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Il viaggio di A - Libro sesto - A in India
Il viaggio di A - Libro sesto - A in India
Il viaggio di A - Libro sesto - A in India
E-book320 pagine4 ore

Il viaggio di A - Libro sesto - A in India

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Info su questo ebook

Nel libro sesto, intitolato A in India, della serie narrativa IL VIAGGIO DI A, la protagonista si ritroverà coinvolta in un amore inatteso e imprevisto. L'affascinanteHakim di cui si è innamorata ha un carattere gentile, è appassionato di musica e poesia, ma i loro cuori sono inesperti e non sarà semplice trovare la via per rimanere uniti. Durante la nascita di un sentimento così intenso, la protagonista continuerà le ricerche della madre scomparsa. In India ci saranno nuovi amici, come ilsergente Milton Finnegan e lastraordinaria coppia di guerrieri Pradesh e Sadhana. Insieme dovranno affrontare la terribile Kuma e il suo crudele esercito di teschi bianchi, alleato con i Daimònes, intenti a distruggere molti villaggi e a deportare migliaia di prigionieri verso i territori del nord. La protagonista dovrà purtroppo sopportare molta sofferenza, ma potrà confrontarsi anche con laprofonda spiritualità di una terra capace di favorire il risveglio interiore e di accrescere la consapevolezza. Nella prosecuzione del viaggio, A raggiungerà lebianche montagne del Tibet e, dopo alterne peripezie, riuscirà a superare il confine che la porterà fino in Cina.
LinguaItaliano
Data di uscita26 feb 2021
ISBN9791220326247
Il viaggio di A - Libro sesto - A in India

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    Anteprima del libro

    Il viaggio di A - Libro sesto - A in India - Adriano Scarmozzino

    Adriano Scarmozzino

    Il viaggio di

    A

    Libro sesto

    A in India

    Capitolo 1

    La porta d’Oriente

    Un manto d’erba fresca accoglieva teneramente il corpo di A, disteso sulla cima di una collina. Aprendo gli occhi, le sembrò di ridestarsi da un lunghissimo sonno. La ragazza si alzò in piedi e si guardò intorno: alle sue spalle risplendeva il mare, mentre davanti si estendeva una moltitudine di terreni coltivati dai variegati colori. In lontananza appariva una città, però il suo sguardo fu attratto da una piantagione situata ai piedi del colle, dove alcune donne erano impegnate a raccogliere delle capsule di colore bianco.

    A si avvicinò cominciando a parlare con tre donne che però non riuscivano a comprendere la sua lingua.

    La più anziana delle raccoglitrici si voltò indietro per avvisare altre tre donne situate a poca distanza, che a loro volta avvertirono le altre raccoglitrici alle loro spalle dell’arrivo della straniera, finché l’ultima in fondo al campo non avvisò due uomini impegnati a caricare il raccolto sopra un carro.

    Uno dei due sollevò la falda del cappello di paglia che aveva in testa e avvistò la ragazza, quindi diede una pacca sulla spalla del compagno e lo esortò a seguirlo: «Vieni Deepankar, andiamo a vedere chi è...».

    Quando si trovarono davanti alla ragazza, l’uomo con il cappello parlò per primo: «Il mio nome è Joaquim Parvo, chi sei tu e da dove vieni?».

    «Mi chiamo A e vengo da lontano, tu forse riesci a capire le mie parole...».

    «Io sono portoghese e comprendo lo spagnolo, l’inglese e la lingua indiana. Ora dimmi, che cosa ci fai tu qui?».

    «Vorrei raggiungere la città che ho visto dalla collina» replicò A.

    «Tu sai almeno come si chiama?» domandò l’uomo.

    La ragazza scrollò la testa in segno di diniego.

    Joaquim allora sorrise dicendo: «Sei una persona davvero curiosa. Appari all’improvviso come se fossi nata dalle acque dell’oceano, indossando abiti che ho visto portare solo alle donne che giungono dalle terre d’Africa, non conosci neppure la città che gli inglesi chiamano Bombay, però hai uno sguardo sicuro come se ne avessi viste molte di località, prima di arrivare fin qui. Comunque aspetta qualche minuto, vedrò cosa posso fare per te...».

