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Il viaggio di A Libro Quinto A in Egitto
Il viaggio di A Libro Quinto A in Egitto
Il viaggio di A Libro Quinto A in Egitto
E-book240 pagine3 ore

Il viaggio di A Libro Quinto A in Egitto

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Info su questo ebook

Il quinto libro della serie narrativa IL VIAGGIO DI A, intitolato A IN EGITTO, è ricco di sorprese capaci di meravigliare ogni lettore.

La coraggiosa protagonista arriva prima sull’isola di Creta, dove affronta il Minotauro e il loro incontro produce esiti del tutto inattesi.

Una volta giunta in Egitto, A attraversa il deserto. Alcuni archeologi e la guida Mondawa la aiutano a proseguire il suo cammino fino a Luxor. Insieme raggiungono un’antica e misteriosa città in cui accade un evento straordinario. A incontra la dea Iside che preannuncia alla giovane il suo ruolo determinante nella liberazione dell’Egitto.

A si aggiunge poi a un gruppo di guerrieri e arriva presso la pianura di Shalam, dove affronta i soldati del dio Seth che hanno reso schiavi molti uomini e donne. Inoltre, decide di sfidare la temibile Sfinge in un duello davvero avvincente.

Nei pressi della città di Berenice, si svolge un’altra difficile battaglia e solamente l’arrivo in volo della Fenice assicurerà la vittoria contro il potente esercito degli avversari.

Al termine, grazie un prodigioso evento che avviene all’interno del tempio di Dendera, A riuscirà ad arrivare in India senza dover attraversare il mare.
LinguaItaliano
Data di uscita29 ott 2020
ISBN9791220301398
Il viaggio di A Libro Quinto A in Egitto

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    Anteprima del libro

    Il viaggio di A Libro Quinto A in Egitto - Adriano Scarmozzino

    Adriano Scarmozzino

    Il viaggio di

    A

    Libro quinto

    A in Egitto

    Capitolo 1

    Il minotauro

    Rincuorata dalla notizia sulla madre Domenica ancora in vita, A sentiva l’urgenza di partire dall’Italia per ricominciare le ricerche. Dopo aver appreso che una nave sarebbe salpata verso l’Egitto dal tratto più orientale della costa della Puglia, nei pressi della località di Otranto, si affrettò a procurarsi un cavallo.

    A cavalcò verso sud, attraversando bianche spiagge marine e, una volta superate le città di Bari e Brindisi, proseguì ancora fino a raggiungere il promontorio chiamato Punta Palascia.

    Nei pressi di un faro che svettava sulle rocce della costa, si trovava ormeggiata una grossa imbarcazione, del tutto diversa da quelle che A aveva visto fino a quel momento. Si trattava di una vecchia nave mercantile in metallo, che possedeva una cabina di pilotaggio situata a poppa e un lungo ponte che arrivava fino a prua senza la presenza di alberi e di vele. Vi erano invece ammassate un centinaio di casse di legno, tutte ordinate l’una sopra l’altra e avvolte in ampie reti per formare un blocco unico di merci da trasportare via mare.

    Dopo essere salita a bordo, incontrò Calogero Viviani, il proprietario della nave. A si presentò dicendo di dover raggiungere l’Oriente, iniziando anche a spiegare dei Daimònes e delle loro malefatte.

    Il signor Viviani, un uomo di mezza età con un viso rotondo e due occhi vispi dallo sguardo schietto, la interruppe dicendo: «Ascolta ragazza, io sono un mercante e non ho tempo per occuparmi dei problemi di cui mi parli, mi dispiace molto. Qui sulla mia nave Leucotea ci sono delle casse piene di vasi da portare fino a Creta e bisognerà raggiungere presto anche l’Egitto, dove per te sarà possibile continuare verso le terre d’Oriente. Se vuoi unirti a noi, potresti lavorare per me fino a quando non arriviamo ad Alessandria d’Egitto, gli uomini del mio equipaggio sono pochi e si spaccano la schiena dalla mattina alla sera. Ti offro quindi un viaggio per mare in cambio di lavoro, prendere o lasciare...».

    «Ho già lavorato su una nave e per me va bene, anche perché non avrei nulla con cui poter pagare» replicò A soddisfatta. Malgrado non avesse voluto ascoltare tutta la sua storia, aveva ricevuto un’impressione positiva da quell’uomo che si era mostrato subito disponibile e aveva espresso il suo pensiero con voce calma e rispettosa.

