

    Mi stringo nelle spalle. «Non ne ho idea. Neanche Avilas ce l’aveva. Potrebbe succedere stanotte come fra cento anni».

    Vado in cucina e prendo il cesto delle merendine. Lo appoggio sul tavolino, di fronte a Tricancro. «Le briciole, mi raccomando. Già mi basta il senz che entra dall’esterno».

    Tricancro strappa una confezione col becco. Inspira a fondo. «Oh, sì».

    «Mi hai sentito, Trico?»

    Stevia mi fa cenno di lasciarlo stare. Si accomoda sulla poltrona e accavalla le gambe argentee. Appoggia il diario sul bracciolo, guarda davanti a sé.

    Chissà a che cosa pensa. Credo di non averla mai sentita pensare a voce alta...

    Mi siedo al fianco di Tricancro. Lui afferra una manciata di cioccolatini jufeliani e li appoggia sul tavolino, come per avvertirci che sono suoi.

    Stevia mi cerca con gli occhi. «Guarda, Dragonetto».

    La porta purpurea sta gocciolando. Ruscelletti rossi serpeggiano verso il basso, depositandosi sul fondo della piscina gonfiabile.

    Tricancro solleva lo sguardo, il becco sporco di cioccolata. «Ah, già».

    Preme un pulsante sullo strizzavene. La porta purpurea si lacera, si liquefà, crolla nella piscina. Il sangue trabocca e bagna il pavimento del terrazzo.

    «Ops».

    Sprofondo nel divano. «Fa niente, Trico. Piuttosto, volete qualcosa da bere?»

    Lui indica Stevia. «Ma perché le chiedi sempre se vuole da bere? È una contapecore, con un bicchiere d’acqua ci va avanti un mese!»

    «Vuoi qualcosa, Ste?»

    «Una Psi-Cola, grazie».

    «Perfetto. E tu, portarius dei miei stivali?»

    Sul volto di Tricancro appare un’espressione furbetta. «Sai bene cosa voglio».

    La bottiglia di Avilas. «No».

    «E dai!»

    «Ho detto di no».

    «Non pensi sia meglio condividerla con noi che cederla a Dil Dai Me?»

    «Non cederò altro a quella vecchia salamadra». Con un gesto indico il salotto spoglio. «Ci manca solo che gli venda quella».

    Tricancro si piega verso Stevia. «A proposito, ma da quant’è che non torni sulla Palla di Neve? Senza offesa, amica, ma non hai un bell’aspetto».

    Sorrido. «Allora, Trico, vuoi niente?»

    «Del vino. Dammi del vino. Che non sia Dragonetto, però. Cos’hai di interessante oltre al tuo vinsetto?»

    Mi alzo. «Mah. Dovrebbe essermi rimasto un Pianeti del 13.001».

    «Un Pianeti del 13.001». Tricancro mi fa il verso. «Questo vino avrà sì e no la mia età».

    «Se non la finisci bevi solo acqua, stasera».

    Si gratta quel che resta del collo di Tispiac. «D’accordo, capo. Vada per il Pianeti».

    Il terrazzo è immerso nella penombra della sera.

    Stevia accartoccia la lattina di Psi-Cola, la appoggia sul tavolino accanto al sacchetto vuoto dei biscotti.

    Tutte le volte che apre una porta Tricancro fa una strage, non posso spendere tutti questi soldi in dolci… Devo iniziare a risparmiare anche in questo senso.

    Tricancro prende la bottiglia di Pianeti e la osserva in controluce. «Oh, be’». Porta il calice al becco, rovescia l’ultimo goccio di vino celeste sulla lingua.

    Mi stropiccio le palpebre. «Allora, ripristinate le scorte?»

    «Ho sonno». Posa il calice e appoggia la testa sul falso divano. «Mi sa che—»

    «No, no. Non ci pensare nemmeno». Mi alzo. Il salotto fa un mezzo giro attorno a me. «Va’ a casa. Tuo fratello sarà preoccupato per te».

    «Alla testa volante non gliene frega un fico secco di me. A volte penso che aspetti solo il momento giusto per vendicarsi».

    «Non dire cazzate, Trico». Lo aiuto ad alzarsi. «Su, vieni, ti accompagno alla porta».

    Solleva gli occhi su di me. «E la mancia?»

    «Sei ubriaco, Tricancro».