    Dopo che Joaquim ebbe finito di caricare alcune ceste sul carro, spiegò che sarebbe andato a depositare il raccolto e chiese a Deepankar di rimanere alla piantagione.

    Joaquim invitò quindi la giovane straniera a salire sul carro, ma lungo il tragitto non le rivolse altre domande, preferendo parlare di sé e della sua famiglia.

    «Questi terreni li aveva comprati mio padre arrivando in India trent’anni fa con mia madre Estela, quando io ero ancora un ragazzo. Quelle che stiamo portando sono capsule di cotone che la mia famiglia produce da tanti anni grazie al lavoro delle laboriose donne dell’India. Anche mia moglie è indiana e si chiama Vatsala, però non si trova nel luogo in cui stiamo andando adesso».

    Poco dopo giunsero davanti a due capannoni di legno. Joaquim condusse A verso quello più grande, al cui interno erano disposte, su entrambi i lati, due lunghe file di balle di cotone. In mezzo, circa cinquanta donne erano sedute a terra intente a lavorare.

    Una di loro indossava un lungo vestito viola e si alzò per andare loro incontro.

    «Neeraja, mostra a questa ragazza come si fa a togliere le impurità dal cotone grezzo e insegnale qualche parola della lingua hindu, perché lei è una straniera» disse Joaquim.

    «Qui da noi c’è tanto spazio e si può lavorare molto...» replicò la donna.

    «Oggi rimarrà qui con te. Intanto manda qualcuno ad avvisare mia moglie Vatsala che questa sera ci sarà una persona in più nella nostra casa».

    Durante la giornata, A non imparò solamente a pulire il cotone grezzo. Neeraja le insegnò le diverse fasi di lavorazione del cotone, accompagnandola anche nel secondo capannone dove vi erano le macchine con cui si filava.

    A vide i gomitoli di filo bianco e rosa, sistemati ordinatamente dentro delle cassette che venivano messe una sopra l’altra formando delle alte pile.

    Quando Joaquim tornò, raggiunsero insieme una bianca casa di legno, dove ad aspettarli c’era sua moglie Vatsala, una donna dal corpo minuto e dalla pelle bruna. Vatsala e Joaquim non avevano figli e quella sera erano lieti di avere qualcuno a cena con loro.

    «Puoi parlare in spagnolo. Penserò io a tradurre ciò che dici a Vatsala» disse Joaquim portando in tavola delle schiacciatine di pane.

    La moglie giunse poco dopo, portando alcune ciotole contenenti riso e pollo con peperoni tagliati a tocchetti. A gustò il cibo, sentendo al palato che era condito con una salsa piccante, lo trovò delizioso e in pochi minuti mangiò tutto e ne chiese ancora.

    «Mia moglie Vatsala cucina molto bene, sono contento che tu gradisca le sue portate».

    «Questa ricetta è davvero saporita, anche se un po’ troppo piccante per me, però in questo momento ho così tanta fame che mangerei anche un piatto di peperoncini infuocati...» replicò A.

    Joaquim chiese allora a sua moglie di offrire all’ospite dell’altro riso e del pollo, ma di non aggiungere altra salsa piccante.

    «Quando si assaggia la prima volta la salsa al curry bisogna abituarsi al gusto, poi col tempo diventa un ingrediente di cui non si riesce a fare a meno, sono sicuro sarà così anche per te» commentò Joaquim. «Adesso però raccontaci da dove vieni e tutto quello che ti è successo...».

    A dovette parlare a lungo per riuscire spiegare la sua storia e gli avvenimenti accaduti nei molti luoghi attraversati. Quando finì, si accorse che Joaquim e sua moglie erano molto stupiti.

    «Le tue avventure non sono meno incredibili di quelle che ho ascoltato da alcuni vecchi marinai portoghesi, amici di mio padre, che hanno attraversato tutti i mari del mondo» fu il commento di Joaquim.

    «Quando sono partita, nemmeno io lo immaginavo. Adesso mi ritrovo qui e spero di poter ritrovare presto mia madre».