    La mattina seguente, la nave Leucotea solcò le onde del mare e, con il vento nei capelli, A pensò contenta: «Con questo mercantile potrò raggiungere presto l’Egitto. Finalmente so che mia madre è viva, ora mi sarà più facile dimenticare tutto il tempo e la fatica che ci son voluti per arrivare fin qui. Anzi, mi sembra quasi di cominciare adesso il viaggio come se fosse il primo giorno...».

    La ragazza aveva con sé solo una sacca e il suo diario. Andò a sedersi sul ponte della nave e, un attimo prima di iniziare a scrivere, chiese che giorno fosse.

    «Non lo sai? È il secondo giorno del mese di febbraio dell’anno 1891» fu la precisa risposta di uno dei marinai.

    A ringraziò e con occhi riflessivi mormorò: «Oggi inizia la mia traversata per mare che mi porterà verso l’Oriente. Tanti giorni sono passati da quando ho lasciato la mia casa in Cile, in questo diario desidero raccontare la mia storia. Credo che la scrittura mi possa aiutare a non crogiolarmi con pensieri malinconici, per questo cercherò di esprimere tutte le mie emozioni, provando a capire meglio tutto ciò che mi sta accadendo. Intendo attraversare con animo tranquillo le pagine della mia vita con lo stesso spirito con cui mi accingo a navigare sulle onde, senza sapere cosa potrà esserci dall’altra parte del mare».

    Quella sera A se ne andò a dormire nella stiva, dove tutti i marinai riposavano su morbidi materassi di iuta, imbottiti di lana.

    La mattina seguente ebbe l’incarico di pulire il pontile della nave. Quel compito non le sembrò troppo faticoso, il lavoro più duro era stato già assegnato a quattro giovani marinai adibiti a riempire di carbone la caldaia che doveva bruciare ininterrottamente per consentire alla nave di navigare. Le informazioni sulla nave e sugli altri marinai le conosceva grazie a Leandro, un marinaio anziano e pacato a cui era stata affidata per lo svolgimento del lavoro. L’uomo eseguiva ogni movimento con lentezza e con estrema cura, si rivolgeva ad A con aria seria e dava continuamente istruzioni, senza mai alzare la voce.

    Anche il resto dell’equipaggio si comportava in modo pacifico e ognuno svolgeva il proprio compito senza dare fastidio ai compagni. A capì presto che il merito era del signor Calogero, un uomo rispettoso nei confronti di tutti. Era attento non solo ai propri uomini, ma anche verso gli animali. Ogni volta che veniva issata una rete da pesca dalle onde, ripeteva ai marinai: «Prendete solo la quantità che ci serve e ributtate gli altri pesci in mare, soprattutto quelli più piccoli, per consentire a ogni specie di crescere e rigenerarsi».

    Un pomeriggio scoppiò un diverbio inatteso tra due marinai e Viviani intervenne subito per calmare gli animi.

    «Sulla mia nave non bisogna mai litigare. Il commercio è già un mestiere faticoso che ci dà mille grattacapi. Io vi ho dato un lavoro, voi fatelo con impegno e aiutatevi gli uni con gli altri. Quando non siete d’accordo su qualcosa, chiamatemi e penserò io a risolvere la questione. E ricordatevi che la metà dei problemi nella vita li crea l’uomo con il proprio nervosismo. Invece di farmi del male reciprocamente, respirate l’aria buona del mare e lasciate andare ogni tensione...» disse con tono amichevole, senza impartire punizioni a nessuno. Grazie alla pazienza e al buon senso con cui agiva, tutti riuscivano a ritrovare la calma e a far prevalere la concordia su ogni atteggiamento di prevaricazione.