    «Su questo...» Strizza gli occhi. «Su questo non c’è dubbio. Non hai risposto alla mia domanda, comunque».

    Lo spingo attraverso il corridoio. «La risposta è no. A meno che tu non accetti come valuta i calci in culo. Ti vanno bene i calci in culo?»

    Tricancro solleva un artiglio, pronto a obiettare.

    Apro la porta. «Buon riposo. E fila a casa, mi raccomando. Non farti beccare dalle spose come l’altra volta».

    «Quelle stronze». Barcolla in direzione delle scale. «Prima o poi qualcuno dovrebbe dargli fuoco, a quelle fighe di legno».

    «Ci sentiamo per la prossima porta».

    Tricancro si volta e mi mostra il medio. Glielo mostro anche io.

    Chiudo la porta alle mie spalle, mi stropiccio gli occhi.

    Devo dirgli che non posso più pagarlo come ho fatto fino a ora. La mancia! Madre di Mimbo, se ci penso mi viene da ridere. Quello che do a lui e suo fratello è già uno stipendio.

    Vado in salotto. Stevia si gira verso di me.

    Le sorrido. «Che c’è?»

    «Ti vedo agitato».

    Mi siedo sull’estremità del falso divano, a un passo da lei.

    Appoggia il mento sul pugno. «Hai pensato a cosa dire a Contiazz?»

    «Sì...» Abbasso il cappuccio sul volto. «No. Cioè, yelquin zelquin».

    «Non ci hai pensato».

    «È che...» Faccio un gesto d’impotenza. «So che devo farlo, ma non so come devo farlo».

    «Diglielo e basta, no?»

    «Come faccio a dirglielo e basta, Ste? C’è di mezzo la cantina, i macchinari, i dipendenti... Non è mica un gioco!»

    «Guarda che sei tu quello che ha iniziato a giocare».

    Incrocio le braccia sul petto. «I lavori nella grotta non sono un gioco. Non lo sono mai stati».

    «Avilas—»

    «Mio padre non c’è più. Non può fermarmi».

    «Allora prenditi le tue responsabilità. Parla con Contiazz... Vedrai, capirà».

    Terrestri! La fanno sempre facile. «Quindi secondo te domattina dovrei prenderlo e dirgli Come procede con i trattamenti, Azz? So che la vendemmia è vicina e che dobbiamo pagare i furiani, ma devo avvisarti che quest’anno non ce lo potremo permettere. Sai com’è, ho speso quasi tutti i nostri soldi per riportare alla luce un’enorme macchina da guerra

    Stevia fa oscillare la testa. «Magari non usando proprio quelle parole, comunque—»

    «Maddai».

    «Vado in camera mia». Prende il diario e si alza. «Cioè, in camera tua».

    «A scribacchiare?»

    «Dovrò pur occupare il mio tempo in qualche modo».

    Potrebbe tornare sulla Terra, eppure non lo fa... Possibile che ami così tanto l’Uovo?

    «Buon riposo».

    Stevia si incammina lungo il corridoio, i suoi fianchi ondeggiano. «A domani, Dragonetto. Sogni d’oro».

    Sì, sogni d’oro. Come se con tutte le cose a cui devo pensare potessi chiudere occhio.

    Mi alzo. Contiazz. Devo parlare con lui. Devo seriamente parlare con lui.

    Raccolgo le cartacce e la bottiglia. Vado in cucina. Appoggio la bottiglia a fianco del lavello, mi abbasso e apro lo sportello. Dietro il cestino della plastica c’è una montagnola di senz’anima.

    Sognatori. Finiranno per soffocarci.

    L’accettazione della morte è come un muscolo

    Le croste del Sentiero d’Argento scricchiolano sotto ai nostri piedi. Vermi volanti cinguettano avvolti ai rami degli alberi, fanno vibrare le piume multicolori. I Biancorvi splendono in un cielo meno polveroso del solito.

    «Torniamo indietro, Avilas».

    Lui scuote il capo. Il suo volto è terreo.

    «Dico sul serio, torniamo indietro. Non voglio che ti affatichi troppo».

    «Sto morendo, Netto. Pensi che una passeggiata nella natura mi faccia paura?»

    «Per favore, potresti smetterla di parlare a quel modo?»

    «Ma è la verità, mio piccolo sparviero. Non ho più paura».