    Durante il racconto, A aveva parlato della crudeltà dei Daimònes, ma né Joaquim né sua moglie avevano mai sentito pronunciare quel nome.

    «Sappiamo però che molte donne e bambini stanno sparendo dai villaggi dal sud dell’India…» disse Vatsala facendo subito tradurre al marito le sue parole.

    «E dove vengono portati?» chiese A.

    «Questo non lo sappiamo» rispose Joaquim.

    «Posso assicurarvi che sono i Daimònes che stanno facendo tutto questo, potranno forse essere chiamati con un nome differente, ma il loro intento è sempre lo stesso, sottomettere i più deboli per dominarli. I loro capi sono ogni volta diversi gli uni dagli altri, ma tutti inseguono il potere e accumulano ricchezze».

    «Non è giusto fare del male agli altri, noi ti aiuteremo volentieri...» disse Vatsala.

    «Potresti rimanere qui a lavorare nella mia piantagione e nel frattempo continuare a raccogliere informazioni su quanto sta accadendo» propose Joaquim.

    «No!» esclamò A. «Altre volte in passato ho lavorato al fine di guadagnare i soldi necessari per proseguire il viaggio, ma questa volta non ho tempo a sufficienza. Devo trovare al più presto le tracce dei Daimònes».

    «Sì, ma dove andrai a cercarli?» chiese Joaquim.

    «Raggiungerò Bombay per sapere qualcosa di più sulle donne e i bambini fatti prigionieri e poi da lì proseguirò le ricerche. Sono sicura che lungo il cammino incontrerò altre persone che stanno andando in cerca dei loro familiari rapiti» affermò A.

    «Tra una settimana dovrò far trasportare un carico di cotone a Bombay e chiederò a Deepankar di accompagnarti. Intanto rimani qui come nostra ospite, così almeno potrai imparare a parlare meglio la lingua indiana».

    Il giorno della partenza, A mantenne un atteggiamento tranquillo lungo tutto il tragitto di fianco al giovane Deepankar, che di tanto in tanto si dilettava a fischiettare con leggerezza. A rimase in silenzio chiudendo spesso gli occhi per riposare la mente. Quando arrivarono a Bombay si salutarono in una via affollata, poi A si mescolò in mezzo alla gente 4 e subito scomparve alla vista di Deepankar. Non vedendola più, il giovane indiano scrollò le spalle e riprendendo a fischiettare si affrettò a raggiungere il luogo in cui doveva consegnare il cotone.

    Come già aveva fatto tante altre volte, A iniziò a chiedere nei negozi notizie sui Daimònes, ma nessuno le rispondeva. Un giovane venditore di frutta le offrì un mango con un gesto cortese, ma parlò con voce contrariata: «Mangiati questo frutto e cerca di non fare domande inopportune, altrimenti potresti pentirtene».

    «Che cosa vuoi dire?» chiese A.

    «Che una ragazza come te farebbe meglio a non mettersi nei guai...».

    «Tu allora sai di cosa sto parlando?».

    Il giovane mostrò un’espressione irritata e, dopo aver afferrato un pugno di frutti di tamarindo, li mise in un sacchetto di carta e li consegnò ad A dicendo: «Ora vattene via e non farti più vedere da queste parti».

    A si allontanò proseguendo per le strade della città, senza però riuscire ad ottenere alcuna informazione utile. Fortunatamente però, nessun altro si rivolse a lei con il tono infastidito del fruttivendolo, altri commercianti furono invece molto gentili e sorridenti. Il proprietario di una locanda le offrì di rimanere qualche ora per mangiare e riposare, ma A preferì continuare a girovagare per le intricate vie della città.

    Alla fine della giornata si ritrovò nei pressi del porto e, dopo aver osservato una fila di piccole imbarcazioni lungo l’arenile, si andò a sedere sulla sabbia e mangiò il mango e i frutti di tamarindo che il giovane fruttivendolo le aveva dato.

    Rimase ad ascoltare le onde del mare e pur trovandosi sola, avvertì un senso di quiete. Poco distante vide una piccola barca capovolta e vi s’infilò sotto con l’intenzione di restarvi a dormire per tutta la notte.

