Un giorno a Shangai: L'ultima briciola
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Anteprima del libro
Un giorno a Shangai - Gabriella Bonaiuti
giorno
LA TELEFONATA
«Pronto, buongiorno, sto cercando il numero di Pieri Mario a Livorno».
«Buongiorno, sì, mi risultano tre Pieri Mario, sa l’indirizzo?».
«No, mi dia pure il primo della lista».
«D’accordo, vuole che le passi direttamente la chiamata?».
«Sì, grazie».
Sono le 8.30 di mattina, domenica 9 maggio 2004.
La telefonata parte dalla Telecom.
Risponde subito una voce maschile, nemmeno troppo assonnata.
«Pronto, buongiorno. Sono la Dottoressa Rossi dell’ASL di Firenze, cercavo la Signora Zoli Anna».
«Mia moglie?».
Silenzio.
«…È morta qualche tempo fa».
«Morta?».
Esco dal personaggio della Dottoressa Rossi e continuiamo a parlare.
L’uomo mi dice che aveva avuto un brutto male alla testa e che per maggiori informazioni avrei dovuto chiedere a suo figlio Marco perché al momento aveva da fare.
Saluto e ringrazio.
La telefonata finisce.
Mario Pieri non rimase stupito dalla mia telefonata improvvisa di domenica mattina presto. Sembrò credere alla storia della dottoressa.
Mi chiese soltanto se l’avessi conosciuta e mi disse che era sepolta al cimitero comunale di Livorno.
LA DOTTORESSA GIANNA
«Non fare sciocchezze» mi disse la dottoressa Gianna, la mia psicologa, il giorno prima allo studio.
Le sale d’attesa sono di solito luoghi poco accoglienti. Ti guardi attorno con fare circospetto, cerchi di lasciare un posto libero tra te e gli altri avventori, se ce ne sono.
Non che dalla psicologa si abbia effettivamente modo di incontrare altri pazienti, ma la sensazione è sempre la stessa, come dal medico di base, quando il colpo di tosse del vicino, o il pensare che gli altri abbiano potuto sfogliare la tua stessa rivista leccandosi il dito, ti fa subito temere il contagio.
Invece io ci avevo trascorso tutto il giorno, dalla tarda mattinata fino all’ora in cui, come ogni sabato, dovevo andare al ristorante a lavorare.
Beh, in realtà non era il mio lavoro, era quello che, come si dice, si fa per arrotondare, perché io di dipendere dagli altri proprio non ne ho mai voluto sapere e allora mi arrabattavo in mille lavori, seri ovviamente. Ma occasionali, giusto per racimolare quel che mi serviva per vivere come avrei voluto.
Seduta, ferma, cosa particolare per me che sono sempre stata un fermento vivente, a leggere i numerosi fogli che mi erano stati consegnati dal tribunale.
Ogni tanto Gianna usciva e, tra un paziente e l’altro, mi aiutava a decifrare la calligrafia delle parti scritte a mano.
Lo studio era dentro un palazzone antico, succursale dell’Asl di Firenze. Uno di quegli edifici al cui interno senti gli spifferi dell’antichità. Il buio dell’androne, le scale in pietra con la ringhiera in ferro battuto.
Al primo piano c’era un bilocale, il famoso studio dello strizzacervelli. Tutto molto scuro, soffitti alti, mobili cupi.
Più luminosa la sala d’attesa, come se questo gioco di luci rappresentasse qualcosa, e per me era proprio così.
Gianna, la dottoressa, era una donna mascolina. Poco femminile anche nell’abbigliamento, sempre giacche e pantaloni, senza trucco, con le sopracciglia imponenti.
Era sposata e aveva due figli, uno adottato.
C’è sempre un filo conduttore.
La terapia aveva cadenza settimanale fissa.
All’inizio non ero molto convinta di andarci; si ha paura delle cose che non si conoscono ed io ne avevo molta, molti dubbi, tante domande… Poi pian piano mi sono resa conto che quel luogo sarebbe potuto diventare prezioso e importante, e così in effetti è stato.
È un’esperienza tosta, quella della terapia, soprattutto le prime sedute. Mi veniva sempre da piangere. Erano lacrime di rabbia, da incanalare nella lettura delle carte, di quei fogli passati attraverso mille mani, ma non le mie, dei misteri, delle bugie, dei mille punti interrogativi ai quali nessuno aveva mai risposto.
Anche dopo le scoperte, fatte tramite il tribunale, avevo continuato a fissare appuntamenti, un paio di volte al mese nonostante la dottoressa Gianna avesse già ventilato la possibilità di considerare la terapia conclusa.
No, io non sono così! Se non sono certa di restare salda in terra continuo, continuo a chiedere, a mettermi in discussione e a voler arrivare alla verità assoluta.
Avevo maturato l’idea di rivolgermi a uno psicologo quando, per comprare casa, dovetti richiedere l’estratto di nascita analitico in Comune.
Fu allora che saltò fuori il nome della mia città di provenienza: Livorno.
Di essere nata a Pontedera, l’ho sempre saputo, facile c’è scritto sulla carta d’identità, almeno di quello ero certa. Ma di essere originaria di Livorno - una città che trovo fantastica - no, nessuno in famiglia mi ha mai menzionato la cosa.
Dico sempre che sono stata circondata da attori eccelsi, abili menzonieri travestiti da buonisti e lo dico davvero col sorriso in volto, ci mancherebbe, ma ad ognuno il suo mestiere.
Torniamo a quel foglio, che in un minuto mi ribaltò la vita. Con quel documento in mano mi fermai a fumare una sigaretta sotto casa dei miei genitori.
Salii di sopra.
La tavola era apparecchiata.
Io pranzavo esattamente di fronte a mia madre. Mio padre sedeva alla mia destra.
C’era qualcosa che non mi tornava.
BARBARA
Nata a Pontedera il 02/08/1976
Proveniente da LIVORNO
Ecco quel proveniente da Livorno mi risuonò come un richiamo.
Chiesi spiegazioni a mia madre.
La guardavo dritta negli occhi.
Lei no.
Mia madre spesso non mi guardava negli occhi.
«Non è possibile, avranno sbagliato in Comune, domani ti accompagno io e ci facciamo dare il foglio giusto».
In Comune non andammo mai e l’argomento, ahimè, cadde nel calderone delle piccole grandi bugie di famiglia.
Però io non stavo bene.
Sentivo un malessere dentro che cresceva sempre più. Un senso di estraniamento. Una percezione labirintica di crollo delle fondamenta.
Decisi così di rivolgermi al mio medico di famiglia, persona splendida, e fu lui che mi suggerì il nominativo della dottoressa Gianna, eccellente psicologa.
Da quel momento iniziò il mio vorticoso viaggio a ritroso, alla ricerca delle mie origini, dei documenti dell’adozione e delle notizie sulla mia famiglia naturale.
Dovete perdonare noi figli adottivi. Seppur cresciuti in famiglie meravigliose e circondati d’amore, coviamo e coveremo sempre una sensazione di cerchio mai chiuso.
Non è colpa nostra e il vostro amore ci riempie totalmente, non è per questo che affannosamente abbiamo sete di sapere, ci scorre nelle vene, sta nel nostro