    Faccio un respiro profondo. «Senti, Avilas—»

    «Basta chiamarmi così. Per favore». Si tira su e mi stringe forte la spalla. «Papà. È questo che sono, è così che mi devi chiamare».

    «Va bene, papà».

    Sorride. «Sei sempre stato un gran testone».

    La foresta è una compagna silenziosa e discreta. È in momenti come questo che apprezzo la Spunta-seghe, quando non ci sono spose degli alberi che ti lanciano sguardi duri e neri come l’ossidiana da dietro i tronchi e le rocce.

    «Guarda, Netto».

    Le rovine di una piccola cappella appaiono in mezzo agli alberi. Rampicanti serpeggiano sulle pareti come tentacoli, gli spazi fra i mattoni sono invasi da orecchie di sognatore e altri funghi.

    Sopra l’ingresso c’è il disegno di un uccello dalle ali spalancate. Le sue piume, lingue di fuoco variopinto, si allungano verso il basso. La testa non c’è più, cancellata dalle intemperie e dal tempo, ma non c’è dubbio che quello sia l’Uccello-Pira.

    Mi volto verso Avilas. «Una chiesetta juanita? Da queste parti?»

    «Sì».

    «Non pensavo fossi credente».

    «Non lo sono, infatti». Si stacca da me. Oscilla. Faccio per sorreggerlo ma lui scuote il capo, come a dirmi che ce la fa. «Per me c’è solo il Mister».

    Sospiro. Non dovremmo essere qui, dovremmo essere a casa.

    Se dovesse succedergli qualcosa non avrei nessuno a cui chiedere aiuto. Siamo troppo distanti da Sip. E il cellulare non prende nemmeno troppo bene.

    «Torniamo indietro, papà».

    Avilas muove un passo verso la cappella. «Era già così quando siamo arrivati qui, sai?»

    «Papà... Avilas».

    Si volta, mi fa cenno di aiutarlo.

    «Ho capito, ho capito». Lo raggiungo e gli passo un braccio attorno alla schiena. Le sue ossa spigolose mi pungono. «Ma poi torniamo indietro».

    Ci avviciniamo alla cappella. Sotto le nostre suole, schegge di legno, conchiglie di lumaca, grumetti d’argento senz’anima e spiritelli scarlatti.

    Mi fermo sotto il disegno dell’Uccello-Pira. Dopo tutti questi anni scintilla ancora, dev’essere stato realizzato con un pigmento speciale.

    Avilas si muove. «Andiamo».

    Oh, finalmente.

    «No». Indica l’interno della chiesetta.

    «Perché?»

    «Perché sì». Apre la bocca e aspira un filo d’aria. «Quante domande, oggi. Sicuro che va tutto bene, Netto?»

    No che non va bene! Sei malato, merda di Mimbo!

    Cerco di assumere l’aria più rilassata possibile. «Dai, papà, andiamo. Qui ci torniamo un’altra volta».

    «Non ci sarà un’altra volta».

    «Molto divertente».

    Avilas mi dà una debole pacca sulla schiena. «Su con la vita».

    Sbuffo. È l’unica cosa che posso fare.

    Passiamo sotto l’arco. Il pavimento della cappella è sepolto sotto uno strato di terra mista ad argento, ciuffi di coglionella e tihodettodinò spuntano ai piedi delle pareti. In un angolino, il teschio di una volavolpe.

    Davanti a una finestra c’è una panca. «Ti vuoi sedere lì?»

    Avilas annuisce.

    Mi chino sulla panca. Uno scorpione grande come l’artiglio del mio pollice cammina sul bordo.

    «Lascialo stare, Dragonetto. Sediamoci».

    La panca cigola sotto il nostro peso.

    Avilas tiene gli occhi fissi davanti a sé. Sospira. «Sono stanco».

    «Lo so, papà». Mi giro vero l’ingresso. «Per questo penso che sia il caso di—»

    «È tutto a posto». Mi appoggia una mano tremante sulla coscia e mi accarezza. «È tutto a posto, tesoro mio».

    Allontano la sua mano e mi alzo. «No che non è a posto. Niente è a posto. Non se muori».

    «Ti ci abituerai, come mi sono dovuto abituare io».

    Digrigno i denti. «Stronzate».

    Avilas si passa una mano sul volto sfatto. «Hai ragione. Per quanto uno si sforzi, per quanto uno ci provi...» Fa schioccare le labbra. «È difficile».

    Torno a sedermi al suo fianco.