    Passarono solamente quindi minuti e qualcuno sollevò da un lato la barca facendola ricadere sulla sabbia dal lato opposto.

    «Che ci fai tu qui? Avevi intenzione di rubarmi la barca?»

    A si alzò di soprassalto e rimase sorpresa nel trovarsi davanti ancora una volta al fruttivendolo.

    «Rispondi! Perché sei venuta fin qui? Ti avevo detto di non farti più vedere...» sbottò il giovane.

    «Io avevo cercato un posto dove poter dormire, non sapevo neanche che la barca fosse tua».

    «Non venirmi più dietro...» disse seccato il giovane.

    «Io non sto seguendo te, sto solamente cercando di capire dove si trovano i Daimònes e perché hanno rapito mia madre insieme a tante altre prigioniere». E subito aggiunse: «Probabilmente tu ne sai qualcosa, perché altrimenti non ti comporteresti così sgarbatamente con me».

    Dopo aver udito quelle parole, il giovane mutò espressione. Prima si guardò intorno per assicurarsi che non ci fosse nessuno, poi chiese: «Hai detto che hanno rapito tua madre?».

    «Purtroppo sì, spero che sia ancora viva...».

    Gli occhi del giovane si fecero più teneri e la voce divenne calda e gentile.

    «Mi sembra che tu sia sincera. In verità, io potrei portarti con me. Devi però giurare che non svelerai mai a nessuno il luogo in cui ti sto portando».

    A poggiò prima una mano sul cuore e poi portò l’indice sulle labbra, prestando così giuramento.

    «Bene, allora aiutami a trascinare la barca in acqua...».

    Presto si trovarono in mezzo al mare e il giovane, che indossava una maglietta scura e un pantalone bianco annodato alla vita con una semplice corda di cotone, fece capire perché aveva cambiato atteggiamento.

    «Il mio nome è Bhagat. Provengo da un villaggio che si trova nell’estremo sud dell’India, dove sono arrivati gli uomini dai lunghi mantelli che hanno ucciso tutta la mia famiglia».

    A corrugò la fronte rattristata e chiese: «Quegli uomini dai lunghi mantelli portavano anche delle maschere?».

    «Sì, erano maschere rosse dall’aspetto terribile, sembrava grondassero sangue...» disse Bhagat con la paura e il dolore ancora presenti nei suoi occhi.

    A parlò dei Daimònes senza nascondere il proprio sdegno: «Molte volte li ho incontrati, sono ogni volta diversi e sempre uguali, nascondono i loro volti per non farsi riconoscere e strappano brutalmente le vite umane come fiori recisi dai prati. Il loro agire è ripetitivo, monotono e fastidioso. Sono sempre crudeli con i più deboli, ma io ho combattuto molte volte contro di loro e non li temo».

    Le onde del mare erano un po’ mosse e Bhagat dovette faticare per raggiungere la riva di un’isola, dove la luce di una torcia lo attendeva sulla spiaggia.

    Non appena mise il piede sulla sabbia, Bhagat disse: «Rajiv, sono tornato, ma non sono solo».

    «Lo vedo...» replicò Rajiv che subito porse a Bhagat la cima di una fune che aveva legato al tronco di un albero. E una volta piantata la torcia nella sabbia, aiutò l’amico a portare la barca fuori dall’acqua.

    Rajiv riprese subito dopo la torcia e indicò il percorso tra gli alberi finché non giunsero all’ingresso di una grotta scavata nella pietra.

    «Aspetta qui con lei, io torno subito...» disse Bhagat a Rajiv.

    A rimase ad osservare la grossa statua di un elefante di pietra che si trovava proprio davanti all’ingresso. Ogni particolare dell’animale era stato scolpito con tale abilità da farlo sembrare reale e il suo aspetto trasmetteva una sensazione di tranquillità.

    Bhagat si fece rivedere qualche minuto dopo e invitò la ragazza a seguirlo.