    Più tardi, durante una pausa, A se ne andò a sedere a prua in assoluta quiete. Aprendo le pagine del suo diario si fermò a lungo a osservare le pagine bianche e a meditare su cosa scrivere. Era incerta su come iniziare, allora pensò di chiederlo al mare: «Dimmi, azzurro mare, acqua vitale che ti muovi sicura e gioiosa, come posso dar vita al mio racconto. Cosa posso scrivere che abbia un senso non solo per me, ma anche per chi un giorno dovesse leggere queste pagine? Se narro la mia vita, potrà importare davvero a qualcuno? La triste storia di una ragazza partita per cercare la madre scomparsa saprà emozionare il cuore di chi legge? Se fossi in grado di scrivere come una vera maestra di scuola, allora potrei descrivere la fragile paura e lo smarrimento del mio animo, l’inquietudine che spesso mi assale da quando mia madre è sparita...».

    Sospirò per un momento e poi ricominciò: «Sussurratemi voi, onde del mare, con le vostre voci che cantano armoniose come in solo coro, in quale modo posso far comprendere le tempeste che hanno attraversato e sballottato la mia anima? La mia mente, lasciata in solitudine e carente di affetto, inventa mondi affollati di centinaia di mutevoli personaggi che agiscono dando forma alla vita e al tempo in luoghi mai visti prima. Vorrei sospendere questo flusso continuo e disordinato della mia immaginazione, ho bisogno di comporre da mille visioni una sola storia che intendo ricostruire e ricucire, solo così potrò rimettere insieme i brandelli della mia esistenza. Date voi una fresca carezza ai miei pensieri e donatemi la quiete. E vi prego di suggerirmi le frasi più giuste da dire, perché non è facile illustrare i continui cambiamenti che avvengono dentro di me. Uno specchio può riportare la mia immagine com’era prima che tutto cominciasse e un altro mostrarmi come sia cambiato il mio aspetto, però nulla può rivelare tutto ciò che è avvenuto dentro e fuori di me durante il tempo della trasformazione. Ecco, io vorrei saper raccontare proprio il momento in cui le cose stanno accadendo, nel loro divenire, non quando tutto deve ancora succedere oppure è ormai fatalmente avvenuto. Io credo che possa capirmi bene il vento che si muove incessante senza mai fermarsi, per questo mi rivolgo anche a te, o zefiro che soffi leggero sul mare. Anche dentro di me sento un continuo movimento, una mutazione perenne. Da quando non ho più al fianco mia madre, mi sento una persona imperfetta, in cerca di un equilibrio mai raggiunto, e sempre mi torna in mente l’immagine del bruco che diventa farfalla. Attraverso la fantasia, vivo ogni giorno un’esperienza incredibile e magnifica: quando il mattino mi sveglio, mi trasformo per volare libera nel cielo; poi la notte ritorno nel baco da seta, dove mi riparo da ogni pericolo e mi sento protetta, per poi rinascere ancora una volta all’apparire del primo raggio di sole. È forse possibile esprimere con le giuste parole questo nascere e morire dell’anima? Per lungo tempo, ogni sogno mi è sembrato difficile da realizzare, ora cerco di pensare che ogni limite potrebbe forse svanire se solo riuscissi a sentirmi tutt’uno con l’immensità che mi circonda. Ho deciso quindi che non penserò più a nulla e semplicemente scriverò, in modo che sia la penna ad attraversare, come una freccia, la distanza che separa l’immobile quotidianità dall’entusiasmante desiderio di vivere. Stringendo il diario tra le mani, credo sarà più semplice sopportare il tempo necessario per la ricerca di mia madre. Spero che alla fine riusciremo a riabbracciarci felici l’una all’altra, così i due percorsi della fantasia e del corpo saranno stati un viaggio unico ed io lo avrò completato trovando me stessa e chi mi ha donato la vita, scrivendo negli spazi azzurri del cielo il mio nome e la nostra storia umana».

    A si accinse ad annotare tali pensieri nel diario e li rilesse più volte. E nel vedere le prime pagine riempirsi in poco tempo, sentì improvvisamente di essere contenta. Ancora non riusciva, però, a capire se fosse stata la propria volontà a imprimere quelle parole oppure se la scrittura avesse indicato alla mano i segni da trascrivere sul diario. Alla fine si convinse che erano stati proprio il mare, il vento e il cielo la vera fonte di ispirazione, consentendole di superare il blocco iniziale in maniera naturale.

    Così A aveva cominciato a scrivere la propria storia e per diversi giorni proseguì ogni volta che aveva un momento libero, fino a quando un tiepido pomeriggio non si accorse che la nave si stava avvicinando alla terraferma.

    A corse da Leandro per chiedere in quale posto stessero per approdare.