    Avilas assume un’espressione solenne. «L’accettazione della morte è come un muscolo. È solo questione di allenamento».

    Mi costringo a ridacchiare. «Bella, questa. Chi te l’ha detta?»

    I suoi occhi brillano. «Un vecchio amico».

    «Quello a cui scrivi sempre?»

    «Proprio lui».

    Scricchiolii. Profumo di resina mista a vegetazione morta. Lunghi artigli di legno si chiudono sui mattoni sbreccati della finestra.

    Spose degli alberi!

    Avilas mi appoggia una mano sulla spalla. «Tranquillo».

    Mi accosto a lui. «Sono... sono venute a...»

    Scuote il capo. «Non ci faranno niente. Sereno, Dragonetto».

    Quelle dita acuminate…

    Sono in due. Hanno corpi slanciati, costellati di licheni fra il verde pallido e il grigio. Fratture aguzze corrono lungo l’esoscheletro di legno.

    Le spose degli alberi ci fissano con gli occhi neri come il petrolio.

    «Salve, sorellone». Avilas accenna un sorriso.

    La sposa a sinistra batte le dita sul bordo della finestra. Tic. Tic. Tic. I frammenti di pietra scricchiolano. La sposa a destra aggrotta la fronte e inclina il capo, facendo cigolare le fibre vegetali.

    «Fa’ come se non ci fossero».

    Sì, certo, come se non ci fossero. Sangue e rubini.

    Avilas mi appoggia una mano sulla guancia. «Tu non sai quanto mi hai reso felice. Tu non lo sai».

    Appoggio la mia mano sulla sua. «Quanto... ti ho reso felice?»

    Fa sì con la testa.

    «Anche tu, papà».

    «Non è vero». Sospira. «Sono stato un pessimo padre».

    Un pessimo padre? Ma che sta dicendo?

    I suoi occhi si chiudono.

    «Papà?»

    Avilas riapre gli occhi. Si appoggia a me e mi stringe con tutta la forza che ha in corpo. Faccio passare un braccio attorno alle sue spalle, mi chino e appoggio la gola sulla sua testa. La sua pelle odora di terra irrancidita e foglie morte.

    Le spose continuano a fissarci. Perché non se ne vanno?

    «Non la cercare».

    Trasalisco. «Che cosa hai detto?»

    «Rita. Non la cercare». Mi inchioda con lo sguardo. «Per nessun motivo. Promettimelo, Dragonetto». La sua voce si incrina. «Promettimelo».

    «Io...» Le parole mi inciampano sulla lingua. «Sì, papà. Te lo prometto».

    Avilas tira un lungo sospiro. Il suo abbraccio si allenta. «Grazie».

    «Che ne dici di tornare a casa, ora?» Abbasso la voce. «Non ho intenzione di stare in questo posto un istante di più».

    Silenzio.

    «Papà?»

    Avilas ha smesso di respirare.

    Il mio cuore si restringe. «Papà. Avilas».

    È solo una delle sue crisi. Se lo scrollo si sveglierà...

    Lo prendo per le spalle e lo scuoto. «Respira, Avilas».

    Niente.

    Mi manca l’aria. Mi manca l’aria! «Respira, papà».

    Le spose mi fissano, gli occhi vitrei come quelli di uno squalo.

    «Aiu...» Ho un nodo alla gola. «Aiutatemi. Per favore».

    La sposa a sinistra stacca le mani dalla finestra e rivolge uno sguardo di ossidiana alla compagna. Si girano e si allontanano in direzione degli alberi.

    Stringo Avilas a me e mi sporgo in avanti. «Ferme! Non lasciateci soli!»

    Ma le spose non si voltano.

    Misterdì

    La verità, come sempre, è molto più prosaica di quanto si pensi: ero ubriaco fradicio. Se sono giunto sull’altopiano è solo per merito dell’allosauro nano su cui gli organizzatori del Giro dell’Inframondo in Trecento Cantine mi caricarono al termine della rassegna.

    Mitata, Il vino nella terra.

    Storia (e storie) dall’altopiano del G’z

    Avilas!

    Apro gli occhi e scatto su: sono nel suo studio. La luce dei Biancorvi filtra attraverso la serranda, disegnando i profili delle cornici e delle mensole vuote.

    Era solo un sogno. Un incubo.

    La penombra profuma di cera, arance e magia. La cassa delle

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