    I due giovani entrarono in una sala tutta scavata nella roccia, sorretta da pilastri di pietra. In piedi c’era un uomo dai capelli biondi ben pettinati, indossava una divisa dalla giubba rossa con pantaloni blu e stivali. Alla cintola portava una spada e nella mano destra teneva la canna di un moschetto con il calcio poggiato a terra.

    «Benvenuta sull’isola dell’elefante» disse rivolgendosi ad A. «Il mio nome è Milton Finnegan. Ho saputo da Bhagat che tu hai combattuto contro i Daimònes e intendi seguire le loro tracce...».

    «È proprio così!» replicò A, raccontando brevemente delle sue battaglie combattute al fianco dei volontari conosciuti in Africa e in Europa. Quando ebbe finito, disse: «Dopo tante peripezie sono arrivata su quest’isola, ma non credevo di trovarmi davanti a un soldato in divisa».

    L’uomo sorrise ironicamente e subito replicò: «Io ero un soldato inglese, però adesso non più. Porto ancora la divisa, però ho strappato i miei gradi di sergente, perché ho scelto di combattere la mia battaglia contro i Daimònes e l’esercito dei teschi bianchi. Ho abbandonato l’esercito perché, quando sono arrivato in India, mi sono accorto che qui vive un popolo meraviglioso da cui avevo molto da imparare. Negli anni di permanenza in questa terra straordinaria, ho capito presto che il popolo dell’India veniva sfruttato dal nostro esercito e allo stesso tempo doveva fare i conti con i Daimònes e il loro esercito del male. Allora ho deciso che non volevo stare né dalla parte degli stranieri oppressori né tantomeno con quegli esseri malvagi che portano terrore in ogni villaggio. Così ho raccolto qualche decina di uomini e donne, insieme abbiamo scelto questo luogo per iniziare a organizzarci. Non siamo ancora molti, ma siamo tutti pronti a combattere».

    «Non avevo mai sentito parlare dell’esercito dei teschi bianchi» affermò A.

    «E neppure di Kuma la terribile?» domandò Milton.

    «Non ne so nulla...».

    «Kuma è la donna più malvagia che esista e devasta i villaggi con i suoi fanatici soldati che hanno il corpo dipinto e somigliano a scheletri. Spesso porta intorno al collo un serpente e ogni giorno compie un sacrificio umano per soddisfare la sua sete di potere. Durante il suo passaggio, vengono distrutte le case e abbattuti i templi. Il suo esercito trascina via con la forza gli abitanti dei villaggi e chi si oppone alla loro follia viene miseramente ucciso».

    «Com’è possibile che proprio una donna dimostri tanta violenza? E dove vengono portati i prigionieri?».

    «Ho imparato che quando una donna perde il legame con la terra e gli altri esseri umani, non è più portatrice di vita, ma solo di morte. Kuma beve il sangue dei suoi nemici e calpesta senza rispetto la terra ricoprendola di cenere. Per quando riguarda i prigionieri, sappiamo solamente che vengono portati verso un luogo segreto per poi essere uccisi o venduti» rispose Milton.

    «Sapete se sono arrivate navi dall’Europa? Sopra una di quelle sono sicura si trovi anche mia madre...».

    «Non passa un solo mese senza che arrivi qualche nave dall’Occidente carica di schiavi. Abbiamo scelto quest’isola anche perché possiamo controllare gli approdi sulle coste di questa parte di territorio dell’India. Il giovane Nirad sale tutti i giorni sulla cima di una collina per avvistare, con il cannocchiale che io stesso gli ho consegnato, ogni passaggio per mare. Adesso però andiamo a riposare, al risveglio potrai visitare l’isola e ti renderai conto che questo è un piccolo paradiso in mezzo all’oceano. Rimarremo qui ancora una settimana, poi raggiungeremo la terraferma e ci dirigeremo verso nord...».

    Quando le onde del mare furono illuminate dal sole mattutino, Bhagat e Rajiv accompagnarono A in giro per l’isola.

    A rimase meravigliata dalla variegata vegetazione e dal fresco profumo dell’aria.

    «Guarda, quelli sono gli alberi di tamarindo e di mango da cui raccolgo i frutti da portare al mercato» disse Bhagat.