    «Quella che vedi è l’isola di Creta...» rispose il marinaio.

    La ragazza non apparve molto contenta, perché sperava di essere già arrivata in Egitto. E desiderosa di saperne di più, domandò ancora: «Quanto tempo ci vorrà ancora prima di arrivare sulle coste egiziane?

    «Prima ci dobbiamo fermare a Creta qualche giorno. Dal momento in cui ripartiremo, per raggiungere il porto di Alessandria ci vorrà una settimana circa, ma dipenderà dalle condizioni del tempo, se ci saranno giorni di sole o se andremo incontro a qualche burrasca» rispose il marinaio.

    Quando la nave approdò a Creta nel porto di Chania, sul versante nord occidentale dell’isola, il signor Calogero ordinò ai suoi uomini di scaricare solo una decina di casse tra quelle che si trovavano a bordo. Subito dopo chiese a Teodoro, il suo marinaio più fidato, di noleggiare un carro e raggiungere il mercato della città di Theriso che si trovava nell’interno dell’isola per vendere la merce.

    Teodoro conosceva la strada perché c’era stato numerose volte e domandò chi volesse accompagnarlo, però i suoi compagni dichiararono di voler rimanere nella zona del porto a bere e mangiare nelle trattorie in attesa del suo ritorno.

    «Insomma, come fate a restare tutto il tempo qui a oziare? Almeno qualcuno di voi venga con me, ho bisogno di una mano per scaricare le casse, quando sarò arrivato a Theriso».

    Allora il vecchio Leandro si offrì di aiutarlo e con lui decise di andare anche A, che fece due passi in avanti e disse: «Preferisco venir con voi, così il tempo scorrerà in maniera più piacevole...»

    «Brava!» esclamò il signor Calogero. «Sei più coscienziosa di questi buontemponi. E mentre voi sarete via, io non permetterò loro di starsene con la pancia in aria, li farò lavorare e rimettere la nave in ordine».

    Poche ore più tardi, A si trovava sul carro con Leandro e Teodoro sulla strada verso Theriso. Durante il percorso, attraversando una pianura piuttosto brulla con pochi alberi e poche case, Leandro si rivolse ad A e chiese: «Vuoi sapere il vero motivo per cui nessuno dei marinai vuole lasciare il porto di Chania?».

    «Lo so già, perché preferiscono stare senza fare niente, piuttosto che dover portare le casse in qualche posto dell’isola» fu la risposta.

    «Non è questa la vera ragione. Stai ad ascoltare cosa ha da dirti il vecchio...» affermò Teodoro.

    Leandro cominciò allora a raccontare un antico mito di Creta: «Devi sapere che su quest’isola viveva il re Minosse, il quale aveva rinchiuso suo figlio in un labirinto perché aveva il corpo di uomo con la testa di toro. Da tutti era chiamato minotauro e gli uomini avevano un’immensa paura ad affrontarlo, non solo perché temevano la sua forza sovrumana, ma pure per il fatto che nessuno, una volta entrato nel labirinto, conosceva la strada per poterne uscire».

    A guardava Leandro con la testa reclinata da un lato e lo ascoltava con estrema attenzione.

    «Si dice che alla fine il mostro fu ucciso da un giovane chiamato Teseo aiutato da Arianna, la figlia dello stesso re Minosse, che suggerì di lasciare un filo lungo il percorso del labirinto in modo da poter poi ritrovare al ritorno la via d’uscita».

    Prima di concludere, Leandro scrollò la testa: «I cretesi vivono ancora oggi nella paura perché tutti sanno che esiste un nuovo minotauro, si trova nascosto sulle montagne bianche di Lefka Ori».

    «Dove?» chiese A udendo quello strano nome.

    «Laggiù, proprio in direzione della città di Theriso dove noi ci stiamo dirigendo...» spiegò Teodoro puntando il dito verso le montagne che si ergevano davanti ai loro sguardi.

    «Adesso ho capito perché nessuno voleva lasciare il porto!» esclamò A, provando un lieve turbamento a causa della storia raccontata da Leandro.

    Da quel momento, nessuno nominò il minotauro finché non raggiunsero la città di Theriso, dove si fermarono alla trattoria Kalimera per mangiare dell’insalata e dell’ottimo formaggio.