    «Quest’isola è un giardino rigoglioso in cui non manca nulla per sfamarsi. E pensa che ci sono circa quaranta guerrieri distribuiti nelle diverse grotte» aggiunse Rajiv.

    I due giovani le fecero conoscere anche alcuni dei loro compagni incontrati lungo il cammino.

    «Sono contento del tuo arrivo. Quando aumentiamo di numero, diventiamo più forti» le disse Ishan, un uomo molto magro con le braccia ossute e il viso smunto che teneva una lancia in mano. Aveva uno spirito allegro e prima di allontanarsi aggiunse: «Sto andando nell’acqua del mare a infilzare del buon pesce, oggi voglio fare una pesca abbondante».

    «Allora ci vediamo più tardi per pranzare insieme» replicò A sorridente.

    Proseguendo la visita dell’isola, udirono il fischio di una freccia scagliata in mezzo agli alberi.

    «Che cosa sta succedendo?» chiese subito A.

    «Non preoccuparti. È certamente Pradesh, il più forte dei nostri guerrieri che si sta allenando».

    «Vorrei conoscerlo...» disse A.

    Insieme raggiunsero alcuni alberi di palma vicini alla spiaggia, dove vi era un uomo dai capelli intrecciati lunghi e neri. Indossava un pantalone color amaranto e mostrava i muscoli tatuati del suo petto. Aveva una spada stretta alla cintola e sulla schiena la faretra colma di frecce e nella mano sinistra stringeva il suo arco.

    A poca distanza c’era seduta a terra una giovane donna che apparve subito bellissima con i lineamenti del viso delicati, gli occhi castani e le labbra carnose. Indossava un sari di seta dorata, un tipico abito indiano lungo fino alle caviglie. Aveva i capelli molto scuri e lungo la riga centrale della pettinatura portava una catenella d’argento a cui era agganciato un pendente che ornavano la fronte insieme a un piccolo cerchio rosso dipinto in mezzo alle sottili sopracciglia. Dai lobi delle orecchie pendevano dei vistosi orecchini e al braccio destro portava numerosi braccialetti, mentre al polso sinistro vi era annodato un fazzoletto. Anche lei aveva una spada e accanto a sé teneva un martello di pietra.

    «Pradesh e Sadhana, vi chiedo di ascoltarmi. È giunta sulla nostra isola una ragazza che ha combattuto contro i Daimònes, si chiama A» affermò Bhagat.

    «Benvenuta» disse Sadhana alzandosi.

    Pradesh prima fissò dalla testa ai piedi con occhi diffidenti, poi affermò con tono di sfida: «Se hai combattuto contro i nostri nemici, allora dovresti saper usare un’arma».

    «So usare bene la spada...» replicò subito A.

    «Bene, però se vuoi far parte del nostro gruppo, allora devi dimostrarcelo! Sadhana, prestagli la tua lama».

    La splendida guerriera indiana si avvicinò lentamente verso A, camminando flessuosa e osservandola sempre dritta negli occhi con uno sguardo amichevole.

    «Prendi pure la mia talwar, è un’ottima spada. Ora pensa bene a difenderti, Pradesh è il guerriero più forte che ci sia...» affermò Sadhana.

    «Mi farò valere...» fu la replica di A che accolse l’invito di Pradesh.

    «Volete davvero combattere?» chiese Rajiv incredulo.

    «Lasciamoli fare...» disse Bhagat curioso di conoscere la forza e l’abilità di A.

    Dopo aver afferrato la spada lunga e ricurva di Sadhana, A si posizionò a una decina di passi di distanza, proprio di fronte a Pradesh che teneva in mano un’arma dall’elegante elsa metallica ricurva, dotata di una lama dritta e a doppio taglio, robusta e affilata, ma priva di punta sull’estremità.

    «Non potrai avere la meglio contro la mia khanda, è una spada invincibile».

    A non replicò nulla e intanto cercava di prendere confidenza con l’elsa della spada, roteando leggermente il polso e stringendo con forza a più riprese le dita per farle meglio aderire all’impugnatura.