    A un tavolo accanto al loro, vi erano seduti due cretesi che stavano chiacchierando con aria preoccupata.

    «La settimana scorsa ha divorato un giovinetto e altri due uomini che avevano cercato di rubare il segreto che custodisce...» disse Callisto, un pastore che ogni giorno accompagnava un gregge di cinquanta pecore a pascolare sulle montagne.

    «E di quale segreto si tratta?» chiese il contadino Menandro, uno smilzo dal naso aquilino che sedeva al suo fianco.

    «Nessuno lo sa, secondo me si tratta di un ricco tesoro...» affermò Callisto.

    Una voce cavernosa subito lo smentì con asprezza: «Non c’è nessun tesoro, ma qualcosa di ben più importante!».

    Da un angolo buio della trattoria si alzò uno sconosciuto, che portava i capelli lunghi e raccolti dietro la schiena, mentre sulla sua spalla stava immobile una civetta dalle piume grigie e bianche. L’uomo aveva muscoli possenti e nella mano sinistra stringeva un lungo bastone di legno su cui erano scolpiti due serpenti che s’intrecciavano tra loro e le due velenose teste con le lingue dipinte di rosso sangue si protendevano in direzioni opposte, una verso destra e una verso sinistra.

    «Il mio nome è Pathos e voi non sapete proprio nulla dei beni di Mercurio, il messaggero delle antiche divinità, i miei antenati greci lo chiamavano Hermes» disse mettendosi in piedi davanti ai due cretesi che fissava con i suoi gelidi occhi grigi. La presenza di quell’uomo misterioso attirò anche l’attenzione di A e dei suoi compagni che protesero le orecchie per ascoltare ciò che stava per dire.

    Pathos batté con forza il bastone a terra e con voce fiera aggiunse: «Dal ventre di un vulcano furono partoriti un basilisco e un minotauro chiamati a essere i custodi dei due oggetti più preziosi di Mercurio: il caduceo, il suo bastone sacro, e i talari, che erano i calzari alati con cui poteva liberamente volare. Per lungo tempo ho cercato il basilisco e dopo averlo scovato nelle gole di Samaria, l’ho sconfitto strappandogli il caduceo che adesso stringo in pugno!».

    «Il caduceo di Mercurio...» ripeterono meravigliati i due cretesi seduti davanti a lui.

    E mentre A fissava le due teste di serpente sulla sommità del bastone, il pastore Callisto allungò una mano e chiese: «Me lo puoi consegnare un solo momento?»

    «Non provare neppure a sfiorarlo, altrimenti ti stacco un dito a morsi» sbottò Pathos digrignando i denti e di certo lo avrebbe fatto, qualora il giovane avesse osato avvicinarsi.

    Teodoro si rivolse all’oste alzando una mano e urlò: «Porta una bottiglia di vino e un bicchiere». E non appena ricevette ciò che aveva chiesto, si rivolse a Pathos dicendo: «Vogliate accettare il vino che vi offro con rispetto...».

    «Bravo, mi ci vuole proprio, la mia bocca è secca come la terra riarsa dal sole» replicò Pathos. Impugnò subito il collo della bottiglia e ne bevve un lungo sorso.

    Poi mise una sedia con la spalliera sul davanti e si mise a sedere. Quindi ricominciò a parlare: «Tutti vorrebbero avere l’altro dono che Mercurio ci ha lasciato, i suoi calzari alati con cui solcava i cieli di tutto il Mediterraneo, però nessuno è ancora riuscito a sconfiggere il minotauro. Ho visto arrivare stranieri da terre lontane, ma solo io posso essere in grado di recuperare le sacre ali di Mercurio...»

    «Voi sapete se anche i Daimònes hanno provato a recuperare ciò che il minotauro custodisce?» chiese in maniera un po’ incosciente A.

    Il vecchio Leandro guardò la ragazza con preoccupazione, pensando che Pathos si sarebbe irritato per essere stato interrotto.

    Invece l’uomo, dopo aver lanciato una fugace occhiata alla giovane, rispose: «Eccome se ci hanno provato quei bifolchi, ma i loro mantelli giacciono a terra sconfitti sulle montagne bianche. Io non mi preoccupo di nulla, so dove andare a cercare e domani salirò su quelle montagne per ritornare

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