    Pradesh avanzò e presto sferrò un primo colpo trasversale che A parò con un movimento rapido. Seguirono altri tre colpi, però A non ebbe problemi a mantenere la difesa.

    «Mi sono bastati pochi colpi per capire che tu combatti seguendo regole rigide, ottime per altri campi di battaglia, ma da queste parti non ti serviranno a nulla...».

    «Che cosa vuoi dire?» domandò A.

    «Adesso te lo faccio vedere» esclamò Pradesh che subito si scivolò a terra e con uno sgambetto fece cadere a terra A. Dopo essersi rimesso immediatamente in piedi con un colpo di reni, il guerriero le puntò la spada al petto dicendo: «Sei abile, ma se vuoi sopravvivere qui in India dovrai apprendere molte cose da me e Sadhana».

    Poi allungò una mano e aiutò la straniera a rialzarsi, dicendo: «Se vuoi imparare, qualche volta possiamo allenarci insieme».

    «Va bene» disse A. E dopo aver riconsegnato la spada a Sadhana, stava per andare via insieme a Bhagat e Rajiv.

    «Ti aspettiamo domani...» disse Sadhana. A si voltò e vide il suo volto sorriderle amichevolmente.

    «Sì, domani...» ripeté A prima di allontanarsi.

    «Non devi far caso al comportamento esuberante di Pradesh. Presto ti renderai conto che è un uomo leale e generoso. In lui convivono l’amore incommensurabile verso Sadhana e l’odio viscerale nei confronti dei Daimònes» spiegò Bhagat. «Adesso però non pensare alla sfida con lui, perché dobbiamo salire sopra una delle due colline dell’isola».

    Appena giunti a metà della salita, trovarono il giovane Nirad appostato con il cannocchiale in mano nei pressi di un promontorio che si affacciava sul mare.

    «Ti gusti un bel panorama da quassù...» disse Rajiv ammirando l’ondeggiare delle onde sulla vasta distesa dell’oceano indiano.

    Nirad abbracciò i suoi amici e conobbe A che subito gli chiese informazioni sulle navi approdate negli ultimi tempi.

    Il giovane descrisse le imbarcazioni che avevano solcato quel tratto di mare e dalle sue parole riconobbe le caratteristiche delle navi spagnole e italiane che lei stessa conosceva.

    «È probabile che siano proprio quelle che sto cercando» affermò A. «Se in questi giorni ne passano delle altre, ti prego di informarmi».

    «Lo farò senz’altro» assicurò Nirad.

    «Vieni, ti dobbiamo far conoscere il maestro Parvati» disse Bhagat.

    «È un maestro spirituale che dopo aver vagato per tutta l’India si è ritirato sulle alture di questa collina e in questo momento sta pregando» spiegò Nirad.

    Quando arrivarono sulla cima, trovarono il maestro Parvati seduto a terra, con i polsi poggiati all’altezza delle ginocchia e i palmi delle mani rivolti verso l’alto.

    Aveva i capelli lunghi e grigi che gli scendevano sulle spalle, ma il suo viso era glabro e ancora giovanile. Il suo volto era illuminato dalla luce del sole e trasmetteva una serena quiete.

    «Aspettiamo qui senza disturbarlo, sarà lui a parlarci per primo...» disse Nirad.

    Il vento soffiò ancora per diversi minuti nel più assoluto silenzio, poi il maestro domandò: «Chi sei o straniera, che sali sulla collina dell’isola dell’elefante?»

    «Mi chiamo A e attraverso ogni luogo per cercare mia madre».

    «Ricordati che ogni madre è il simbolo della terra da cui tutto proviene. Hai già imparato che la terra è la sposa del cielo e noi tutti siamo suoi figli».

    «Che cosa posso fare io per avvicinarmi a mia madre?» chiese A.

    «Chiunque giunge in India può scoprire che questa è la casa della spiritualità. Per tutto il tempo hai lanciato la tua anima fuori di te, inseguendo chi ami tra molti affanni. Qui imparerai che devi prima guardare dentro di te per trovare ciò che cerchi.

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